6. Tokyo distrutta, l’amico distrutto
Salutato il Kōsai-ji, lasciata Nagoya, Clé e i suoi vissero un mese sbadato, sbandato e beato di vagabondaggi tra Kyoto, Tokyo e Karuizawa. Ah, la gioia della libertà! E non avere più addosso tutto il giorno gli occhi degli angiolini, soprattutto del viscido e spietato Kasuya!
Bisogna dire che fu anche un mese molto strano per il Giappone. Dopo l’annuncio imperiale della resa, dato il 15 agosto del ’45, si era presentata una situazione unica nella storia. Il Paese si era dichiarato vinto, ma senza che si vedesse l’ombra d’un nemico sul suo territorio. Era, per così dire, una resa virtuale! Una resa teorica! I militari, e coloro che si sentivano qualche senso di colpa addosso, ebbero tutto il tempo di bruciare tonnellate di documenti, fotografie, pellicole e simili. D’altra parte i comuni cittadini vivevano nel terrore del vicinissimo futuro. E questo per due ragioni: la prima, che la propaganda del governo, come si è visto, aveva per anni martellato in testa ai giapponesi che gli alleati, e soprattutto gli americani, erano “selvaggi, brutali, violenti, avidi e sporcaccioni”. Dunque c’era da aspettarsi il peggio. In secondo luogo, molti giapponesi erano ormai al corrente dei trattamenti crudeli da loro riserbati ai prigionieri alleati, nonché alle popolazioni soggette, durante gli anni di guerra – e temevano una sorta di vendetta, che poteva ai loro occhi sembrare anche giusta, o addirittura meritata.
Clé soprattutto, ma talvolta anche Malachite, venivano spesso avvicinati, in quei giorni sospesi sul nulla, da gente d’ogni età e ogni condizione sociale, che voleva sapere qualcosa riguardo ai famosi americani. “Ma ci porteranno via gli uomini per i lavori forzati? E stupreranno tutte le donne, magari anche le bambine?” Clé cercava di calmare i loro animi, per quanto poteva, ma gli occhi sembravano per lo più increduli, e gli orecchi sordi alle varie rassicurazioni.
Poi, dal 25 agosto, quando i primi aerei “nemici” atterrarono ad Atsughi vicino a Tokyo, si vissero alcune settimane del tutto assurde! Gli americani si facevano vedere soltanto in piccoli gruppi, armatissimi e sospettosi all’estremo. A Clé fu chiesto più volte con ansia: “Cos’è questa calma totale e sinistra? Tu che li conosci, pensi che ci salteranno addosso all’improvviso con uno dei loro slanci gridando ‘banzai’? Quando tenteranno di farci fuori?” Allora Clé provava altre forme di rassicurazione, adatte al versante opposto: “Ma guardate che l’imperatore in persona ha detto ai suoi sudditi di deporre le armi, e la parola imperiale da queste parti è dogma...” Anche tra gli americani, però, pochi sembravano persuasi. “Come?” esclamavano alcuni. “Fino a pochi mesi fa si facevano tagliare a pezzi piuttosto che arrendersi... Ricordi Okinawa? E ora che ci hanno completamente in mano loro, si mostrano tranquilli come pecore al pascolo... C’è da crederci?”
Intanto la maggior parte dei giapponesi si teneva chiusa in casa, almeno dove le case erano rimaste in piedi, in attesa delle temute violenze. Quanto alle donne, soprattutto quelle d’età inferiore ai cinquant’anni, erano completamente sparite, essendosi rinchiuse in casa per la paura. Fu solo verso la fine di settembre, diverse settimane dopo i primi atterraggi e i primi sbarchi, che la situazione andò migliorandosi un poco.
Infine ci fu un momento magico. Ambedue le parti, i vincitori arrivati da fuori e i vinti nelle loro case e nelle loro botteghe, capirono l’inutilità grottesca di tanto terrore fondato sul nulla, su pure voci, sul sentito dire, e si concretizzò in pochi giorni un clima di beato sollievo. Il quale in seguito, intensificandosi, fiorì in un vero slancio verso l’abbraccio reciproco. Ebbe così inizio una delle occupazioni più calme e di maggior successo di tutta la storia moderna. In altri Paesi dei dissidenti si sono subito buttati alla macchia, hanno cercato di continuare la guerra con la guerriglia. In Giappone nulla.
Il Tennō aveva parlato. Ipse dixit. Bastava. In poche settimane si videro in giro coppie sorridenti di militari alleati e graziose musumè, spesso abbigliate nei loro kimono da festa! In seguito la “fraternizzazione” venne limitata, e in qualche caso proibita, ma ciò dimostra quanto tutto ciò fosse frutto di sentimenti spontanei da ambo le parti.
Clé trovò ben presto lavoro come ufficiale di collegamento presso un ufficio dell’VIII Armata americana. L’accoglienza dei vari ufficiali dell’esercito fu delle più cordiali. Clé si sentì immediatamente uno di casa, anche per la sua familiarità con l’inglese. Avveniva semmai che i colleghi lo prendessero spesso in giro per certe pronunce, certi giri di frasi, certi vocaboli, che ormai l’uso americano ritiene caratteristicamente inglesi, quindi curiosi, antiquati, fuori moda, propri dei limies, cioè dei bevitori di limonata indiana (lime juice), com’erano definiti i britanni da quelle parti.
Clé, con Malachite e le bambine, si era sistemato in un albergo vicino all’ufficio, quindi i problemi domestici potevano dirsi, se non risolti, per lo meno accantonati.
I sei mesi trascorsi a Tokyo lasciarono in Clé un sentimento tutto sommato confuso, come di un’esperienza provvisoria (qual era in realtà). Nettissimi gli rimasero però due ricordi. Il primo riguardava la città, che era ridotta molto male, soprattutto dopo i terribili bombardamenti incendiari, specialmente quello del 9 marzo. Per quanto lontano si spingesse lo sguardo, compariva soltanto una landa sterminata di cocci, di alberi e pilastri in legno semicarbonizzati, di ferraglie arrugginite. Colpiva il fatto che in questo mare di ceneri maldigerite restassero in piedi dei misteriosi cippi di metallo, ormai ossidato dalle piogge. Il mistero fu presto chiarito quando Clé ne avvicinò uno e capì che si trattava delle ex casseforti degli ex negozi variamente distrutti. Curioso anche il fatto che, quando splendeva il sole, la landa s’illuminasse d’innumerevoli luccichii: erano frammenti di vetro, spesso fusi, ma molti rimasti intatti, che brillavano come delle minuscole stelle verdi! Su questo spettacolo di desolazione stavano crescendo dappertutto i rampicanti rigogliosi dei satsuma imo, le patate americane, che i pragmatici giapponesi avevano subito piantato, contando di poterne cogliere in poco tempo i frutti per i loro improvvisati fornelli.
L’altro ricordo è assai più doloroso, e squisitamente personale.
Clé stava un giorno seduto nel suo ufficio. Fuori della porta e nel vicino corridoio sostava la solita fila di giapponesi che desideravano lavorare per le forze d’occupazione, o che avevano da risolvere qualche problema che riguardava i loro rapporti con i militari americani. Smistata la fila, Clé notò un ometto seduto fiaccamente sopra una sedia, vestito d’un misero completo grigio. L’ometto si alzò e venne timidamente incontro a Clé, il quale da principio non lo riconobbe affatto.
“Come stai, Clé?” chiese con un po’ d’affanno. “Non mi riconosci, vero?”
Allora istantaneamente Clé capì chi era lo strano visitatore. “Oh, ma sei Hiro! Hiro Miyazawa, vero?”
I due giovani si abbracciarono forte e a lungo. Hiro singhiozzava per l’emozione, e anche Clé aveva le lacrime agli occhi.
Ma dov’erano finite la sicurezza, la gagliardia d’un tempo, quando i due ragazzi facevano insieme esperimenti nella costruzione d’iglù tra le nevi del monte Teine, in Hokkaido? Povero Hiro, lo avevano ridotto come un cane bastonato! In realtà doveva avere ventisei o ventisette anni, ma sembrava ne avesse quaranta o cinquanta. La pelle del volto, vagamente tesa sopra un fondo grassoccio, o acquoso, era d’un giallo malsano, o meglio (ma Clé non aveva neppure il coraggio di pensarlo) quasi schifoso.
“Hiro, mio caro, ma cosa t’hanno fatto quei bruti? Raccontami, spiegami. Ti picchiavano?”
“Solo da principio, in periodo istruttorio. Poi sono stati i patimenti, l’infinita loro durata...”
Hiro e Clé uscirono insieme per recarsi a un caffè vicino e stare un poco tranquillamente insieme.
“Sai,” riprese Hiro, appena si furono seduti a uno dei tavoli, “è stato terribile. Non so neppure io come sia riuscito a sopravvivere. La prigionia ad Abashiri, luogo famoso come il punto più siberiano dell’Hokkaido, è stata bestiale. Il gelo perenne, l’umido, poi la fame... Quante volte ho sperato di morire! Temo di avere la tubercolosi, oltre a tanti altri guai...”
“Ma dimmi com’è andata. Quando ti abbiamo salutato, quel giorno d’aprile, a Sàpporo, stavi benone, ed eri perfettamente libero.”
“Verissimo. È stato nell’autunno del ’41, quando già si sentiva la guerra vicina, vicinissima... Dei poliziotti sono venuti a cercarmi. Insomma per farla breve sono stato accusato di spionaggio a favore del nemico, capisci? Un’accusa del tutto inventata, folle. Che avevo mai fatto? Forse avevo frequentato un po’ troppo volentieri e apertamente voi, i Lane, il professor Hecker. Ma da lì a fare la spia ci sono distanze astronomiche! Montarono un processo che era tutta una farsa. Mi posero a confronto dei testimoni che io non avevo mai visto, né conosciuto. Testimoni? Ma erano vili buffoni pagati per l’occasione... Infine la sentenza, una condanna a dodici anni di detenzione.”
“Hiro, ma è spaventoso...” ripeteva Clé. “Potevi chiederci aiuto...”
“Eh sì, belle parole! Una volta che sei nelle mani di quegli sbirri, ti isolano completamente. Perdi ogni diritto, ogni contatto. Non hai più voce. Ti rompono, ti stroncano... Poi ho capito. Volevano dare un esempio agli studenti dell’università dell’Hokkaido. Volevano spaventarli, capisci? Persino la Société du Coeur venne citata come “centro di sovversione”, “movimento traditore”, figurati un po’! Per fortuna la guerra è finita. Un giorno ho trovato la prigione vuota, le porte aperte. Sono spariti. Avevano perso la faccia...”
“Esattamente com’è successo a noi!”
“A proposito, anche voi avete passato degli anni grami, vero?”
“Sì, ma a confronto con le tue sciagurate vicende, sono state cose da ridere... E ora sei tornato a Fujimi-chō, dai tuoi?”
“Sì. È una gran consolazione la libertà, la famiglia, i genitori, le sorelle... Ma purtroppo vedi come sono ridotto... A che serve ormai la libertà?”
“Non dire sciocchezze, Hiro!” esclamò Clé. “Hai una posizione privilegiata oggi. In realtà sei un eroe! Si tratta di farsi riconoscere come tale. Senti Hiro, ora, subito, non perdiamo tempo, andiamo al quartier generale, dove ho qualche conoscenza, e dove so che c’è un ufficio che si occupa precisamente dei casi come il tuo. Ce ne sono parecchi oggi in Giappone. Vedrai che ti spettano dei compensi, dei riconoscimenti. In fondo hai sofferto tanto per la causa, la causa degli alleati, no?”
“Eh sì, Clé, hai ragione... Ma vedi, ho sofferto troppo. Sono veramente distrutto. Non m’importa più nulla. Forse una casa di cura sarebbe meglio, ma i miei sono ridotti a terra...”
“Già,” insisteva Clé, “proprio lì sta il punto. Ti fai riconoscere lo stato di ex prigioniero politico, poi d’invalido. Le cure saranno una naturale conseguenza. Guarda che in queste cose gli americani fanno sul serio. Ho visto altri casi... ‘We won’t let down our genuine supporters,’ l’ho sentito dire tante volte.”
Clé tornò di corsa al proprio ufficio, parlò con il tenente di servizio, un uomo molto ragionevole e generoso. Questi non solo dette piena libertà a Clé d’accompagnare Hiro al quartier generale, ma telefonò di persona all’ufficio rifugiati politici, raccomandando al direttore una rapida soluzione del penoso caso. Poco dopo Hiro e Clé si recarono all’ufficio designato, dove trovarono immediata accoglienza.
“Sapevamo già del caso che riguarda il signor Miyazawa,” disse l’ufficiale incaricato di queste materie, mostrando a Hiro e a Clé una lista di nomi, “ma non eravamo riusciti a localizzarlo perché ne avevamo solo l’indirizzo di Sàpporo, ormai inutile. Ha fatto bene, signor Raymon, a condurlo lei qui da noi. Ora prenderemo nota di tutti i dati e vedrà che il signor Miyazawa riceverà al più presto il sussidio che gli spetta. Per le eventuali cure dovrà recarsi a...” e qui l’ufficiale scrisse su un foglio di carta l’indirizzo di un ospedale militare.
Terminata la notifica molto minuziosa dei dati riguardanti il caso Hiro su moduli speciali, Clé condusse l’amico all’Hotel Marunouchi, dove trovarono Malachite e le bambine. Altro patetico incontro con lacrime incontrollabili da ambo le parti. Hiro cercava di sorridere parlando, ma poi doveva asciugarsi la faccia con il fazzoletto.
“Mamma mia, come l’hanno ridotto quelle bestie!” continuava a ripetere Malachite, la sera, quando Clé finalmente tornò dall’ufficio. “E ciò che fa impressione non sono tanto i guai fisici, il colore della pelle, la mancanza di denti, ma il cambiamento di carattere. Ti ricordi l’Hiro d’una volta, in Hokkaido, com’era sempre gaio, ardito, addirittura spavaldo? Che pena adesso, vederlo così fiaccato, ridotto un cencio d’uomo...”
Clé, nei giorni seguenti, accompagnò Hiro all’ospedale indicato, dove però per ragioni burocratiche non fu possibile avere il ricovero. Questo venne invece ottenuto presso una clinica giapponese, per fortunata coincidenza situata non lontano dalla casa dei Miyazawa, a Fujimi-cho.
Clé e Malachite fecero visita diverse volte a Hiro nella sua nuova, e fortunatamente provvisoria, residenza. I ragazzi ricordavano le montagne in Hokkaido durante gli anni lontani, che parevano all’improvviso indicibilmente beati. Ma poi sopravveniva una tetra tristezza e si capiva che era meglio parlare d’altro. Hiro sembrò migliorare un poco, ma poi ebbe delle preoccupanti ricadute. Era soprattutto il morale a esser stato ridotto a terra: gli avevano fiaccato la voglia stessa di vivere. Quando i due amici dovettero separarsi per il ritorno dei Raimondi in Italia, Clé non sapeva davvero se il commosso saluto dovesse intendersi come un desiderato “arrivederci” o un temutissimo “addio”.
Poco dopo il ritorno a Firenze, Clé ricevette un telegramma dalla sorella di Hiro, che in poche scheletriche parole annunciava la morte del fratello.