3. Vano banzai per eroico kamikaze
Ma ben presto sarebbero sorte importanti novità. Sul piano strettamente locale si può accennare al fatto che tornò a farsi sentire il freddo, risvegliando in tutti brutali appetiti e vuoti di stomaco. Meno locali furono le bizze del Gran Pesce, il quale secondo la mitologia sino-giapponese sorregge la Terra, e che visse un periodo di impazienze e di smanie, sfocianti in una vera pleiade di piccoli e medi terremoti, culminanti finalmente in un sisma grosso davvero, ricordato negli annali addirittura con un nome: il Tōkai-jishin.
Degli sviluppi più vasti e internazionali che avrebbero avuto molti effetti su di loro, i poveri sepolti vivi del Tempaku ovviamente non sapevano nulla. Ma Clé, molto più tardi, tenendosi al corrente degli studi sulla guerra del Pacifico, fu in grado di ricostruire i fatti almeno nelle loro linee più generali. Il massimo dell’espansione giapponese fu raggiunto agli inizi dell’estate del 1942. In quel periodo, anteriore all’internamento degli italiani dissidenti, i giapponesi controllavano una buona metà dell’oceano Pacifico, dall’isola di Attu nelle Aleutine, all’Indonesia a ridosso dell’Australia, con in più il Thai, la Birmania, fino alle porte dell’India, allora britannica.
Il giro di boa della situazione si ebbe con la prima grande sconfitta giapponese nella battaglia aeronavale delle isole Midway (3-6 giugno ’42). Da quel momento gli alleati cominciarono a recuperare il loro dominio sull’oceano, conquistando isola dopo isola con operazioni spesso di grande ardire e d’altissimo costo in termini umani e di materiali. Il 1944 si aprì con la conquista dell’isola di Kwajelein (31 gennaio), e poco dopo (15 febbraio) dell’atollo di Eniwetok. Da queste basi avanzate fu lanciato un attacco durissimo sulle isole Marianne: Saipan cadde il 15 giugno, Guam il 21 luglio, Tinian il 24 dello stesso mese.
Saipan era giapponese dal 1920, come mandato degli alleati della prima guerra mondiale, ottenuto dalla spartizione delle ex colonie tedesche, quindi era popolatissima di civili giapponesi insediatisi nell’isola come agricoltori, pescatori, commercianti e burocrati. Quando gli americani riuscirono a metter piede sull’isola, grande circa metà dell’Elba, restarono letteralmente sconvolti dal fatto che migliaia di civili giapponesi, comprese donne d’ogni età e perfino bambini, preferirono suicidarsi, facendosi esplodere addosso bombe a mano fornite dai militari, o lanciandosi in folli voli mortali dalle altissime scogliere verticali che formano buona parte della costa isolana.
Il fatto era che la propaganda dei militari e dei militaristi politici aveva tracciato un quadro così orripilante degli americani, che qualsiasi fato sembrava preferibile a quello di cadere nelle loro mani. Dei marines si diceva che, per dar prova del coraggio necessario a essere ammessi in quel corpo scelto, occorreva aver trucidato i propri genitori, concetto d’inaudita barbarie per dei cittadini nutriti sin dall’infanzia di filosofia confuciana, tutta concentrata sul culto della famiglia e delle autorità costituite. Inoltre era stato detto e ripetuto che gli americani avrebbero torturato e ucciso i maschi d’ogni età caduti nelle loro mani e stuprato in modi orribili le donne e le bambine, dunque tanto valeva morire prima di mano propria.
Una volta entrati in possesso di Saipan, Guam e Tinian gli americani furono in grado di costruire in pochissimo tempo dei grandi campi d’aviazione, capaci di sostenere atterraggi e decolli dei loro nuovi bombardieri pesanti, i famosi B29, molto più grandi e potenti dei B17 impiegati nella campagna d’Europa. I B29 avevano inoltre un grande vantaggio sia sui caccia giapponesi, sia sulle armi antiaeree anche pesanti dei loro avversari: riuscivano a raggiungere i diecimila metri di quota, mentre gli altri non superavano gli ottomila, sia nel primo caso, che nel secondo. L’unica possibilità di difesa effettiva dei giapponesi consisteva nell’alleggerire i loro caccia d’ogni peso, quindi di armi e munizioni. In simile caso riuscivano a raggiungere i B29, ma soltanto per gettarvisi addosso in uno scontro quasi sempre suicida.
I primi B29, esattamente centoundici apparecchi, comparvero nel cielo di Tokyo il 24 novembre del ’44. Bersaglio fu la fabbrica d’aerei di Musashino, ma pare che soltanto pochi dei B29 riuscissero a individuare la meta, causando danni modesti.
Alcuni giorni dopo, il 13 dicembre, fu la volta di Nagoya, dove settanta B29 cercarono di smantellare il vasto stabilimento della Mitsubishi, in cui si producevano aerei di vari tipi. Ma qui passiamo il microfono dei ricordi a Clé e ai suoi compagni.
Che impressione, quel pomeriggio gelido e sereno verso la fine dell’anno quando, dopo ore e ore d’ululati delle sirene d’allarme annuncianti “incursione prossima e pesante”, furono visti, per la prima volta, decine di aerei americani! Clé avrebbe ricordato per sempre tale visione. Il Tempaku pareva fatto apposta per rendere lo spettacolo grandioso e memorando. La casa era stata costruita sopra una collina modestissima, ma bastavano quei quaranta o cinquanta metri di elevazione sulla pianura per procurare una veduta d’immenso respiro. La città vera e propria restava defilata dietro altre colline, ma si vedevano periferie e campagne estesissime, sino al porto e alle rive del Pacifico con le sue varie industrie, lontane sette o otto chilometri. Talvolta nel tardo pomeriggio, per un gioco di riflessi solari, l’oceano compariva come una lama di luce color rame fuso, che si perdeva poi verso orizzonti senza fine. Quel 13 dicembre era appunto così.
Inizialmente non si vide nulla: l’atmosfera però risuonava d’un rombo profondo, augusto, terribile, quasi un tuono a ciel sereno. Gradualmente si manifestarono a sud, provenienti dal Pacifico, delle misteriose piume di vapori, candide nei raggi solari contro l’azzurro, che germogliavano da un puntolino quasi impercettibile, e poi crescevano, crescevano aprendosi e disperdendosi elegantemente come fiori smisurati dello spazio.
Piano piano i puntolini si fecero più chiaramente visibili e comprensibili: erano gli aerei veri e propri, i famosi B29 di cui anche al Tempaku erano giunte notizie. A dire la verità pareva si dirigessero esattamente verso le colline di Yagoto, e tutti rimasero per un bel po’ in stato d’incredulo terrore. Poi si udirono i sibili sinistri e caratteristici delle bombe in aria, seguiti dalle esplosioni a terra, quasi rulli di un’orchestra planetaria.
Gli aerei infatti, lo si capì subito, miravano a demolire gli stabilimenti meccanici della Mitsubishi, vicini al porto. “Ma è una visione cosmica!” gridò Somi, tra l’atterrito e l’entusiasta, esprimendo a suo modo i sentimenti di tutti. Gli aerei, sempre generando quelle piume spettacolari, che nessuno aveva mai visto prima, passarono sopra le teste degli internati, ad altezze vertiginose, sparendo poi, con il loro rombo cupo ma quasi musicale, verso il Nord.
“E pensare che lassù ci sono uomini come noi!” esclamò il diplomatico, mentre usciva dal piccolo rifugio antiaereo costruito scavando con grande fatica la terra, durante l’autunno.
“E state a vedere che proprio ‘gli uomini come noi’ finiranno per sbriciolarsi in mille pezzetti!” commentò Somi con macabro umorismo.
Il bombardamento d’apertura, il “nostro protobombarda-mento” come diceva Giorgio cercando d’esorcizzare la paura con la dottrina, fu per tutti, stranamente, un’esperienza definibile come lirica.
Per prima cosa v’era la solennità dello spettacolo, compreso entro orizzonti vastissimi di coste, mare, cieli, montagne, espressione per di più di una potenza terribile, mortale, che ciascuno aveva associato per l’innanzi con i fenomeni più sconvolgenti della natura, tempeste, bizzarrie di saette, valanghe, alluvioni, meteoriti, comete, fortunali estremi; poi c’era il senso ambiguo e sibillino della vicinanza di coloro (nemici? amici?) ai quali erano legate le sorti di ciascuno degli internati. Infine si avvertiva che – oh finalmente! – gli eventi si stavano muovendo, promettendo una qualche futura liberazione dall’angoscioso “limbo bianco”, e immergendo lo sparuto gruppo di sopravvissuti nel vortice dei colossali avvenimenti storici del momento.
In seguito, naturalmente, si passò dalle grandi emozioni, e dalle “visioni cosmiche”, alla prosa. Il primo bombardamento fu seguito da un secondo, da un terzo, e da tanti altri. Spesso erano aerei solitari, la notte, che scaricavano una bomba qua e una là, si sarebbe detto a caso, oppure si trattava di allarmi “vuoti”, che costringevano a correre, con il gelo e la pioggia, o la neve, portando le bambine sulle spalle, fino alla buca umida e inospitale protetta solo da venti centimetri di terra, adatta a salvare da schegge vaganti, non da una vera bomba.
Al tormento delle bombe si unì ben presto, come accennato, quello dei terremoti. Da qualche tempo la terra sembrava ossessa. Non c’era ora del giorno, e soprattutto della notte, in cui non si avvertissero delle scosse, dei colpi improvvisi; spesso si udivano dei veri e propri boati, come riferiscono i trattati di sismologia. L’epicentro doveva trovarsi a poca profondità e abbastanza vicino; specialmente la notte si avvertivano dei colpi secchi da sotto in su, delle esplosioni nel ventre della terra che arrivavano dirette, come pugni, al guanciale. Allora bisognava fuggire all’improvviso, sempre con quelle povere bambine in lacrime e mezzo addormentate sulle spalle, che si domandavano come mai tutto congiurasse contro di loro. Una notte superò tutte le altre: alle dieci circa allarme, discesa nel boku-go (rifugio), niente incursione; attesa sino a mezzanotte. Poi ritorno in casa. Appena addormentati, terremoto abbastanza forte; nuova fuga, nuova attesa, nuova incertezza; infine nuovo ritorno a casa perché fuori gelava e tirava vento. Poco prima dell’alba, ancora un allarme, con incursione quasi immediata, quindi nuova discesa con masserizie e bambine, mentre intorno cadevano le bombe. Il giorno dopo appena mezz’ora di abbuono per la sveglia, il resto dell’orario fu come il solito mentre restava “severamente vietato dormire nelle ore diurne”.
Una mattina di quel periodo ballerino, verso l’ora di colazione, mentre tutti stavano in casa, la terra cominciò a scuotersi con un impeto, un’allegria, una decisione a far cose brutte, come nessuno l’aveva mai sentita. Dopo qualche attimo d’incertezza, mentre l’intonaco cadeva da tutte le parti e i vetri andavano in pezzi, Clé si lanciò di sopra ad afferrare moglie e figlie. Per fortuna i Raimondi potevano usufruire di una scala esterna, anche se tutto crollava non c’era il rischio di rimanere sepolti. Con grande difficoltà (era come scendere per una scaletta in piroscafo durante una mareggiata) e non senza un fenomenale ruzzolone di Kiku, tutti arrivarono a salvamento, cioè sulla “terraferma” su cui sorgeva la casa.
Terraferma? Ma che andate raccontando? In quel momento il sisma probabilmente raggiungeva il suo massimo d’intensità. Clé ricorda benissimo che la buona, solida, antica madre terra pareva impazzita. Ondeggiava come una superficie liquida, come un mare. Ed era impossibile stare in piedi; tutti si dovettero accucciare sul suolo.
Poi improvvisamente la calma. La dimora del Tempaku, fissata agli angoli con dei grossi cavi d’acciaio contro i tifoni, aveva ballato come una nave, ma era rimasta in piedi, anche se tutta scrostata e con i vetri infranti. I sopravvissuti cominciarono allora a ridere come pazzi: sembrava loro d’essere caduti da centro metri d’altezza rimanendo per miracolo illesi!
* * *
Il Natale del ’44 e il Capodanno del ’45 passarono inosservati. Anche il diario di Malachite taceva ormai. Erano tempi grami, talmente affannosi e irti di tribolazioni, che forse i buoni detenuti si saranno svegliati una mattina dicendo: “To’, guarda, oggi è Natale!”, oppure: “Figurati, domani siamo a Capodanno!” Innumerevoli nemici assediavano il misero gruppetto di esuli: la fame, il freddo, i terremoti, le bombe, la mancanza di notizie, l’isolamento assoluto, l’angoscia perenne e le improvvise paure. I poliziotti, anche loro, erano nervosi, stanchi, irritabili. Unico aspetto positivo in simile stato di cose era che la comunità si era di nuovo molto unita, non era più tempo di litigi, invidie, diverbi.
Un nuovo servizio “recuperi” era stato organizzato per captare le notizie, ormai sempre più importanti e decisive. In certi casi era possibile scovare un pezzo di giornale vecchio frugando nella cassetta delle immondizie, ma questo era un sistema primitivo e occasionale. Più rischioso, ma più sicuro, era invece il prelievo momentaneo dei giornali dallo sgabuzzino-ufficio dei poliziotti, specie durante un periodo di circa dieci minuti, quando essi lasciavano il loro posto per andare al bagno oppure, talvolta, la mattina prima della sveglia. Appena il foglio arrivava nelle mani del gruppo, veniva letto sommariamente dal missionario piemontese o da Somi, tradotto da loro o da altri, analizzato da Giorgio in dieci-quindici frasi trascritte in italiano sopra un foglio di carta, infine commentato dal vecchio diplomatico a comunità riunita. Certi giorni, alle nove del mattino, era possibile avere chiare tutte le notizie della sera prima, sul piano mondiale! Nonostante i divieti, la comunità seguiva quasi giorno per giorno gli eventi della guerra, sia in Occidente che in Asia e nel Pacifico.
L’Italia: che cosa smisuratamente lontana, fioca, misteriosa sembrava allora da laggiù! Eppure com’erano commoventi quelle poche notizie che arrivavano di tanto in tanto. Un giorno si seppe che Firenze era stata dichiarata “città aperta”, e poco dopo un’altra notizia – che in seguito, ma solo una volta finita la guerra, si sarebbe rivelata falsa – comunicava che il Ponte Vecchio era stato distrutto: Somi e Clé piansero di disperazione e di rabbia. Poi i giornali parlavano di bombardamenti a Palermo, a Roma, a Milano, dove gli internati avevano amici e parenti. Il grosso delle notizie riguardava però la Germania, la Russia, il Pacifico.
Un giorno d’ottobre uno dei poliziotti accompagnò Clé all’ospedale per medicare l’avanzo del famoso dito (a causa della denutrizione non accennava ancora a cicatrizzarsi). Ritornando verso il Tempaku Clé si sentì improvvisamente chiamare dalla mamma, in modo forte e chiaro. Il giovane uomo si voltò con le lacrime agli occhi: era terribile, ma aveva capito. Soltanto dopo un anno avrebbe saputo che esattamente in quell’istante, a migliaia di chilometri di distanza, in Italia, la madre stava spirando.
Con il mese di gennaio i terremoti diminuirono, la terra parve stanca ed esaurita. I bombardamenti invece continuarono e alcune bombe (una delle quali grossissima scavò una vera voragine), caddero assai vicine al Tempaku. Si venne a sapere in seguito che, nascosto in una valletta a poca distanza, c’era un edificio militare; evidentemente era quello l’obiettivo degli americani. Ma l’essere umano s’abitua a tutto. Ripensando al tremendo inverno del ’45, Clé scopriva perfino dei ricordi felici o benigni. Per esempio, al ritorno in camera dopo un bombardamento, la visione di una strana luna rossa che calava pigramente tra una corte di nuvole nere verso l’orizzonte... Non si sarebbe neppure detto uno spettacolo terrestre, era come trovarsi arenati sopra un altro pianeta del sistema solare, spettatore d’ignoti meccanismi celesti, solitari e bellissimi.
Poi tornavano alla mente di Clé certe fughe tra le macchie di Yagoto con le bambine; la sensazione improvvisa di libertà, la ricerca di cibo come selvaggi: spuntature di felci, qualche bacca, qualche foglia di tampopo (cicoria). Una volta fu persino rinvenuta una patata; grande, rotonda, solida come una pepita d’oro. Chi mai l’aveva lasciata cadere, così fuori mano? I discorsi in famiglia tornavano e ritornavano alla famosa patata, al “miracolo della patata”.
E arrivò anche il mese di marzo ’45: l’ultima prova per i detenuti, l’ultima prova per il Giappone. Gli americani avevano ormai consolidato il possesso di parecchie isole vicine all’arcipelago nipponico, tra le quali Iwo-jima (l’isola dello Zolfo), occupata nel marzo ’45 dopo una delle più terribili battaglie di tutta la guerra del Pacifico. L’isoletta, di appena venti chilometri quadrati, era stata trasformata in un fortilizio con innumerevoli grotte e passaggi sotterranei scavati nella roccia vulcanica ed era difesa da circa ventimila giapponesi, al comando del generale Kuribayashi. Gli americani attaccarono il 19 febbraio del 1945 e i combattimenti, feroci all’estremo, durarono fino al 16 marzo: i giapponesi morirono tutti (nessuno si lasciava prendere prigioniero), le forze americane contarono oltre seimila morti. La cattura d’Iwo-jima dava agli alleati una base aerea importantissima, a metà strada tra Saipan e le grandi città nipponiche. C’era dunque da aspettarsi un cospicuo intensificarsi dei bombardamenti sulla terraferma giapponese nell’immediato futuro.
Intanto nel mondo dei comandi strategici alleati aveva luogo un fierissimo dibattito. L’ammiraglio Chester Nimitz era dell’idea che bisognava insistere con i bombardamenti diurni, da grandi altezze, con bombe dirompenti, per danneggiare le forze aeree giapponesi a terra e le industrie che le sostenevano, in modo da permettere alle navi americane di avvicinarsi alle coste tanto da poter far fuoco direttamente sulle città: gli oppositori dell’ammiraglio, guidati dal generale Curtis LeMay, facevano osservare che, tra la fine di novembre del ’44 e il 4 marzo del ’45 erano state eseguite ventidue incursioni sul territorio giapponese, ma che una sola fabbrica era stata distrutta, e che d’altra parte si erano persi ben centodue apparecchi B29. LeMay sosteneva invece che si sarebbero ottenuti risultati molto più efficaci facendo uso dei medesimi B29, ma in voli notturni a bassa quota, e lasciando cadere non bombe dirompenti, ma bombe piccole, numerose e cariche di sostanze incendiarie. Per ottenere meno peso, e quindi maggior carico di bombe, LeMay proponeva di abolire tutte le armi difensive degli aerei. Era insomma una scommessa sulla quale il generale giocava tutta la sua carriera.
È bene ricordare che, sulla bilancia pesavano in modo non indifferente considerazioni umanitarie. Il principio di Nimitz manteneva le operazioni, per quanto possibile, nei limiti del mondo militare, quello di LeMay era francamente terroristico: “Diamo fuoco,” dicevano i suoi sostenitori, “alle città giapponesi, che sono per nove decimi di legno, di carta e d’altri materiali leggerissimi, non è il momento di preoccuparsi se poi pagheranno tanti innocenti civili, vecchi, malati, donne e bambini: è la guerra!” Vinsero LeMay e i suoi sostenitori e la ferocia della guerra del Pacifico fece un notevolissimo balzo in avanti, preparando la via agli orrori di Okinawa, di Hiroshima e di Nagasaki.
Nella notte tra il 9 e il 10 marzo 335 apparecchi B29 partirono da Saipan; per una ragione o per l’altra alcuni si persero per strada o dovettero rientrare, ma ben 279 arrivarono verso mezzanotte sulla capitale nipponica, bassissimi, sui duemila metri di quota, e cominciarono a sganciare i loro carichi di morte. In pochi minuti, si può ben dire, Tokyo fu un inferno; le fiamme erano inoltre favorite da un forte, teso, vento di tramontana. I preparativi a terra, per domare il fuoco, erano del tutto inadeguati; la nuova tattica sorprese completamente i giapponesi. Quattordici B29, con circa centoquaranta uomini, andarono distrutti dai caccia e dall’antiaerea; ma cos’era di fronte alle perdite nipponiche? Un nulla... Nella notte ardente si calcola fossero morte dalle ottantamila alle centomila persone, quasi tutte civili; le case distrutte furono due milioni e mezzo, lasciando un milione di cittadini privi di dimora. Il furore del fuoco fu tale che si riprodussero, com’era avvenuto nel 1923 dopo il gran terremoto (Kanto dai-Jishin), dei vortici di fiamme (tatsumaki) che risucchiavano tutto l’ossigeno dell’aria, così che migliaia di persone morirono per asfissia. Altre migliaia finirono affogate, quando cercarono di salvarsi tuffandosi nelle acque dei numerosi canali e fiumi della Tokyo bassa. Fu insomma un disastro apocalittico.
Gli eremiti del Tempaku ebbero qualche sentore via radio di quanto era accaduto nella capitale, ma non s’immaginavano davvero che quasi subito sarebbe toccato anche a loro qualcosa di simile, anche se in scala fortunatamente minore. Nagoya, grande centro industriale, famosa per le sue fabbriche di aerei, fu rasa metodicamente al suolo con il fuoco, in tre paurose incursioni: la prima nella notte tra l’11 e il 12 marzo (269 aerei B29), la seconda quella tra il 19 e il 20 (300 B29), e la terza il 25 (130 B29).
Ogni volta l’allarme aveva inizio verso le nove di sera. Nel silenzio e nel buio assoluti della città e della campagna, risuonavano ripetutamente le urla lugubri delle sirene, interrotte ogni tanto dalle istruzioni gridate via radio: “Si prevede l’arrivo di centinaia d’apparecchi. Prepararsi per un’incursione pesante.” La reazione antiaerea da terra era ormai ridottissima, faceva molto rumore, ma pochi danni all’avversario. I poliziotti si “vestivano da guerra” (come dicevano impressionate le bambine), con elmi di metallo, sciabolacce da samurai, fasce alle gambe, e allineavano patetici secchi d’acqua dinanzi alla casa come rimedio in caso d’incendio... I detenuti scendevano nei loro buchi con tutti i futon come protezione, sperando non dovesse cadere loro addosso, proprio ora, poco prima della fine, qualche bomba sbandata e assassina.
Verso mezzanotte il cielo si riempiva d’un boato possente, ormai familiare, “il vasto respiro del mondo”, come diceva Somi, curandosi le unghie, passeggiando a sfida per il giardino vestito di bianco, e con una sigaretta accesa tra le dita. “Impareggiabile Somi, vieni al riparo!” gridava Clé all’amico, ma lui rideva. “No, no, credo al santo caso, se la bomba deve cadere qui, meglio all’aperto che sepolto nella buca!”
Ben presto arrivarono le prime ondate dei poderosi B29, e ognuna sganciava una pioggia di spezzoni incendiari, in gran parte diabolici bottiglioni d’appena tre chili, ma pieni di fuoco, che poi scoppiavano con crepitio di mitragliatrici, non con la deflagrazione cupa delle bombe dirompenti.
Intanto le fiamme si levavano al cielo, formando vortici, vipere, draghi di scintille (tatsu-maki, “code di drago”). Ettari, chilometri quadri di case, capannoni, casupole, tonnellate di legno ardevano in un colossale falò. La tormenta di fuoco durava ore e ore, tutta la notte. I Raimondi e i loro compagni stavano accucciati e immobili, mentre il tempo scorreva con lentezza esasperante: i minuti sembravano secoli. Quando erano passati tanti aerei che non si poteva neppure immaginare ne esistessero al mondo, eccone altrettanti, sfoderati come per magia dall’utero cupo della notte. E volavano sempre più bassi; ora addirittura illuminati da sotto in su, dal riflesso delle fiamme terrestri. Alcuni sbucavano come aironi metallici dalle nuvole di fumo, rossastri e indemoniati.
Infine un silenzio sovrannaturale; e una spettrale luce azzurrina. Era l’alba.
Il peggiore di questi bombardamenti, almeno per gli italiani, fu l’ultimo, quello della notte tra il 24 e il 25 marzo; in quell’occasione venne distrutta la parte est di Nagoya, dove si trovava appunto il Tempaku, stretto per tre quarti dai vari sobborghi della città. Le prime squadriglie di aerei scaricarono i loro bottiglioni di fuoco su uno dei quartieri immediatamente a sud del campo internati; e ogni ondata lasciava cadere il suo carico incendiario più vicino. Ormai tutti erano sicuri di restarci e si preparavano mentalmente alla fine. Invece, a un certo momento, un’ondata di B29 passò sopra al Tempaku senza sganciare ordigni. “Ma allora lo sanno che ci siamo anche noi, che esistiamo!” esclamò esultante Giorgio. “America banzai!” gridò con improvvisa pazzia (ma tanto, con il fracasso che c’era chi lo sentiva, se non le talpe nei loro buchi?).
Clé e Malachite avevano trattenuto il respiro, coprendo i corpi delle loro bambine, quasi fino a soffocarle tra i futon. Ma la distruzione riprese oltre le colline. Per un miracolo, per la precisione dei bombardieri lassù in alto, tutti poterono ormai considerarsi salvi. Nonostante ciò, nella confusione generale, diverse bombe caddero qua e là vicinissime al Tempaku, incendiando case rurali e tratti di boscaglia.
All’alba, sfiniti dopo tante ore di continua tensione nervosa i detenuti risalirono per la scala, scardinata dal terremoto di dicembre, rientrando nelle loro stanze. Di nuovo quello strano chiarore azzurro, effetto dell’alba sulla notte illuminata a giorno dalle fiamme arancioni e rosse. L’aria giungeva carica di fumo, con il fetore della carne bruciata (i morti in quest’incursione furono circa duemilaquattrocento). Clé, salendo la scala, trovò Dafni alla finestra, dalla quale si vedeva benissimo parte della città ancora in fiamme. La bimba, in piedi, guardava a valle, silenziosa: “Doshite, papachan,” ripeteva, “doshite? (Perché, papà, perché?)”
Un’ultima incursione seria ebbe luogo ai primissimi d’aprile, in pieno giorno.
Nagoya, come città, era ormai distrutta, ma qualcosa doveva pur rimanere in piedi, se valeva la pena di venire fin là. Questa volta gli apparecchi volavano bassi e tranquilli, come si fosse trattato d’una gita turistica oppure d’un lavoro di rifinitura pedante e minuzioso. Era ovvio che gli apparecchi prendevano con gran cura la loro mira.
Fu allora che i detenuti, tra i quali Clé, videro apparire in cielo certi puntolini neri che, accanto alla mole dei B29 americani, sembravano dei moscerini intorno a dei falchi. Fu subito chiaro che si trattava di kamikaze, di piloti suicidi sui loro apparecchi di morte, adatti a partire dal suolo ma senza mezzi per atterrare. Proprio sopra al Tempaku, forse a un migliaio di metri d’altezza, uno dei moscerini puntò diritto verso il suo B29: le distanze s’accorciarono, s’annullarono, ecco il terribile scontro!
Una gran fiamma rossa scoppiò allora in cielo e il gigante, dal quale si era subito staccata un’ala, cominciò a precipitare a foglia morta, bruciando ed esplodendo verso terra. Mentre bombe, corpi, frammenti d’apparecchi calavano con quella che sembrava una solenne e tragica lentezza, da tutta la città si levò un grido di straordinaria potenza, lanciato da migliaia di petti: “Banzai!” urlavano tutti. “Banzai!”
A quel fatale punto degli eventi, un vano, inutile: “Evviva!” per un tragico giovane eroe.