4. Il Kōsai-ji: “La Vasta Salvezza”
Nagoya poteva dirsi ridotta davvero a una spianata di cocci e di tizzoni: infatti i bombardamenti cessarono del tutto. Perfino il celebre castello di Ieyasu del diciassettesimo secolo era stato distrutto.
Un giorno i detenuti vennero a sapere che la polizia di Nagoya aveva deciso di traslocarli in campagna. Dove? Per alcuni giorni fu segreto di Stato, poi la risposta venne, ma vaga: “Si va oltre Koromo.” Il che sarebbe come dire, per Milano, “oltre Saronno”, o per Roma, “oltre Frascati”.
Finalmente il camion sul quale erano stati caricati gli italiani, che aveva superato abbastanza gagliardamente due o tre salite per raggiungere dei piccoli passi tra una valle e l’altra, si fermò. “Ci siamo!” esclamò Kasuya. “Scendete, ciascuno prenda i suoi bagagli... Ordinatamente, senza confusione.” Il “principe dei poliziotti” voleva chiaramente riprendere con fermezza il comando della sua banda di scervellati e d’irresponsabili.
Clé si guardò in giro. Tale era la sua felicità che non provava alcun fastidio ad ascoltare la voce squillante di Kasuya, il quale con dizione insidiosamente accondiscendente, ma sostanzialmente spregiativa (come permettono le finezze sociali del giapponese), dirigeva lo sbarco. Mai e poi mai Clé avrebbe immaginato che il luogo “oltre Koromo” potesse essere così bello! Il camion s’era fermato all’ingresso d’un antico e incantevole tempio buddista, il Kōsai-ji (il Santuario della Vasta Salvezza), come stava scritto in ideogrammi eleganti e virili su di una stele di pietra vicina all’ingresso.
Oltrepassato il primo portale (ombroso e muschioso, come nei migliori e classici esempi di Kyoto), si risaliva una lunga scalinata tra due filari di aceri giapponesi, sui cui rami stavano giusto giusto sbocciando le prime foglioline (lo shin-ryoku, “il nuovo-verde”). Al termine della scalinata, Clé e Malachite, seguiti dalle bimbe con le loro varie bambole, passarono un secondo e più elaborato portale, sbucando nel cortile, o meglio nel chiostro del tempio, un quadrato limitato da vari edifici, raccolto, silenzioso, pieno di sole. Dinanzi s’ergeva il corpo principale del tempio, una solida, antica, armoniosa costruzione in legno massiccio, ricoperta da un vasto e pittoresco tetto in erbe palustri (kaya-yane), d’un agreste colore di paglia secca.
“Speriamo ci sia un po’ più da mangiare qui,” sbottò Malachite. “Come godere di tanta bellezza a stomaco vuoto, eh?”
“Vedrai che sarà più facile qui intrallazzare dei traffici con i contadini dei dintorni...” rispose Clé, non proprio convinto, ma desideroso di rassicurare.
Clé, stomaco o no, si sentiva entusiasta. Riconobbe subito un fatto: nella valletta boscosa del Kōsai-ji si concentrava tutto ciò che v’è di più incantevole nella campagna giapponese. In basso si stendevano le risaie, irregolarmente terrazzate; tutt’intorno s’ergeva un cerchio di colline boscose; qua e là si vedevano delle case coloniche con i tetti di paglia unite l’una con l’altra da viottoli che vagavano senza fretta né piani prestabiliti per la campagna. Numerosi erano i “campi asciutti” (hatake), privi cioè d’irrigazione, e coltivati a granaglie o verdure. Incantava soprattutto nel luogo, la pace. Il senso d’antica e raccolta civiltà come si può respirare in Toscana, o in Inghilterra nelle Cotswold Hills. La guerra? Scusi, vuoi ripetere? Da queste parti è termine che manca nel vocabolario...
Ai detenuti fu destinato un ampio spazio all’interno del tempio, il cui piano era tutto ricoperto da tatami, le tipiche stuoie imbottite di paglia che definiscono lo spazio abitabile, o comunque più intimo e riservato, della casa. Sui tatami si cammina senza scarpe, o scalzi o con i tabi, i tipici pedalini giapponesi, o con le calze; anche le pantofole sono escluse.
I Raimondi furono particolarmente fortunati; ebbero per loro uso una quasi-stanza, un recesso rettangolare del tempio, recesso le cui pareti, che erano poi delle grandi porte scorrevoli di legno leggerissimo, risultavano decorate da certi incantevoli dipinti raffiguranti aironi e fiori, probabilmente del tardo Seicento, vagamente offuscati dagli anni, ma originariamente tracciati da una mano sicura, se non addirittura magistrale.
Giorgio, Somi, Malachite e Clé, come dire gli intellettuali del gruppo, commentavano tra di loro in termini entusiasti la fortuna di essere capitati in un luogo tanto singolare, così bello, così ricco d’un fascino sottile che riassumeva, in qualche modo, tutto ciò che i giapponesi, lungo i secoli, hanno saputo produrre di meglio, non solo per loro stessi, ma per il mondo. “Quasi nulla qui è triviale... Che sospiro di sollievo!” buttava giù Malachite nel suo diario.
E Somi, da compito fiorentino-mediceo, si diceva incantato dalla fusione Buddismo-agricoltura, religione-campi: “Guardate che continue combinazioni gustose! Qua un cuscino di seta purpurea sul quale verrà a sedersi l’abate nelle sue stole rosse e viola, con il suo rosario prezioso, a cantar sutra, e là appoggiati al muro, rastrelli e vanghe, marre e bigonce...” Insomma il Kōsai-ji riportava nel cuore di tutti un’amorosa pace con il Giappone, purtroppo a lungo infranta dalle miserie e dai patimenti del Tempaku.
Giorgio, che era partito nella vita come storico dell’arte, raccolse subito, non si sa come, parecchie informazioni. Il tempio risaliva, disse, almeno come fondazione, al quattordicesimo secolo, ai tempi del grande, romantico e sfortunato imperatore Go-Daigo, il quale tentò senza fortuna di scrollarsi di dosso il peso dei dittatori militari ereditari (gli shōgun), per governare il Paese come i sovrani antichi, da solo, in fulgido isolamento.
“Il Kōsai-ji è anche famoso,” aggiungeva, “per i tanti ricordi di Kojima Takamori, figura un po’ leggendaria di samurai del Trecento.”
Le numerose statue del tempio non risultavano di particolare valore artistico, ma una cappellina aggiunta sul retro dell’edificio in epoca più recente – dove si conservavano le tavolette mortuarie degli abati, in particolare quelle di Kaizan, il fondatore del santuario, e quella del tredicesimo Hojō, Ghessen Tanko che ne curò la ricostruzione – risultava decorata in modo molto singolare e prezioso da un soffitto a settantadue piccoli riquadri in ciascuno dei quali era raffigurata una pianta o un fiore. Si trattava di pitture, probabilmente contemporanee al rinnovamento del tempio a fine Settecento, tracciate con deliziosa innocenza e mano fermissima d’artista e di botanico insieme. Uno specialista avrebbe potuto riconoscere subito genere e specie di ogni esemplare, un poeta avrebbe voluto cantare a ogni riquadro una strofa innamorata. Ecco i bambù, ma ecco anche la rapa, ecco il loto accanto alla melanzana, ecco la castagna, il riso, la margherita, il lupino, il giglio, il pisello, il banano, il convolvolo, la felce, l’orchidea selvatica, la peonia, il narciso, la sassifraga, la camelia!... Vi comparivano anche la luna con delle erbe, il sole con una vetta di pino.
La poesia inondava la vita tutta di gloria e dolcezza, senza distinguere le essenze nobili da quelle officinali, il giardino dall’orto. Per mesi quelle umili pitture furono, per quasi tutti, una consolazione spirituale, un ritorno benedetto alla civiltà dopo una vita da talpe.
L’edificio presente non pareva risalisse oltre l’inizio del Settecento, ma emanava una sua dignità vigorosa. Il vasto tetto di paglie, pettinate con arcaica eleganza, si levava in alto tra una corona cospicua di sughi (cipressi giapponesi), tra i quali spesso il vento cantava mirabili nenie. I fianchi possenti del tempio di legno, marmorizzato da licheni grigiastri con punte capricciose d’arancione, creavano un’immagine genuina di solidità campagnola senza pretese; erano insomma l’espressione di quell’armonia che risulta quando forma e funzione si compenetrano in un solo organismo.
Il tempio apparteneva, e appartiene, alla confessione buddista dello Zen, ma alla divisione Sōtō, che è molto più tranquilla e accomodante di quella, maggiormente famosa, nota con il nome di Rinzai. I bonzi possono sposarsi e in campagna, come al Kōsai-ji, conducono un’esistenza da coltivatori diretti benestanti, più colti del grosso dei loro parrocchiani. Nel caso del Kōsai-ji, l’abate (Hojō) del santuario era un vecchio sugli ottant’anni, di magnifico aspetto, di nome Tetsu-gaku (Filosofia), che si presentava per lo più in yukata (leggero kimono estivo), con un cappellone di paglia a larghe falde, e aveva talvolta dei moti d’umor bizzoso. Lo accompagnavano la moglie, un’adorabile vecchietta dalla vista molto corta, la figlia, il figlio adottivo, genero e successore, nonché i ragazzi e i bambini della terza generazione.
Lo Hojō e la sua famiglia occupavano una casa abbastanza grande, affiancata al tempio, anch’essa forse non antica di materiali, ma antica, antichissima, certamente samuraica, nel disegno e nella concezione d’insieme. Bellissima, favolosa, la smisurata cucina; la parte esterna con il suolo in terra battuta, quella interna, sopraelevata, in plance di legno nero lucidato dall’uso di decenni, forse di secoli. Le travi che sorreggevano il tetto altissimo, con il suo sfiatatoio per il fumo da cui si indovinava il cielo, e dentro e fuori dal quale squittivano degli uccellini scherzosi, si perdevano in un buio pregno di fuliggini e di mistero. Erano travi di favolosa grossezza, contorte come usa nei casolari giapponesi di campagna, alberi interi della foresta appena squadrati con l’ascia nelle mani d’un gigante, e subito messe nella loro architettonica dimora.
A un muro laterale della cucina s’appoggiava la batteria delle kama, dei paioli per la cottura del riso (gli ospiti erano talvolta legioni); sembrava un vero molo in muratura tinto di nero dalle fuliggini, e lucidatissimo. La maggiore delle kama era ornata da rametti di sakaki, albero sacro che protegge il focolare, la cucina, i presenti, e che simbolizza il Kami, il nume, che nei dintorni di Kyoto è chiamato Sambō-san, il Signor Tre Lati, il Vedi-Tutto.
Non lontano dalla fila delle kama, stava un più modesto focolare interrato e aperto, detto ìrori. Vi si riscaldava l’acqua per il tè, e intorno ai suoi bordi sedevano padroni e ospiti di riguardo per sorbire il tè e per conversare in serenità e riposo.
Naturalmente, sin dal primo giorno dell’arrivo al tempio, tutti tentarono di allacciare dei legami amichevoli con la famiglia dello Hojō, sperando di organizzare qualche traffico vantaggioso al procacciamento di cibo: lavorare nei campi, tagliare la legna, dare lezioni d’inglese... I poliziotti dovevano aver fortemente spaventato abate e famiglia e per molto tempo fu impossibile conversare per più di due minuti, e di nascosto, con “quelli del tempio”.
A proposito dei poliziotti, sembrava che gli uffici di Nagoya avessero deciso che il trasferimento dal Tempaku al Kōsai-ji coincidesse con dei rapporti interamente nuovi con i detenuti. Kasuya un bel giorno sparì. Somi, sempre fedele ai paradossi, disse che gli dispiaceva: “Almeno quello aveva stile. E poi aveva sempre l’uniforme in ordine...” Il posto di grande capo venne preso da un collega dall’aria di burbero sergente. “Ragazzi, pochi scherzi con me, intesi?” borbottava ogni tanto; ma poi dormiva tutto il giorno e la sera scendeva in paese a fare bisboccia. Il suo posto venne poi preso via via da altri junsa; ormai l’ufficio di polizia di Nagoya aveva perso la bussola e i nervi. A ogni modo nessuno rivelò personalità tanto spiccata da lasciare tracce nella memoria.
Una traccia ben definita la lasciò invece la capra... Cara, bislacca, bizzosa capretta bianca, chi ti dimenticherà mai? Il trasferimento in campagna, forse immaginato più avventuroso di quanto fosse in realtà, comportava (dicevano gli angiolini) l’impossibilità di rifornire i Raimondi del latte ormai ritenuto necessario per le tre bambine: “Vi consegneremo invece una capra... Ricordatevi che si tratta di proprietà dell’Imperiale Governo Nipponico, servitevene dunque, ma niente maltrattamenti. Inoltre è una bestia che ha un suo preciso valore venale sul mercato.” La capra era molto magra e molto bizzosa; aveva un pelo bianco durissimo e lungo, oltre a una barbetta da nobiluomo inacidito. Gli occhi erano pieni di venature rossastre. Le bambine si affezionarono subito alla bestiola, che si trasformò quasi in una persona di famiglia. Quanto a lei, era difficile capirla, l’onorevole capra dell’onorevole governo.
Appena raggiunto il Kōsai-ji, i poliziotti avevano tenuto un lungo e fermo discorso riguardante la proibizione assoluta d’allontanarsi, fosse pure di cento metri, dal tempio; ma ormai i detenuti erano dei vecchi lupi della prigionia – non era come parlare al vento? Clé poi, con la scusa che bisognava condurre la capra a brucare dell’erba, cominciò a recarsi di qua e di là per la campagna imparando a conoscere tutte le sue intricate vallette, i folti boschi che si estendevano verso una ragguardevole montagna e anche verso un bel fiume, facendo amicizia con questa o con quella famiglia di contadini.
I poliziotti dovevano averli un po’ spaventati, ma i saggi agricoltori, con l’innata e universale furbizia della specie, avevano capito benissimo che la guerra andava a rotoli e che gli internati italiani si sarebbero forse presto trovati dalla parte giusta, dunque era conveniente aiutarli. Clé venne a sapere che una comune camicia valeva almeno quindici go di riso, un piccolo tesoro!
Dopo un mese di residenza al tempio, tutti i detenuti, per un verso o per l’altro, si erano sistemati notevolmente bene. Malachite lavorava mattina e sera trasformando lenzuola in camicie per i contadini, facendo uso di una macchina da cucire prestatale di nascosto dalla badessa. Ormai le uova si vedevano quasi ogni giorno, così come si maneggiavano pacchetti di miro (pasta fermentata e nutriente di fagioli di soia), e il riso era divenuto tanto comune e abbondante che lo si metteva da parte in sacchetti-tesoro, coccolati come milioni in banca.
Clé e Somi avevano anche scoperto che una certa sterpaglia dietro il tempio, sulla strada per andare sul monte, possedeva una ricca popolazione di bisce. Con un bastone era facile ammazzarne cinque o sei; poi spellate, tagliate in segmenti lunghi venti centimetri e bollite, davano degli squisiti filetti che ricordavano molto da vicino il sapore delle sogliole! In realtà non ci sarebbe stato più bisogno di tali supplementi carnivori, ma la fame arretrata era tanta che soddisfarla era divenuta una ossessione, un gioco, una “monnezza”, come diceva il chimico napoletano.
Infine si ebbe una patetica integrazione di cibi, di cui gli internati si resero conto solo a guerra finita per ammissione della vecchia e quasi cieca badessa. Avveniva che, dinanzi alle molte immagini buddiste del tempio, vi fossero sempre delle piccole offerte di cibo; una coppetta di riso, un cetriolo, una rapa gigante (daikon), un dolce. Furono le bambine Raimondi che cominciarono a servirsi di queste offerte, di questo dono tra il celeste e l’umano. “Sai papà, è curioso,” raccontava Dafni, “più si mangiano le offerte e più rinascono... Usano anche in Giappone i miracoli?”
La realtà era che la badessa, notata la fame dei suoi (segretamente) protetti, rimetteva subito a posto quanto notava mancante sui suoi altari del tempio. In altri tempi anche i grandi, senza dubbio, avrebbero cercato di prender parte alla mistica manna buddista, ma ormai al Kōsai-ji tutti riuscivano a riempirsi lo stomaco, e il miracoloso festino fu lasciato ai giochi delle bambine.
* * *
Pochi giorni dopo l’arrivo degli italiani al Kōsai-ji, il tempio venne raggiunto da altre tre persone, le quali furono alloggiate in una sorta di androne-deposito che chiudeva verso ponente il chiostro principale del santuario. Il trio era composto da un signorile vegliardo con la faccia di gaudente all’ultimo stadio d’un penoso disfacimento, da sua sorella, una vecchiaccia orribilmente magra, goffamente ricurva, nervosa, stridula, sdentata, e da un nipote sulla trentina, totalmente scemo.
Questi tre personaggi da incubo, fu accertato subito da Giorgio, appartenevano a una grande e nobile famiglia di Nagoya; il barone aveva però dilapidato una grossa parte delle proprie sostanze, e i suoi avevano finito con l’interdirlo: le responsabilità e il titolo della nobile casata erano stati affidati a un più rispettabile fratello. In Giappone dove, prima della guerra, e anche dopo, la famiglia aveva poteri straordinariamente estesi, trovarsi messi da parte non era davvero uno scherzo. Il vecchio barone e la sorella vivevano infatti in totale indigenza. Il nipote era stato buttato là, come vergogna indesiderabile della specie, a completare la terna.
Il grado di rozzezza nel quale può cadere chi è stato allevato a una vita di larghezze, e si trova improvvisamente oppresso dalla miseria, supera spesso ogni limite. Mancando la possibilità di far eseguire alla servitù le normali pulizie, e non essendo mentalmente preparati alla fatica di provvedervi da sé, i signori possono precipitare di colpo dalla civiltà più squisita alla sporcizia più assoluta.
I Sato, barone, sorella e nipote, diciamolo francamente, erano schifosi; la loro poca pulizia era tale che il lezzo arrivava fino al tempio, specie quando tirava lo scirocco. Vestivano tutti sempre in kimono, abito bellissimo per le pieghe con le quali abbiglia il corpo, per l’eleganza con la quale situa l’uomo e la donna nello spazio, ma orrendo se curato male; pende allora da tutte le parti, raccatta ogni sudiciume, s’impiglia negli ostacoli, strappandosi e riducendosi in stracci.
Pari alla rovina fisica dei tre Sato era la loro rovina nervosa. Non passava giorno senza che urli e berci forsennati giungessero al tempio dalla parte del chiostro. La vecchia era quella che sbraitava di più, ma talvolta anche il barone univa una voce roca e catarrosa a quel concerto, il cui basso continuo era dato dai lamenti piagnucolosi del nipote scemo.
Dopo alcuni giorni uno degli italiani scoprì che il barone riceveva il giornale; benché la polizia avesse severamente vietato ai detenuti e ai Sato di stabilire rapporti tra di loro, la comunità pensò che forse sarebbe stato possibile persuadere il vecchio nobiluomo a passare ai reclusi italiani i suoi quotidiani, una volta che li avesse letti, per supplire alla cronica mancanza di notizie sull’andamento della guerra. I Sato, come i vicini italiani, avevano fame, soltanto che gli europei del tempio riuscivano ormai con i loro traffici a rifornirsi molto meglio; quindi potevano anche offrire cambi vantaggiosi, per esempio riso contro giornali. Una sera, quando il capo della polizia era sceso in paese a brindare con i maggiorenti locali alle vittorie che la radio continuava a promettere, il diplomatico decise di rendere visita clandestina sì, ma formale, al barone. Clé lo accompagnò come “palo”.
Il sole d’una luminosa giornata estiva era appena tramontato oltre risaie e boschi; il barone fu trovato seduto sciattamente dinanzi a una parvenza-relitto di tokonoma, mentre la sorella e il nipote si davano da fare intorno a un pentolino posto in bilico sopra alcuni tizzoni in un braciere. Il barone leggeva appunto il giornale e guardò gli intrusi in modo sinistro, con una strana espressione mista di timore e di disprezzo, ma poi quando gli fu rivolta la parola in linguaggio rispettoso, accolse benevolmente gli ospiti; era anzi fatto patetico notare come gli venne subito spontaneo riprendere posizione, gesti, discorsi da uomo di mondo, benché fosse vestito come un mendicante o un barbone e si trovasse in una stanza che era stata per anni deposito di vecchi attrezzi e cose inutili, con il soffitto a pezzi, le pareti scrostate, e molte polverose ragnatele negli angoli e alle finestre.
Dopo i soliti preliminari riguardo al tempo e all’ultima fioritura (quella dei ciliegi), il diplomatico arrivò, con lunga circonlocuzione, all’essenziale della proposta; che il gentile barone, dopo la lettura, avesse la compiacenza di passare i giornali ai vicini, di nascosto s’intende dalla polizia. Forse era stato uno sbaglio per gli ospiti trattare il barone con eccessivo rispetto. Adesso sembrava essersi risvegliata in lui l’originaria natura di hidalgo/samurai. L’idea di fare le cose di nascosto (naishō) non gli andava minimamente a genio. Una dignitosa fierezza stava pervadendo gesti e parole; le dita sporche e sottili, coronate dal nero di certe unghie lunghissime, si agitavano nei movimenti solenni del signore nato che conferisce con un distinto, ma decisamente inferiore, amico su argomenti di grande importanza.
Il diplomatico italiano conduceva la conversazione con abilità e risultava già chiaro che il barone dovesse ben presto crollare dalla sua riluttanza a passare i giornali ai vicini. Era curioso vedere questi due uomini, abituati a ben diversi generi di vita, alle prese l’uno con l’altro in un linguaggio e con procedimenti formali da grandi circostanze, da conferenza con segretari e traduttori simultanei, mentre all’aspetto sembravano degli accattoni in una catapecchia di bidonville. Non si pensi minimamente però che l’anziano diplomatico e il barone potessero venire sul serio accomunati, oltre un piano del tutto superficiale. Era vero che una certa patina di patimenti subiti e di estrema miseria li rendeva avvicinabili, ma bastava uno sguardo che penetrasse oltre la pelle per comprendere le fondamentali differenze. Il barone era un relitto, un distinto sciagurato ormai sommerso; il vecchio diplomatico, sempre rasato con cura, con due baffetti bianchi sforbiciati due o tre volte al giorno, era un cembro d’alta montagna, squassato dalle tempeste e dalle saette, ridotto a una scheggia durissima d’antico legno, pronto ancora però a gettar verdi germogli di vita, appena le circostanze lo avessero permesso.
Per l’uno si potevano provare soltanto schifo e pietà, per l’altro pena e ammirazione.
Mentre il cerimonioso dialogo procedeva verso l’inevitabile epilogo favorevole agli italiani, Clé si guardava attentamente intorno. Qua e là, come oggetti preziosi misti a fango e galleggianti sulle acque d’una piena, si scorgevano alcuni patetici avanzi di quella che doveva essere stata una grande casa, ornata, fiera e ricchissima: una pregevole teiera di ferro brunito e lavorato, per esempio, oltre a numerose coppette di legno laccato di straordinaria finezza, buttate a casaccio in una scatola di cartone deturpata da sporcizie e da avanzi di cibo; oppure, uno scrigno da lettere (fubako), anch’esso laccato e dorato con la gagliarda eleganza della scuola di Korin.
D’un tratto il nipote, attizzando il fuoco, fece pendere troppo la pentola da un lato, rovesciando buona parte del contenuto e riempiendo la stanza d’un nugolo di vapore. La zia gli saltò addosso, gridando come un’ossessa. Il diplomatico e Clé furono così testimoni d’una di quelle orrende liti delle quali giungevano spesso gli echi fino al tempio. Sempre berciando, la vecchia afferrò un mestolo di legno e prese a rincorrere lo scemo in giro per la stanza, calpestando ogni volta che vi passava sopra, la pappa rovesciata. Al coro di vociacce e lamenti s’unì infine la deprecazione del barone che cercava invano d’imporre la calma. Agli italiani non restò che fuggire, fortunatamente con un pacco di giornali sotto il braccio.
Durante il mese di giugno c’erano stati altri arrivi, che non riguardavano proprio il Kōsai-ji, ma un tempio minore, non lontano. Si trattava di un gruppo di una ventina d’olandesi, profughi dall’Indonesia. Alcuni di essi erano tecnici di radiofonia d’alto livello e riuscirono in pochi giorni a montare degli eccellenti apparecchi ricettivi, fuori d’ogni controllo poliziesco, e quindi il capitale di notizie comune a tutti, il panorama delle fasi finali della guerra, si arricchì nel modo più inatteso.
A luglio, d’improvviso, il barone morì. Il nipote corse a dirlo agli italiani vicini: “Eh, eh,” mugolava, ridendo oscenamente, “è morto lo zio, eh, eh...” Era difficile capire se fosse addolorato o contento e, in fondo, se comprendesse quello che significa “morte”. La vecchia e discinta sorella aveva invece perso la testa non tanto dal dolore, almeno sembrava, ma dalla confusione. Vagava di qua e di là raccattando gli oggetti e riponendoli al medesimo posto, senza fare nulla per preparare il funerale. Nessuno tra i molti giapponesi, italiani e olandesi presenti se la sentiva di dare una mano, tanto faceva senso quel mucchio di cenci, di ossa e di carni bigiastre che costituivano il cadavere del barone. Fortunatamente, a metà pomeriggio, vennero su dal paese di Nishi-nakagane due giovanotti prestanti con la cassa. Questa, come si è già detto, in Giappone non è lunga ma larga e tozza: il morto non vi sta dentro sdraiato, ma rannicchiato “come il feto nell’utero materno”. La vecchia riuscì, fu difficile dire come, a persuadere i due giovanotti a mettercelo loro, il barone, nella cassa; gli arti del morto s’erano però irrigiditi e l’operazione pare fosse divenuta difficoltosa.
Fu così che Clé, tornando verso l’imbrunire da una spedizione con la capra a un casolare di là dal monte, trovò tutto il popolo del Kōsai-ji e dintorni – gli internati italiani, alcuni di quelli olandesi, i ragazzi del tempio e molte persone del vicino villaggio – che assisteva tra divertito e sconcertato allo spettacolo di due robusti giovani contadini che ballavano come orsi sul coperchio della cassa baronale per cercare di chiuderla; il cadavere non s’era assolutamente voluto piegare a modino nell’auspicata posizione fetale.
A un certo momento uno dei giovanotti cacciò un urlo e schizzò via dalla cassa, seguito subito dal compagno: “I pidocchi!” gridava. “I pidocchi!” Pare che innumerevoli parassiti, i quali vivevano felici tra le sporcizie del nobiluomo, si fossero ormai decisi ad abbandonare il proprio territorio abituale di caccia, in cerca di carni più saporite e possibilmente vive. Ci fu naturalmente un gran trambusto: poi arrivò lo Hojō abbigliato alla contadina, con un gigantesco barattolo di disinfettante, una polvere giallina, che fu subito sparsa ovunque nel cortile.
L’indomani ebbe luogo il funerale. Il barone apparteneva a una famiglia abbiente e ben nota, si vede che lo Hojō aveva ricevuto istruzioni di provvedere a una funzione degna, se non della persona, del rango.
Fin dalla mattina si erano radunati al Kōsai-ji parecchi prelati buddisti, insieme a giovani sacrestani che portavano i paramenti sacri in grossi involti grigi. Il chiostro fu pieno di gente e di voci. Verso le undici ebbe inizio la cerimonia. Il tempio era stato aperto e addobbato splendidamente per l’occasione. Lo Hojō e il genero comparvero rivestiti da sgargianti cappe di seta (kesa) color viola, giallo, arancio, simili del resto a quelle dei loro colleghi venuti da fuori. C’era anche una monaca, con il cranio rasato a zero che luccicava come una palla d’avorio. Furono lette varie Sacre Scritture e si bruciarono tanti incensi che, dal fumo, pareva vi fosse un incendio. Nessuno però riusciva a stare veramente serio. La storia grottesca del barone coperto d’insetti era ormai nota e stranota; bastava un nulla per far scattare nuovi allarmi, per fare quindi scoppiare tempeste di risolini, malamente soffocati nelle maniche dei vestiti.
Le facce si fecero più serie e compunte quando apparve per un breve momento sul portale del chiostro il fratello dell’estinto, insieme ad alcuni signori che lo seguivano a rispettosa distanza: era il vero barone Sato, un corpulento gentiluomo, piuttosto anziano, funereo d’aspetto – e con le ghette. Il piccolo gruppo si trattenne per qualche istante in silenzio senza palesare alcuna emozione, poi sparì.
Fu davvero fortuna, per i distinti ospiti, l’essersi ritirati così presto! Pochi minuti dopo scoppiò infatti il secondo scandalo dei pidocchi. Uno dei preti, che stava più vicino degli altri alla cassa, si accorse che numerosi parassiti grossi e biancastri stavano uscendo dalla bara e avanzavano aggressivamente verso il capitolo dei sacerdoti salmodianti, elegantemente accucciati sui tatami dinanzi all’altare fiorito e colmo di candele accese. S’intesero allora delle grida e ne seguì un fuggi fuggi generale: prelati, monache, abate, tuniche, dalmatiche, manti, ombrelli sacri, rosari, incensieri, campanelli, tamburi, svalangarono dall’interno del tempio verso il cortile, tra le risate irriverenti della piccola folla internazionale; e la cerimonia riprese all’esterno.
A questo tragico punto qualcuno degli italiani osservò che la cassa restava nel tempio, non lontano dallo spazio concesso agli internati per dormire, e che sarebbe stato opportuno assicurarsi che i famosi pidocchi non si diffondessero in giro. Fu così che Somi, sempre pronto ad affrontare ridendo le cose spiacevoli che nessuno voleva fare, si lanciò per portare la cassa in cortile. Naturalmente da solo non ce la faceva; allora Clé si precipitò a dargli una mano, seguito da un forte contadino del luogo: la cassa del barone venne piazzata nel bel mezzo del cortile, dove il sole di piena estate lavava le impurità come un oceano.
Ma ormai il funerale s’era trasformato in farsa, tutti ridevano. Rideva anche come un fauno il vecchio Hojō, all’ombra del suo ombrello di seta gialla da alta cerimonia.