2. Il Chiesino degli angiolini
Venne così il giorno umiliante in cui gli eremiti forzati cominciarono a interessarsi ai rifiuti dei poliziotti.
Il passaggio dalle abitudini del vivere civile a questo mondo di talpe fu penosissimo. Eppure, una volta entrati nel nuovo ordine d’idee, alcuni ne ricavarono – e Clé fu tra di loro – uno schiaffo vitalizzante. Era come dire: “Posso superare anche questo... Ah, ah, c’è speranza!” Da principio ognuno agiva di nascosto, all’insaputa dei compagni. Clé, la sera addormentandosi, faceva segretamente la lista dei “recuperi” realizzati nella giornata. Un torso di cavolo stamani spazzando (ottimo), una buccia di mandarino alle undici vicino all’ingresso (squisita), una mezza patata alle tre, nella scatola delle immondizie (divina), una coda di pesce alle sei, appena buio, peccato avesse dei capelli attaccati, ma non c’era possibilità di lavarla (schifosa, eppur nutriente).
Fu uno di quei giorni che il chimico napoletano sorprese Clé con le mani dentro la cassetta delle immondizie: “Anacleto, non ti vergogni? Guarda un po’, un professore della Imperiale Università a cosa si deve ridurre...” Probabilmente Clé arrossì, forse si ritirò. Pochi minuti dopo però, affacciandosi per caso alla finestra della cucina, Clé osservò il distinto chimico intento alla medesima operazione di recupero! Ora viene da ridere rievocando simili scenette, ma allora erano cose che si vivevano come tragedie sconvolgenti.
Altro intimo terremoto per tutti fu il primo furto. Clé non lo avrebbe dimenticato mai. Si trattava di alcune carote. Le verdure stavano dentro uno sgabuzzino al quale si poteva accedere scalando alcuni muri. Da buon alpinista Clé se ne accorse ben presto e, una sera tardi, decise di tentare la sorte. Le verdure di questo deposito erano quelle dalle quali i poliziotti traevano le razioni, dunque non poteva esserci danno per i compagni. Clé salì, oltrepassò un finestrino e cadde sopra un mucchio di carote. Gli sembrarono oro, diamanti, rubini, uranio, le più favolose ricchezze della Terra! Clé se ne riempì la camicia per portarne di nascosto alla famiglia, e fuori, al chiarore della luna, ne mangiò una: “Dio mio perdonami!” mormorava masticando la squisita radice tutta terrosa.
Molti anni più tardi Clé ebbe occasione di leggere degli scritti di Primo Levi. Naturalmente Auschwitz doveva essere incomparabilmente più terribile del Tempaku, però in certi particolari minori c’erano delle somiglianze. Per esempio Primo Levi parla di una “sospensione del decalogo...”. “Rubare non era considerato un crimine o un peccato... Rubare ai tedeschi (qui leggi ‘ai giapponesi’) non era un peccato. Al contrario era un punto d’onore farlo senza essere sorpresi o puniti...” Sotto questo aspetto Auschwitz e Tempaku producevano effetti analoghi.
Piano piano i “recuperi” divennero cosa normale; nessuno se ne vergognava più. Anzi “la malavita si organizzò” e le operazioni ebbero luogo in due, in tre, in quattro: “Tu fai da palo, poi ci dividiamo i granatieri (i fagioli), l’amido (il riso), le cellule (le uova). Tu distrai i poliziotti, poi ti diamo un terzo della caccia”, e via dicendo...
Un giorno l’ingegnere fece una scoperta strabiliante: la chiavetta d’un suo baule apriva senza sforzo alcuno il lucchetto di quel sottoscala che Somi aveva subito battezzato “il Chiesino”, dove gli angiolini tenevano nascosto ogni ben d’Iddio. Il fatto era troppo grosso e importante: elettrizzò un po’ tutti! Le discussioni che seguirono furono lunghe, astiose, violente quel tanto che permetteva l’atmosfera di congiura in cui si svolgevano. I vecchi, che, come abbiamo detto, disponevano di qualche supplemento alimentare dalle famiglie, non volevano sentir parlare di recuperi: “È una follia,” diceva persino il diplomatico, “se gli angiolini se ne accorgono, vi fanno fuori, e pagheremmo anche noi”. Alcuni dei giovani erano dubbiosi: “L’idea è magnifica,” osservò filosoficamente Somi, “ma le emozioni fanno venire la fame, e la fame richiede più cibo, e per avere più cibo bisogna aumentare i furti. È un circolo vizioso...” A conti fatti, i fedeli del Chiesino restarono in tre: l’ingegnere, il friulano e Clé.
Il colpo andava studiato con cura, in tutti i suoi particolari. Non solo, ma bisognava prendere appena un minimo, da calcolarsi con la più astuta attenzione; inoltre i poliziotti andavano costantemente osservati sia prima che dopo: “C’è il caso che per qualche tempo facciano finta di nulla, in modo da sorprenderci in seguito e meglio...” Fu deciso che il momento adatto doveva essere una cert’ora della sera, possibilmente in una giornata di vento, quando la squadra del nuovo turno aveva preso da poco servizio, e quando venivano trasmesse le notizie per radio. L’occasione offriva due vantaggi: uno che l’altoparlante monopolizzava le orecchie e l’attenzione degli angiolini, due, che eventuali ammanchi sarebbero stati molto probabilmente attribuiti ai furti “legalizzati” dei colleghi del turno precedente. Furono preparati in gran segreto dei piccoli sacchi per nascondere la refurtiva, e i congiurati attesero il gran momento. Per le sue conoscenze di giapponese era fin troppo evidente che il palo doveva farlo Clé: questo gli dispiaceva perché avrebbe voluto trovarsi con gli altri “che agivano sul serio”; eppure anche il compito assegnatogli poteva all’improvviso diventare difficilissimo e pericoloso.
Sapendo che i poliziotti si preoccupavano molto di certi to-pacci, i quali gironzolavano per il Tempaku partecipando senza autorizzazione al festino delle derrate nascoste, Clé si munì d’un bastone e d’un grosso barattolo di latta vuoto. Se fosse comparso Kasuya, o uno degli altri, Clé avrebbe lasciato cadere rumorosamente il barattolo, avvertendo con ciò i compagni di chiudere e darsela a gambe, e nello stesso tempo si sarebbe gettato a capofitto sotto un tavolo lì vicino gridando: “Al topo! Al topo!” e cercando, per maggior sicurezza, di coinvolgere il poliziotto in un capitombolo accidentale.
Chi dimenticherà mai la prima spedizione? Il trio fatale si avvicinò al Chiesino da parti opposte e Clé si fermò dinanzi all’uscio dei poliziotti. Appena fu sicuro che la radio aveva cominciato a trasmettere le notizie, il giovane fece cenno ai compagni che sparirono. Il cuore gli galoppava in petto; il tempo sembrava scorrere con la lentezza d’una tartaruga; ogni rumore diveniva un urlo; i poliziotti stavano fermi, ascoltando la radio; di là nel corridoio Clé intese il fruscio lieve della porta scorrevole del Chiesino. “Eccoli, lavorano” pensò. D’un tratto si vide un’ombra sul vetro smerigliato della porta oltre la quale stavano gli angiolini. “Kasuya!” Clé lo riconobbe dalla sagoma, dai suoi gesti felini, eleganti, odiosi. “No, è stato un istante in ascolto, poi è tornato a sedere. Che abbia indovinato qualcosa? È troppo furbo quell’uomo, ce la faremo a restare impuniti?” Sette o otto minuti dopo, quando Clé intese l’uscio del Chiesino che veniva piano piano richiuso, e capì che poteva andarsene, era sfinito dalla tensione.
Pochi minuti più tardi i tre si ritrovarono al primo piano nella cosiddetta “stanza dei bagagli”. Era proibito andarci senza un permesso speciale, ma in inverno nessuno dei poliziotti andava mai lassù per via del freddo.
“Tu avessi visto!” esclamò l’ingegnere. “Che meraviglia: riso, riso, scatoloni interi di riso! Dio com’era bello, sembravano perle, non chicchi... Avrei voluto prenderne dei chili, ma ci siamo limitati a pochi go. È meglio, è più prudente... Poi dovevi vedere, fagioli, pasta, uova... Pensa, uova, ma tante uova! E zucchero! Che sogno!”
Sembrava che i tre fossero dei ladri di tesori, di cose antiche e rarissime. Era come se i loro discorsi riguardassero rubini, zaffiri... Le loro parole erano simili a quelle degli innamorati. Le relazioni tra uomini e cibo erano in quei momenti tenere, mistiche, religiose, soffuse di poesia, pronte a divenire liriche alla minima provocazione. Fu in quei tempi, in simili circostanze, che Clé imparò a comprendere tanti aspetti della vita primitiva che possono sembrare strani e un po’ balzani: divinità delle biade, delle focacce, del granturco, orsi sacri, renne sante, salmoni benedetti.
Da allora praticamente sino alla fine della prigionia il “decalogo fu sospeso” e i “recuperi” occuparono buona parte del tempo dei “congiurati”, e moltissimi dei loro pensieri. E fu proprio grazie ai “recuperi” che riuscirono a sopravvivere in modo discreto. Protetti da un benefico dio di quelli minori, ma furbi ed efficaci (Mercurio? Ebisu? Daikoku?), ebbero tutti la ventura di non essere mai scoperti. Qualche volta il pericolo fu sfiorato molto da vicino, ma si trattò in definitiva soltanto di paure.
Così, non si sa bene come, ingegnandosi, facendo i ladri, attaccandosi all’impossibile per non restare sopraffatti dalla fame, frugando tra i rifiuti, vincendo schifi e vergogne, il peggio del durissimo inverno del 1944 venne superato. Il 5 marzo i confinati ricevettero la visita del colonnello Principini, colui che rappresentava l’Italia di Salò, con alcuni suoi dipendenti. Unica lingua ammessa, il giapponese. Del resto il neo-diplomatico fu tenuto a notevole distanza. Impossibile fargli capire che al Tempaku imperava la fame. Inoltre, per chi non l’ha provata, che vuol dire “fame”? È semplicemente un termine del vocabolario, non un vuoto angoscioso dell’organismo.
Più beffarda ancora fu la visita di un inviato della Croce Rossa, il 10 marzo. Fin dalla sera prima Giorgio, che era sempre il più svelto ad annusare le novità, era corso in giro dicendo: “Ci sono cose importanti per aria, vedrete!” Bastava una simile notizia per rendere tutta la comunità isterica: speranze, paure, i sentimenti più diversi, spesso di segno opposto, ardevano a pazze fiammate nei cuori stanchi, snervati, avviliti dalle miserie e dalla solitudine. La vera sorpresa ebbe luogo la sera stessa quando venne consegnato il famoso bun, la scatola delle razioni: riso, il doppio del solito, oltre a otto uova e parecchie altre cosette dal gradito aspetto. “Ci vogliono nutrire per mandarci fuori... E la liberazione!” esclamava qualcuno. “Macché, ci rinforzano per trasportarci tutti in prigione,” obiettava un altro. Infine si presentò Kasuya e, tutto sorrisi da serpente, dette istruzioni su come andava cucinato il ben d’Iddio elargito per l’indomani, e soprattutto ricordò che bisognava attendere il suo segnale prima di mettersi a tavola.
La mattinata trascorse tra le più vive emozioni: ora le speranze venivano rianimate da qualche particolare incoraggiante, ora gli animi ricadevano nella più nera disperazione per qualche, non meno fatuo, indizio negativo. Infine la colazione fu pronta; oltre al solito riso, una bella frittata di fagiolini riempiva davvero un secondo piatto, una cosa da impazzire di gioia! Al segnale di Kasuya, gli internati si posero a sedere e cominciarono a mangiare. Dopo pochi secondi la porta si aprì e apparve un distinto signore europeo dall’aria nordica, il quale gettò uno sguardo in giro per la saletta con espressione soddisfatta e compiaciuta, sorridendo benignamente ai reclusi. L’apparizione fu così fulminea, e tanto abilmente orchestrata dal demone Kasuya, che i miserelli del Tempaku non ebbero il tempo di riaversi e di gridare al compassato gentiluomo in inglese, in tedesco, in qualsiasi lingua, che si trattava d’una commedia immonda e crudele, e che mai dall’inizio della prigionia s’era visto un simile pasto-teatro, e che in realtà il regime locale era di fame.
Kasuya, con un elegante balletto d’inchini e di sorrisi, fece allontanare l’ospite. Solo dopo si venne a sapere che s’era trattato d’un delegato della Croce Rossa. Per caso il distinto signore svizzero portava un nome perfettamente adatto al suo carattere: si chiamava infatti Angst (Paura). Pare che tornato a Tokyo dichiarasse a tutti: “Oh, ma gli italiani dissidenti del Tempaku stanno benissimo. Non manca loro niente!”
L’unica visita che si risolse in qualcosa di concreto, durante la lunga permanenza dei “dissidenti” nel campo di Tempaku, fu quella di monsignor Marella, il delegato apostolico in Giappone. Apparve sorridendo, posando i piedi a terra da una lunga macchina nera, lucidissima, e riuscì persino, con perfetta diplomazia, a sopraffare Kasuya e quindi a parlare lungamente con tutti ascoltando finalmente le lagnanze accumulatesi negli animi da oltre un semestre di prigionia. Ripartendo per Tokyo il monsignore lasciò ai Tempaku un vero deposito di scatolame che servì per almeno un paio di mesi a integrare le misere razioni, e a liberare gli animi dalle paure e dalle avventure dei recuperi.
Comunque nessuna di queste visite mutò in maniera fondamentale la posizione dei detenuti. “Aprile,” annotava Malachite nel suo diario. “Tutti sono talmente giù... e dalla grande speranza sono passati al gran pessimismo. Dalla sicurezza di uscire a marzo, alla sicurezza di dover rimanere qui per anni e anni. I nostri compagni sono come dei bambini; si arrabbiano tra di loro: ‘Io voglio il tè prima delle nove, io dopo le nove, io voglio le carote tagliate a quadretti, no io le voglio a fette... Chi ha toccato le mie pantofole? Chi è che esce senza chiudere la porta?’ O peggio, discussioni personali e insulti.”
La guerra per quel che ne sapevano i membri dell’isolata comunità al Tempaku, pareva del tutto ferma, in stallo completo. L’atteggiamento dei poliziotti era sempre lo stesso. E qui bisogna riconoscere, anche nel male, anche subendone le tristi conseguenze, lo straordinario carattere dei giapponesi. È difficile che da noi dei poliziotti sarebbero riusciti ad avere tanto dominio su se stessi da perseguire per mesi, per anni, senza sgarrare d’un secondo, un piano così complesso di minute vessazioni: ci sarebbero state delle giornate di fiacca, delle ore di accomodamento, forse la vulnerabilità d’un moto pietoso, l’interesse per qualche piccola corruzione, per una bustarella reale o simbolica. Con i giapponesi no, era come avere a che fare con un ordine di religiosi: inattaccabili, incorruttibili, immutabili. Permanentemente sulla breccia.
Dopo la stagione delle piogge, che termina ai primi di luglio, c’era stato, per qualche arcana ragione, un pesante giro di vite. Forse un nuovo superiore più severo era stato insediato all’ufficio centrale, forse si trattava di disposizioni generali, chissà? La denutrizione, la miseria morale erano arrivate a tal punto che un giorno i detenuti decisero di protestare con uno sciopero della fame: fu cosa quasi improvvisa, un’idea buttata là e accettata subito da tutti. “Almeno qualcuno si accorgerà che esistiamo,” dicevano i vecchi, ai quali, tra l’altro, era stato proibito di ricevere le solite piccole integrazioni alimentari dalle famiglie.
Ora – e questo fu possibile accertarlo soltanto poi, dopo la fine della guerra – l’ultima cosa al mondo che la polizia di Nagoya desiderava era proprio che il Tempaku “fosse notato”. A Tokyo doveva risultare che tutto filasse in modo perfetto (come aveva testimoniato il signor “Paura” della Croce Rossa): soltanto così poteva continuare quella che era definibile come la pacchia del secolo; cioè lo sfruttamento integrale del Chiesino, la distribuzione di cibi allora rari e prelibati fra capi, sottocapi e capetti del Keisatsushō (dell’ufficio di polizia) di Nagoya. Un’inchiesta proposta da Tokyo sarebbe stata la rovina!
Quando dunque, la mattina del 18 luglio 1944, fu annunciato tranquillamente a Kasuya (il quale aveva già notato la mancanza del fuoco acceso in cucina): “Grazie per il vostro gentile e onorevole interessamento, ma oggi abbiamo deciso di non mangiare, né mangeremo fin quando non potremo parlare direttamente, personalmente, con il capo della polizia, e fin quando le nostre condizioni non verranno almeno un poco migliorate,” si capì subito che la cosa veniva considerata seria, molto seria... Clé avrebbe poi sempre ricordato in modo chiarissimo il lieve sinistro sorriso di Kasuya mentre diceva: “Yoshi, va bene, irna-ni kōkai suru zo, ma ve ne pentirete prestissimo.”
Non erano trascorse due ore che un gruppo di ufficiali e sottufficiali armati della polizia di Nagoya arrivò al Tempaku, in quella che oggi si direbbe una sorta di jeep. Tutti gli internati furono subito radunati dinanzi alla cucina, e il capo, signor Azumi, parlò senza peli sulla lingua, usando le forme di massimo disprezzo (e la scala giapponese è ragguardevole davvero...) e dicendo suppergiù: “Dovreste vergognarvi a chiedere qualcosa in più, qualsiasi cosa... Voi non avete alcun diritto, è già grande concessione che vi si lasci vivere, gli italiani sono dei bugiardi, dei traditori...”
“A queste parole,” scriveva nel suo diario Malachite, “Clé afferra l’accetta (della cucina), si taglia il dito mignolo della mano sinistra, lo raccatta e lo getta al terrorizzato Kasuya gridando: ‘Itarya-jin uso tsuki de wa nai... (Gli italiani non sono dei bugiardi...)’ Tutti fuori di sé: terribile impressione. Io ho visto tutto da dietro. Al primo momento non ho capito niente, poi ho capito dalla faccia di Kasuya. Le tre bambine hanno visto e hanno cominciato un coro di strilli acutissimi. Io corsa via con Kiku in braccio, sono svenuta e B. mi ha portato su. Perdinci, che imparino che anche noi abbiamo del carattere. I poliziotti molto scossi e pallidi.”
Era vero, Clé ricordava benissimo Kasuya vestito di bianco e tutto macchiato di sangue. Questo particolare aveva la sua notevole importanza magica; con il suo gesto Clé obbligava infatti il poliziotto a una purificazione, trasferiva su di lui ogni responsabilità dell’incidente. La violenza contro se stessi testimonia al superiore, o chi si presume tale, con il sangue e la sofferenza, la sincerità, l’impegno morale dell’inferiore, e deve compiersi con certe forme, come da noi un duello, perché esprima davvero un moto dello spirito. Fortunatamente tutto era andato benissimo!
Clé ricordava parimenti l’interesse quasi scientifico, antropologico, con il quale aveva seguito più tardi, nel pomeriggio, le purificazioni attuate dappertutto, spargendo del sale dove comparivano delle macchie, fin minutissime, di sangue. Ma torniamo al 18 luglio: dopo lo yubikiri (il taglio del dito, il lessico giapponese ha anche il suo bravo termine per il gesto), Clé fu condotto fuori, presso un ospedale, per la medicazione; purtroppo il colpo d’accetta aveva tagliato di traverso una falange, e bisognò recidere il pezzetto d’osso spezzato (senza anestesia, si capisce). Rientrando al campo Clé trovò Malachite e le figlie chiuse in camera, mentre gli uomini attendevano che avesse inizio l’interrogatorio da parte del capo della polizia.
Nessuno degli internati sapeva ancora che pochi giorni prima l’isola di Saipan, importantissima base di lancio aereo in mezzo al Pacifico, era passata in mano agli americani, e che proprio quel 18 luglio era caduto il governo Tojō. Forse gli angiolini s’immaginavano vi fosse qualche segreta relazione tra queste gravissime batoste nipponiche e l’iniziativa di protesta degli italiani, mentre invece si trattava d’una fortuita e sfortunata coincidenza. L’interrogatorio fu duro, violento, penoso per tutti. I poliziotti volevano sapere chi fosse “il capo della rivolta”. Ma non era una rivolta, non esistevano capi! Era un accordo preso nella maniera più spontanea da un gruppetto di miseri affamati che cercava, alla meglio, di sopravvivere.
Quando venne il turno di Clé, il signor Azumi, uno dei più focosi tra i capi della polizia nagoyese, chiese subito: “Dov’è il dito?” Era avvenuto che Giorgio, il quale non perdeva la testa neppure nei momenti di maggior confusione, aveva raccattato il frammento di carne infilandolo dentro una boccetta di spirito preso dalla cassetta delle medicine; il cimelio venne dunque presentato alla commissione e, scherzosamente, porgendolo all’ufficiale, Clé aggiunse: “Ve lo regalo, potete farci un sukiyaki! (carne in guazzetto alla giapponese).” Altra sfortunata coincidenza: pare che in quei tempi gli alleati stessero svolgendo un’accanita campagna di stampa contro i giapponesi, accusandoli di cannibalismo. Lanciare dunque la sua battuta e vedere il signor Azumi scattare come un bolide dalla sedia per riempirgli la faccia di pugni, fu tutt’uno. “Ayamarè!” gridava. “Chiedi perdono!” Clé rise, fece finta fosse stato uno scherzo, e continuò a ridere tra le lacrime e il sangue che gli colava dal naso. “Jōdan dalta yo!” ripeteva... E lui continuava a picchiare. Ma sembra che Clé proprio non chinasse la testa. Alla fine Azumi o si stancò, o prese per buona la scusa dello scherzo, e tornò a sedersi al suo posto.
Tardi nel pomeriggio i capi della polizia ripartirono portandosi via Giorgio e Somi. I rimanenti internati restarono al buio, impauriti, più affamati del solito; e nelle orecchie di tutti risuonavano le oscure minacce degli angiolini. “Debolezza e male di testa,” annotava Malachite nel suo diario. “Elettricità per aria; due pasti saltati; tutti molto eccitati...” Yuri venne in punta di piedi a portare una caramella al babbo... Poverina, era il suo “grande tesoro”, la teneva nascosta da chissà quanti mesi in una scatoletta! La famiglia Raimondi finì per dividerla in cinque parti con una operazione di paziente microtomia.
Nei giorni seguenti infierì l’immancabile repressione di tutte le tirannie di fronte a una debole forza che ha osato manifestarsi. Il cibo si ridusse a un limite crudelmente misero: “FAME terribile,” scriveva nel suo diario Malachite. “Di questi tempi mezzo kin di pane (trecento grammi) la mattina con tazza di miso, meno di un go di farina a mezzogiorno, con pezzetti di cipolla, e mezzo go (circa 115 grammi) di riso la sera con un pugno di legumi per tutti.” Una simile dieta per qualche giorno, quando si sta bene in carne, è sopportabilissima (anzi, a quanta gente farebbe bene!), ma quando si hanno mesi di fame arretrata in corpo, quando non si sa cosa nasconde il futuro, è tale da rendere, alternativamente, o semisvenuti dal languore o imbestialiti da subitanei impulsi di violenza. Gli orari, con le loro assurde proibizioni, furono fatti osservare di nuovo con severità. I giornali, la radio, tutte le comunicazioni con il mondo esterno, vennero tagliate nel modo più assoluto.
Il diario di Malachite parla di “debolezza fisica”, ricorda “macchie agli occhi leggendo o cucendo... ieri e l’altro ieri dolori e fitte verso il cuore...” Poi aggiunge: “Mi cadono tutti i capelli.” Nota anche la “mancanza di stimoli mentali” e commenta: “Ricordo nelle primissime settimane di questa prigionia, quando eravamo ancora ‘noi’, le discussioni dopo mangiato, le letture di versi in cucina, le stoccate filosofiche con il mestolo in mano. Ora c’è come una cappa grigia che soffoca tutti mentalmente e fisicamente.” I reclusi non parlavano quasi più tra di loro, non pensavano più a nulla, vagavano qua e là come bestie imbizzarrite facendo assurdi esperimenti con la corteccia degli alberi, con le rarissime chiocciole, con l’erba, perfino con la terra (qualcuno ricordava d’aver letto che in Cina, durante le carestie, i contadini mangiavano la terra per sentirsi lo stomaco pieno); anche i “recuperi” erano sospesi, troppo pericoloso tentare la fortuna con l’aria che tirava.
Dopo qualche giorno tornò Giorgio, più magro del solito, sporco, con la barba lunghissima. Lo avevano interrogato per ore e ore, alla fine pare si fossero persuasi che non si era trattato di “una rivolta organizzata”. Ma intanto Somi non si vedeva; tutti stavano in pena per lui. Soltanto due settimane più tardi riapparve. Clé avrebbe ricordato per sempre quell’attimo: era seduto, fuori, e d’un tratto vide una specie di spettro affacciarsi alla finestra del bagno: era Somi! Disgraziato, come lo avevano ridotto quei bruti! Gli occhi erano stralunati, le guance infossate, la barba lunghissima, e addosso portava una camicia tutta insanguinata, lurida.
“No,” disse subito, “non mi hanno picchiato. Sono semplicemente tracce di cimici: quante ce n’erano! Sembrava un allevamento. E come le invidiavo! Io non avevo nulla da mangiare, loro invece avevano me...”
“Vecchiaccio schifoso,” gridarono tutti abbracciandolo, “neanche a morire perdi il tuo spirito, eh!”
I poliziotti non lo avevano tartassato con gli interrogatori, come Giorgio; per Somi s’era trattato solo d’una punizione. Pare che lo tenessero in una cella particolarmente amata dalle cimici, nutrendolo con un paio di patate al giorno e un po’ d’acqua. “Ormai m’ero rassegnato a morire,” raccontava Somi. “Trascorrevo le ore, che sembravano sempre più brevi, in una sorta di stupore. Vi dirò che, arrivati a un certo punto, si cala in una nebulosa vaghezza, quasi piacevole... ‘Esisto o non esisto?’ mi chiedevo. ‘Non esisto’ era la risposta più ovvia; e per due o tre ore, talvolta, non esistevo davvero. Si trattava di saldare tutte queste piccole non-esistenze in una bella non-esistenza definitiva. Interessante, no?”
Per il ritorno di Somi saltò fuori persino una scatoletta di carne che qualcuno aveva tenuto nascostissima, in vista di chissà quale suprema occasione. Fu caratteristico di Somi il fatto che egli volle – per quanto affamato – prima lavarsi, radersi, cambiarsi tutte le vesti: soltanto allora, spaventosamente magro, pallido, con gli occhi rossi e uno strano tremolio alle mani, ma in camicia e pantaloni immacolati, scese a mangiare nella saletta da pranzo, con il suo posto bene apparecchiato, la bramata scatoletta di carne, con un poco di riso messogli da parte, compiacendosi di trasformare in un’agape ciò che avrebbe potuto essere uno sfogo selvaggio. S’interrompeva poi a ogni istante per filosofare sulla vita in genere, e su quella di prigione in particolare, con dotti riferimenti agli usi e costumi delle cimici.
Nelle settimane successive a questi casi, dopo il periodo di repressione che il vecchio diplomatico aveva previsto nel modo più chiaro ed esplicito, vi fu un graduale periodo di miglioramento (anch’esso previsto) che riguardava due aspetti della vita materiale: per un lato le bambine Raimondi cominciarono a ricevere di nuovo giornalmente una bottiglietta di latte, per l’altro le razioni presero lentamente ad avvicinarsi a quel limite teorico dei trentadue go che sarebbero spettati di assoluto minimo diritto ai detenuti.
Come già accennato, il concetto di diritto in Asia orientale è del tutto diverso da quello vigente nel mondo a noi familiare: si tratta in genere d’una concessione, non è qualcosa che possiedi in quanto esisti, ma una concessione che ti viene fatta dal di fuori e dal di sopra, e che può facilmente venir revocata. La prima volta che qualcuno osò parlare di diritto (kenri), parola coniata nel 1868, riguardo alle razioni, i poliziotti gli risero in faccia; però i detenuti si accorsero facilmente che ormai, sia per l’andamento sfavorevole della guerra, sia come conseguenza della “rivolta” del 18 luglio, la loro posizione era divenuta notevolmente più forte; insieme alla risata (con la quale i poliziotti salvavano la faccia), la menzione del kenri faceva crescere le razioni fino a raggiungere quasi il massimo teorico. Era sempre pochissimo, ma bastava per lo meno a sollevare gli animi (e i corpi) dalla condizione bestiale in cui era passato circa un anno.
L’autunno si avvicinò di nuovo; sempre bellissimo com’è in Giappone. Le giornate trascorrevano serene, dolcemente pensose nella caligine pomeridiana, mentre per la campagna qualche albero volgeva al color ruggine. I “poareti” riuscirono finalmente anche a studiare, a leggere un poco. L’insensata disciplina sembrava ormai un brutto capitolo superato. Nessuno veniva a dare la caccia, con un urlo gutturale, a chi si sedesse con un libro sotto un albero.
Clé si ricordava d’aver letto varie volte in riviste italiane e straniere inchieste del genere: “Che libro vi portereste in un’isola deserta, se poteste scegliere uno, tre, dieci volumi?” Bene, il caso s’era presentato un poco a tutti gli internati il giorno in cui fu detto loro di far fagotto e di star pronti per un periodo più o meno lungo di detenzione. La piccola collezione di Clé, circa dieci volumi, si era costituita a caso negli ultimi giorni liberi e comprendeva, fra l’altro: i romanzi di Flaubert (in francese), l’Ulisse di Joyce (in inglese), una storia della filosofia del Weber (in inglese), la storia del Giappone del Sansom (in inglese), l’Oxford Book of English Verse, la Divina Commedia, e qualche altro titolo. Giorgio e Somi avevano anche loro una piccola provvista che andava dal Bhagavadgita a Rabelais e Leopardi, da Montaigne a Lin Yutang.
Senza notizie, senza posta, soli con i loro pensieri, con la loro fame appena un poco sopita, il gruppetto di derelitti viveva fuori del mondo, in una sorta di strano limbo bianco.