5. Riso rosa agli ex nemici

Con l’inizio d’agosto i detenuti ebbero ormai la sensazione che la fine della guerra fosse davvero vicina.

I poliziotti non si vedevano quasi più.

Gli italiani e gli olandesi avevano stretto varie simpatiche amicizie europee tra di loro e scendevano come nulla fosse in paese: tutti li conoscevano e li salutavano come amici. Quando faceva caldo Clé andava con Malachite e le bambine a nuotare nel grande fiume che scorreva, verde e freddissimo, a valle dietro la montagna che sovrastava il Kōsai-ji. Il ritorno verso la libertà, verso la vita normale, avveniva dunque per gradi, fatto davvero fortunato.

Clé non ricorda bene se fu il 7 o l’8 agosto che arrivò la notizia del terrore di Hiroshima: ma i primi giorni neppure i giornali sapevano dare una spiegazione chiara del disastro. Solo dopo una settimana parlarono di bomba atomica (genshi-baku-dan). Poi ci fu la notizia di Nagasaki.

Più impressionante sembrò la notizia che la Russia era entrata in guerra contro il Giappone. “Questa è proprio la fine,” si sentiva dire in giro.

Il 15 d’agosto un ragazzo venne di corsa dal paese ad annunciare che l’imperatore avrebbe parlato alla radio: era la prima volta nella storia millenaria del Giappone che succedeva una cosa simile e tutti si dimostrarono molto impressionati. “Forse ci comunicherà che dobbiamo batterci fino alla morte,” suggerì fiaccamente uno dei poliziotti. Si sentiva però che lo diceva così, tanto per fare bella figura.

A questo punto ebbe luogo un fatto curioso. Verso mezzogiorno l’imperatore pronunciò il suo discorso, nel quale effettivamente annunciava la resa, ma nessuno dei giapponesi del Kōsai-ji e dintorni riuscì a capirne il senso. Il testo era infatti composto in un linguaggio di corte talmente lontano da quello ordinario, che bisognava essere dei veri filologi per afferrarne il senso. Risultato: fino alla sera, quando giunsero i giornali con notizie chiare e spiegazioni, i poliziotti non vollero dire “Siete liberi”. Soltanto più tardi, al chiaro di luna, i detenuti conobbero la dolcezza della vera libertà. I poliziotti intanto erano spariti senza il minimo cenno di saluto. Per forza, avevano vergognosamente perso la faccia due volte, una come vinti nel gran torneo iniziatosi con Pearl Harbor, e una come incapaci di capire le parole dell’augusto e divino sovrano!

Pei il momento la piccola tribù rimase nel tempio, ormai sentito come “un gran bel posto, ospitale e simpatico”. Senza contare che si poteva scendere in paese, visitare le famiglie con le quali si erano stretti legami di nascente amicizia, fare qualche compera (c’era ben poco in giro!), scambiare le ultime lenzuola trasformate da Malachite in camicie (brava davvero in quest’opera di solerte artigiana – chi l’avrebbe mai detto?), portando indietro riso, uova, pesce fresco di fiume, magari un pollo ruspante o un coniglio. Malachite e Clé riscoprirono le gioie d’un coniugale amplesso sull’erba profumata, all’ombra della luna tra i rami dei pini, al canto dei grilli notturni, dopo quasi due anni di castità non voluta né imposta da alcuno, ma semplice risultato delle continue miserie, della fame, del freddo, della prostrazione d’animo.

Intanto avveniva un fatto curioso: numerosi giapponesi, anche sconosciuti, avvicinavano Clé e i suoi amici, molto preoccupati per l’imminente “arrivo degli americani”. Parlando dell’isola di Saipan e dei suoi civili giapponesi suicidi a migliaia, spettacolo che impressionò profondamente persino gli alleati occupanti, molti dei quali cercarono invano di evitare la strage insensata, vengono in mente le storie fantastiche che precedevano l’attuale arrivo degli anglo-americani e dei loro alleati. Le descrizioni meno malevole vedevano gli americani come “mercenari, immorali, privi di scrupoli, vanagloriosi, arroganti, schiavi del lusso, fiacchi, nauseabondi, superficiali, decadenti, intolleranti, privi d’ogni civiltà e del tutto barbari”.

Per anni i nemici d’oltreoceano erano stati chiamati kada-mono (bruti), yajū (belve selvagge), oni (demoni), kichiku (diavoli), akki (spiriti del male), kaibutsu (mostri) e via dicendo. Giornalisti immaginosi avevano completato gli ideogrammi Ei e Bei, simboli degli inglesi e degli americani, con i radicali di bestia, di belva; la lettura fonetica restava la stessa, ma il simbolismo visivo, elemento potentissimo nella scrittura ideografica, veniva completamente stravolto, e nel senso più disgustoso possibile.

In alcuni ambienti circolava perfino la storia che gli americani avrebbero sterminato tutti i maschi, lasciando vive soltanto diecimila donne giovani e belle, che facessero da guardiane e da guide-geisha per un Giappone trasformato in un parco giochi e sollazzi per il mondo intero! Il muro di pregiudizi si ripresentava adesso, anche se abbastanza diluito, nel caso del Giappone come totalità. “Ma è vero che porteranno via gli uomini ai lavori forzati in fabbrica, in miniera? E le donne, che fine faranno?” Queste erano alcune delle domande che venivano continuamente fatte a Clé e ai suoi compagni. Molti giapponesi dovevano pensare in segreto: “Speriamo non ci trattino come abbiamo trattato noi non solo i nostri nemici, ma i nostri vicini coreani, cinesi, filippini e via dicendo.”

Altra sorpresa, che richiedeva ampie circonlocuzioni di pensiero antropologico: lo Hojō e i suoi invitarono tutti gli internati (ormai felicemente ex internati), a piccoli gruppi, un po’ per volta, a un pasto diciamo festivo nella sala d’onore dell’appartamento annesso lateralmente al tempio, offrendo a ciascuno il riso rosa (o-sekihan) delle fauste occasioni: “Per congratularci con voi d’aver vinto la guerra!” Non era davvero il caso di tentar di spiegare a dei giapponesi non solo di provincia, ma d’un villaggio sperduto tra i monti, in che po’ po’ di pasticcio si trovava la nostra amata penisola nell’anno di grazia 1945... Sì, Malachite e Clé avevano fatto una scelta giusta a suo tempo, ma poi erano gli alleati, gli americani che avevano vinto per loro, per tutti; era a loro che andava offerto spiritualmente lo o-sekihan, “l’onorato riso rosa”, no?

A ogni modo qui sembra più sensato, anziché spiegare il groviglio italiano ai giapponesi, spiegare, se possibile, il groviglio giapponese agli italiani. La domanda che si poneva subito al Kōsai-ji era la seguente: com’era possibile che un popolo che si era dimostrato così gagliardamente, spesso così ferocemente, militarista, soldatesco, tanto innamorato del mito della guerra fin dal Medioevo, e poi in epoca moderna affrontando e battendo i cinesi (1895), nonché i russi (1904-5), e di nuovo scontrandosi con i cinesi dal 1937, e infine sfidando gli anglo-americani e i loro alleati, dal 1941 in poi, com’era possibile, veniva da chiedersi, che potesse sedersi poi sorridendo a un tavolo festoso per celebrare con gli ex nemici “la loro vittoria”? Cavalleria? “Messieurs, tirez-vous les premiers?” Proprio non combacerebbe per nulla con le tradizioni dell’Asia orientale... E allora era forse un caso speciale dovuto al fatto che il Kōsai-ji si presentava come un fronte di sacerdoti buddisti, quindi di persone per fede e abito mentale universaliste e pacifiste? Clé dovette ben presto persuadersi che simile spiegazione non aveva alcun valore.

Lo Hojō e famiglia, in quel frangente, si comportarono istintivamente come giapponesi, non come buddisti. Nelle settimane venture Clé sarebbe stato testimone di tanti episodi consimili. Uno dei più clamorosi fu quello in cui si trovò a Tokyo, dinanzi all’edificio del quartier generale alleato (al Dai-Ichi Sogō Building), dove vide il generale MacArthur uscire dal portone a mezzogiorno, da solo, senza scorta, per recarsi a colazione, tra due file di giapponesi d’ogni genere, età e sembianza, che gli battevano fragorosamente le mani. Dicevano: “È il nuovo shōgun dagli occhi azzurri (aoi-me no shōgun). Evviva!”

“Ma sono espressioni tipiche del loro pragmatismo!” affermavano sia Giorgio che Somi quando l’episodio “riso rosa” veniva ricordato e commentato. Sì, anche Clé era perfettamente d’accordo. Ma vale la pena di approfondire un po’. Cosa significa esattamente pragmatismo in un simile contesto? In Occidente il pragmatismo è senz’altro filosofia minore, di ripiego, di rinuncia; il pragmatico pare dica: “Teniamoci vicini a terra perché le stelle saranno bellissime, ma sono lontane e inutili.” Il pragmatismo è nato tardi e ha radici tipicamente americane (Charles Sanders Peirce, William James e altri).

Per i giapponesi invece, che non hanno mai dimostrato gusto né inclinazione per le astrazioni, per le categorie cristalline dello spirito, il pragmatismo si tinge di mistica, propone come vera saggezza l’istintivo adeguarsi al respiro, al palpito del mondo, il sincronizzarsi abissale, magari segreto e furtivo, del micro con il macrocosmo. In altre parole, i fatti hanno sempre ragione, la guerra è come un supremo sport: la vittoria ha dimostrato la vostra superiorità, sarebbe da insulsi, da sciocchi, da ciechi non accettarla. Dunque “riso rosa agli ex nemici” è piena saggezza, sintonia situazionale con gli eventi, armonia tra le sfere del visibile e dell’invisibile.

“Il pragmatismo giapponese si capisce ancora meglio,” affermava Clé durante queste amate e proficue conversazioni con gli amici Giorgio e Somi, “quando si consideri la mitologia delle origini.” “Nessuno ci crede più!” obiettava ridendo Somi. “Vero, verissimo,” riprendeva Clé, “ma i modi di pensare che essa ha generato e sostenuto per millenni persistono ancora, ben oltre il decesso delle mitologiche trame: come del resto avviene da noi.” L’Occidente ha per punto di partenza cosmico la creazione ex nihilo (versione moderna il Big Bang), concetto altamente astratto e metafisico, in ogni caso sovrumano, perfettamente in armonia con il gusto occidentale per i contenitori smisurati, per gli accalappiatutto del pensiero: i giapponesi alle origini vedono (o vedevano) la presenza calda e carnale della coppia originaria Izanaghi ed Izanami (il Maschio che invita, la Femmina che invita), i quali non creano il mondo, ma lo generano sessualmente, con procedimento dunque del tutto biologico e umanamente comprensibile. Non solo, ma va ricordato che i progenitori d’origine non generano “il mondo”, ma soltanto le isole giapponesi, con tutto il loro corredo di montagne, mari, isole minori, piante, animali ed esseri umani. Dunque l’orizzonte si restringe all’estremo; non si può parlare di cosmogonia, bensì unicamente di nippogonìa.

Queste circostanze d’una storia quasi privata del mondo, con orizzonti fortemente limitati, porta a una fratellanza pressoché consanguinea tra esseri umani e montagne, fiori, rugiade, vulcani, nubi, tempeste – e spiega, sul piano affettivo ed emotivo, sia l’amore nipponico per la natura, sia il pragmatismo mistico come filosofia della parentela con il mondo, imponendo accettazione del dato oggettivo, del fatto, come imperativo del macrocosmo al microcosmo.

* * *

Fu in questo periodo, una settimana circa dopo la resa, che la radio annunciò una notizia di grande e immediato interesse: aerei alleati, dicevano, avrebbero sorvolato tutti i campi di prigionieri militari e d’internati civili per un lancio di rifornimenti. Era così necessario esporre dei segni, come suggerito, per terra, in luogo ben visibile... Ma c’era davvero qualcuno che si ricordava degli internati del Kōsai-ji? Possibile che fossero informati della loro esistenza? Sembrava troppo bello per essere vero! Commuoveva soprattutto la sensazione di essere, almeno da qualcuno, non si capiva bene da chi, amati, benvoluti, considerati degni d’attenzione. Naturalmente i segni prescritti vennero esposti sulla collina dietro il tempio, in una radura del bosco, stendendo per terra lenzuola e asciugamani. Poi ebbe inizio l’attesa.

Passò un giorno, niente; ne passò un secondo, nulla. Gli uomini stavano per un’ora ciascuno di guardia sulla collina, pronti a chiamare gli altri al primissimo avvistamento. Un pomeriggio di nuvole grigie e fiacche, per il cielo fu notato un grande aereo che sorvolava bassissimo le colline, all’orizzonte, verso sud. Sembrava sfiorasse gli alberi da quanto era vicino a terra, e volava con incredibile lentezza. “Vedrai, si schianterà nei boschi...” esclamò Somi “e addio rifornimenti!” Poi l’aereo sparì. Ogni speranza sembrava ormai persa, quando riapparve. Evidentemente cercava qualcosa; girava, rigirava, continuò per un’ora, forse più, a comparire e scomparire tra le colline.

D’un tratto, puntò diritto verso la collina. Passò due volte sul tempio, sempre più basso; era colossale, potente, faceva persino paura, era uno di quei B29 che erano sempre stati visti da lontano. Al terzo passaggio il suo ventre si spalancò e ne sortirono degli oggetti che parevano tanti pacchettini, sostenuti da candidi paracadute. I pacchettini, quando piombarono a terra, vicinissimo ai destinatari, in realtà si rivelarono dei grossi bidoni di metallo alti un metro e mezzo; alcuni anzi precipitarono senza che il paracadute s’aprisse, fra gli urli d’italiani e olandesi che fuggivano in ogni direzione per mettersi in salvo.

L’aereo ripassò un’ultima volta, come per dare ancora un saluto; Clé non avrebbe più dimenticato l’immagine d’uno sportello aperto e d’un militare in camicia che si teneva aggrappato con una mano a qualcosa, mentre agitava l’altro braccio in segno di simpaticissimo evviva. Poi tutto sparì.

Gli ex detenuti si trovarono di fronte a una tempesta di scatolette, vestiti, biscotti, pacchi e involti d’ogni genere, oltre a sigari e sigarette nei loro involucri colorati; era un supermercato intero scaraventato tra i cespugli, sugli alberi, tra l’erba. Dopo quasi due anni di miseria, di fame, di conti fatti a base di chicchi di riso e di singoli fagioli, tenuti da parte come pietre preziose, ecco il paese di bengodi, ecco l’America nella piena favolosa delle sue ricchezze, ecco generosità e magnificenza leggendarie!

Nessuno sapeva da dove cominciare a contare, cosa raccattare prima, se fermarsi ad aprire qualche scatoletta d’ananas o di crema o se racimolare tutto con moderazione degli istinti, e portare tanta dovizia a casa. Le bambine, come impazzite di gioia, danzavano con tavolette di cioccolato in mano, chiedendo: “Cos’è questa roba nera, si mangia?” Era la prima volta che vedevano la ghiotta sostanza. Poi Dafni corse subito a far assaggiare “le delizie cioccolatose” a Keiko, una delle “figlie del tempio”, che aveva la sua stessa età ed era divenuta la sua amica del cuore.

Tra l’altro fu scoperto nel bosco un albero carico di scarpe; sembrava avesse improvvisamente prodotto degli strani frutti tropicali. D’altra parte il letto d’un torrentello secco era colmo di sigarette, Lucky Strike, Camel, Philip Morris, migliaia di pacchetti che scintillavano al sole. Uno dei bidoni, che era caduto al suolo senza che il suo paracadute s’aprisse, e che originariamente doveva contenere scatolette di panna, pacchetti di zucchero e di cioccolato in polvere, essendosi completamente sconquassato nell’urto, s’era trasformato in una gigantesca zuppiera colma di uno squisito e ghiotto budino supernutriente, dalla quale non restava che attingere a secchiate intere. Mentre Clé tornava verso il tempio, curvo sotto il peso del bottino, trovò Somi seduto in un cespuglio, circondato da scatolette d’ogni specie: carne, frutta, insalata russa, dolci... Ne apriva una a caso, ne divorava il contenuto, passando poi subito a un’altra come veniva veniva. “Schiatterai, budellone!” gli gridò l’amico.

Quando finalmente tutti si riunirono quella sera, il tempio sembrava un supermercato. L’ingegnere milanese tentava di mettere un po’ d’ordine nelle “derrate”: qua i cornflakes, là le scarpe, più in là ancora la crema “di mucche contente” in scatolette fiorite, poi c’erano le famose razioni Kappa, scatolette rettangolari delle misure d’un mattone contenenti “il cibo per un uomo per un giorno” (che da principio parvero deliziose, ma poi vennero improvvisamente a noia e disgusto quasi inspiegabili); di vestiti ce n’era per un piccolo esercito. Quanto alla pappatoria, era stata così improvvisa, colossale e sregolata che tutti desideravano unicamente giacere immobili in attesa che passasse la nausea. Gli ex detenuti erano come delle serpi che hanno fatto strage di capretti interi e si ritirano in un buco a digerire.

Il giorno dopo, quando gli “ex poareti” cercarono di fare un po’ un inventario di quanto era piovuto dal cielo, capirono d’avere a disposizione un piccolo patrimonio. Pare che gli americani lanciassero i loro rifornimenti in misure prestabilite: per cento, per mille, per diecimila persone. Sul Kōsai-ji era piovuta la misura minima: per cento individui. Siccome, tra italiani e olandesi, il numero non raggiungeva le quaranta unità, ciascuno aveva a disposizione tre paia di scarpe, tre giacche, sei camicie, oltre a una montagna di scatolame e di sigarette. La vita libera poteva affrontarsi con una certa tranquillità, almeno per le prime settimane. Thank you, Uncle Sam!

I contadini dei dintorni furono, tutto sommato, molto dignitosi; forse trafugarono alcune paia di scarpe sperdute nel bosco, ma in genere, se desideravano qualche oggetto, venivano a offrire dei regolari cambi con riso, o altro cibo, che tutti accettavano volentieri. Il riso è uno degli alimenti fondamentali del genere umano; come il pane, non viene mai a noia. Tutti capivano che una buona scorta, almeno allora, era la sola cosa che rendesse veramente indipendenti ancor più del denaro, di cui non si capiva il valore esatto. Gli ex detenuti stavano giusto riemergendo dal lungo periodo di scambi in natura, all’economia in denaro!

Disgustosi furono invece i poliziotti; e tra loro soprattutto quel Fujita (detto Radetzky) che tanto aveva rintronato a tutti gli orecchi al Tempaku con urlacci da guerriero rompitutto, sfondatutto, ammazzatutti. Dopo essere sparito per alcuni mesi, riapparve proprio gli ultimi giorni al Kōsai-ji. Clé se lo trovò improvvisamente vicino nel tempio; quello cominciò a parlare, con il fare osorù-osorù (pauron-pauroni), chiedendo, nel più abietto dei modi, che gli venisse regalato un paio di scarpe, una giacca, delle sigarette... “Va bene una certa dose di pragmatismo,” pensava Clé, “ma qui passiamo tutti i limiti!” “Tieni,” fece buttandogli una bracciata di roba, “ma non farti mai più vedere da queste parti...”

Ormai anche il mese di agosto, che era stato quasi tutto bellissimo, fulgido di sole e d’azzurro, stava finendo. Venne il momento d’abbandonare il Kōsai-ji, l’antico tempio che nella luce dorata della tarda estate rivelava tutto il suo fascino, non dissimile da quello, in sostanza, di qualche vetusta badia fuori mano in Umbria o in Toscana. Al Tempaku si poteva pensare con disgusto, ma il Kōsai-ji era stata un’esperienza di rinascita per tutti. Clé ripeteva spesso mentalmente la frase letta nel diario di Malachite: “Quasi nulla qui è triviale...”, proprio come nella musica di Mozart!

La prefettura di Nagoya mandò a prendere gli ex detenuti con il solito autocarro verde. Al momento della partenza anche il vecchio Hojō aveva le lacrime agli occhi; Dafni e Keiko, la sua amichetta, si abbracciavano e piangevano a dirotto... E la capretta? “Sensei, ve la lasciamo! Era dell’Imperiale Governo Nipponico, ma ora è vostra... trattatela bene!” In questo nuovo viaggio i poliziotti saltellavano intorno agli stranieri loro affidati come premurosi valletti, chiedendo ad adulti e bambini se qualcosa, per caso, non andasse bene. Avevano paura che qualcuno potesse vendicarsi delle angherie subite, parlando male di loro agli americani.

Ma la guerra era finita, in un certo senso sepolta, anche grazie agli influssi segreti del Kōsai-ji, che aveva istillato negli animi molta dell’indicibile benevolenza buddista. Forse un solo personaggio avrebbe potuto risvegliare sentimenti in disarmonia con il luogo e l’atmosfera: il serpente Kasuya. Ma quello, intelligente e furbissimo, non si fece vedere, neppure da lontano.