1. L’oceano, stupendo o mostruoso?

Da qualche tempo, negli uffici dell’VIII Armata, circolava una voce. “Mi sa,” diceva il tenente Giuliano Bonino, di origine italiana, “che tra poco vi rimandano in Italia e tutto gratis, a nice trip at the expenses of Uncle Sam!” Clé non era troppo entusiasta all’idea. Si stava così bene in Giappone, ora che le varie polizie erano state dissolte, o del tutto domate! Il ritorno in Italia, adesso che la mamma non c’era più, aveva un sapore dolceamaro. Clé non riusciva a immaginarsi la solitudine con il padre, il dottor Raimondi, senza provare un senso di disagio. Era cosa triste, tristissima, ma un dato inamovibile della vita di cui occorreva tenere conto.

Che la mamma fosse morta Clé l’aveva saputo con oltre un anno di ritardo. Un giorno, nel dicembre del ’45, mentre lavorava in ufficio, gli avevano portato un telegramma della Croce Rossa di gelida impersonalità che diceva suppergiù: “We regret to announce that your mother passed away on...” (seguiva la data). Eppure Clé non ne fu per nulla sorpreso. Quel segnale telepatico era stato così vivo da non lasciare dubbi di sorta. La data combaciava perfettamente. L’invocazione disperata del suo nome, che aveva udito con tanta chiarezza, gli aveva detto tutto. La notizia d’un anno dopo serviva solo da conferma per la data, non per il fatto, ormai conosciuto, sofferto, e infine, con mestizia, accettato.

Malachite però era contrarissima all’idea di restare ancora in Giappone. Come la maggior parte delle donne, desiderava in qualche modo sistemarsi definitivamente, avere una vera casa. “Poi ci sono le bambine. Pensa alla loro identità futura. Se debbono essere italiane, è ora che comincino a inserirsi. Qui verrebbero su sfasate, spostate, no?”

Era certo difficile darle torto. Inoltre Malachite insisteva sui lati pratici del programma: “Quando mai ci capiterà di nuovo di ottenere cinque, dicansi cinque (perché tanti siamo), passaggi gratis da Yokohama fino a casa? Gli americani adesso riconoscono in pieno la nostra posizione di ‘alleati’, il fatto che abbiamo sofferto la prigionia e tutto il resto, ma potrebbero anche cambiare idea. Poi sembra che la nave sarà una sola per tutti gli europei rimasti isolati in Giappone durante questi anni, dopo sarà molto più difficile partire...”

Ben presto Clé ricevette una lettera dell’ambasciata svedese (che allora rappresentava l’Italia in Giappone) in cui si richiedeva l’adesione o meno al programma di rimpatrio via mare. Seguivano le condizioni, tutte favorevolissime, la data e altri particolari. Clé ormai aveva deciso: firmò senza quasi pensarci. Mancavano appena tre settimane alla partenza, e bisognava provvedere a un problema grosso davvero, quello dei bagagli.

Clé aveva accumulato in sette anni una piccola biblioteca di opere riguardanti il Giappone racchiusa in una quarantina di casse, inoltre c’erano ben dodici casse contenenti circa cinquecento oggetti ainu di alto valore etnografico, senza contare i bauli e bauletti, i kori (contenitori giapponesi di vimini) pieni, strapieni d’effetti d’uso dell’intera famiglia.

Durante la guerra e la prigionia Clé aveva avuto la fortuna, come s’è visto, di poter mettere in salvo i suoi averi in una cantina dell’Istituto Francese di Cultura di Kyoto, grazie all’intervento discreto del suo carissimo amico Jean Paul. Adesso bisognava superare un altro forte ostacolo, un viaggio per mare e per terra attraverso metà del mondo, se si voleva completare il salvataggio del tanto materiale raccolto. La buona fortuna avrebbe continuato ancora a largire la sua assistenza? La concatenazione di casi favorevoli fu in realtà quasi miracolosa. Cinquantaquattro casse di legno sono un bel carico, soprattutto se si ha la pretesa di farle viaggiare gratis...

Il vero colpo d’oro fu questo: che l’ambasciata italiana, quella per intendersi che era rimasta con il re (e Badoglio) ed era stata quindi internata, e che ora si apprestava a rientrare in Italia sul medesimo piroscafo, accettò gentilmente di farsi carico delle casse come materiale proprio. Dunque l’essenziale era assicurato.

Così arrivò il gran giorno della partenza. I passeggeri erano parecchie centinaia, molti gli italiani e i francesi, parecchi gli olandesi e i nordici. Lo stato d’animo generale era di grande allegria, o addirittura di spumeggiante felicità; Clé notò subito quanto fosse diverso dal clima cupo, quasi disperato, che gravava sulla massima parte dei passeggeri sette anni prima arrivando a Shanghai.

La nave stazzava circa diecimila tonnellate: un occhio esperto avrebbe notato che era vecchiotta, però era stata tutta riverniciata e ripulita per l’occasione, fatto che faceva un certo piacere, come il saluto benigno d’un oste sulla porta della sua trattoria. La banchina era affollata di gente venuta a Yokohama per salutare i partenti. Malachite e Clé prima di salire a bordo seguiti dalle bambine con le loro nuove bambole preferite in collo, avevano abbracciato affettuosamente i Bamba, gli Uriu, i Miyazawa e altri amici ancora, ai quali si sentivano ormai legati da tanti ricordi. Quasi tutti i compagni di prigionia erano già partiti con altri mezzi. Giorgio Bernari, presente anche lui, si capisce, a Yokohama, era ormai l’unico che aveva deciso di restare. Intraprendente com’era aveva già accumulato una piccola fortuna e possedeva più radici in Giappone che in Italia, dove gli rimanevano solo i genitori anziani – il padre, giudice di Cassazione a riposo e la madre d’origine e di fede valdese. Presto avrebbe sposato una giapponese, la figlia d’un noto critico d’arte, fatto che costituiva per lui un ulteriore fortissimo legame con le isole del Sol Levante.

Il viaggio in programma era lunghissimo: oltre venti giorni senza scali fino a Panama, traversando in diagonale l’oceano Pacifico verso sud, poi altri quindici fino a Le Havre in Francia, traversando in diagonale l’oceano Atlantico verso nord.

In realtà fu un viaggio di gran riposo; un’isola di gratissimo nulla, tra un passato d’affanni, di privazioni, di pericoli, e un futuro d’ignoto e di prevedibili problemi. Il cibo, da un punto di vista normale, si sarebbe potuto considerare, come dire, da brava caserma americana, ma tutti avevano sofferto tanta fame che sembrava un dono del paradiso saziarsi senza pensieri. La compagnia era gradevole. Malachite, Clé e le bambine sedevano a un tavolone insieme a una giovane coppia di diplomatici francesi anti-Vichy, con i loro tre figli; in totale dunque quattro adulti e sei fanciulli tra i cinque e i dodici anni si trovavano stretti assieme. E si può bene immaginare che continua fiera di paese fosse! I piccoli dei due sessi si erano per fortuna trovati bene tra di loro, anche perché parlavano tutti ancora il giapponese come prima lingua.

Dafni e le sorelline, benché fuori dalla prigionia ormai da un anno, continuavano a fare dei giochi “da piccole affamate”, con sassolini o pezzi di conchiglie (trovate chissà dove) che rappresentavano polli, pesci, mochi (dolci giapponesi di riso), frutta, verdure. Nei loro bagagli i genitori avevano inoltre scovato dei sacchetti e pacchetti di riso crudo, accuratamente nascosti. E guai a toccarli, le piccole strillavano come bestie ferite. “I tesori del riso” furono trascinati fino in Italia, dove finalmente le bimbe capirono l’inutilità di tanto fanatico attaccamento, e se ne poterono fare dei gustosi timballi (il riso giapponese non è adatto per i risotti).

La traversata del Pacifico senza scalo, passando al largo delle Hawaii e di tante altre isole, fu bellissima; per Clé un’esperienza indimenticabile. Costante era una sola, sublime impressione: quella dell’immensità oceanica.

Poco dopo aver percorso metà del tragitto ci furono tre-quattro giorni di mare scatenato, con vasti occhi di sole tra nubi sfilacciate e galoppanti di giorno, o frequenti affacciate di luna la notte. Clé se ne stava per delle ore intere in un certo suo posticino scovato a prua, donde si potevano apprezzare nel modo più felice spettacoli da togliere il respiro. Le onde, le cui creste distavano l’una dall’altra (almeno pareva) centinaia di metri, facevano impressione non perché minacciosamente ripide (forse il vero centro della bassa pressione era molto lontano), ma perché costituivano delle smisurate montagne d’acqua lungo i cui fianchi perfino una nave di considerevole mole saliva, saliva, sino a raggiungerne il culmine, per poi scendere. La superficie di tali onde gigantesche vibrava nervosamente d’increspature minori, di sferzate improvvise del vento, con ricci spumosi e piccoli vortici strani d’un azzurro forte e cupissimo. Clé aveva vissuto tempeste marine nel Mediterraneo (golfo del Leone!), in Atlantico, nei mari della Cina, ma in pieno Pacifico il fenomeno era completamente diverso. C’erano evidentemente qui gli spazi sconfinati e sufficienti perché i venti facessero montare lentamente le onde, sino a trasformarle in vere montagne vive d’acqua purpurea, striata di bianco spumoso. La notte non si apprezzavano i colori, ma i riflessi palpitanti dell’epidermide marina accentuavano in modo mirabile il senso dell’acqua come materia vivente. Quando poi Clé tornava in cabina, Malachite, sdraiata in cuccetta per non soffrire troppo il mare, gli dava del matto. “Bello? Ma è mostruoso quest’oceano, te lo dico io!”

A Le Havre Clé e i suoi si trovarono di fronte ai primi segni di un’Europa spossata e fatta a pezzi dalla guerra. Navi semiaffondate, lamiere contorte dalle bombe, arrugginite, con i boccaporti spalancati come occhiaie, occupavano gran parte del porto. Squadre d’operai stavano ricostruendo alcuni edifici, ma altri erano ancora scoperchiati, e le finestre brutalizzate incorniciavano rettangoli di cielo. Lo sbarco dalla nave e un finale riassestamento di tutti in un treno speciale richiese un’intera giornata.

Finalmente il convoglio lento e sovraffollato partì alla volta di Parigi. Nella capitale francese la vita si poteva dire già quasi normale. Clé ebbe anche il tempo di condurre Dafni a visitare Notre-Dame. Poi via per l’Italia. Dopo alcuni scorci d’una Svizzera pulita e indenne, traversate le Alpi per la galleria del San Gottardo, furono viste le prime tracce della guerra nel nostro Paese: case disastrate, ponti rovinati, interrotti, vagoni merci adattati alla meglio per il trasporto delle persone. L’antica scritta CAVALLI OTTO, UOMINI QUARANTA (che si leggeva allora su tutti i vagoni merci) aveva acquistato una sua precisa attualità.

Uno dei tratti peggiori di tutto il lunghissimo viaggio fu quello che da Viareggio, via Lucca, portava a Firenze. Da Pisa non si passava ancora, alcuni ponti pare fossero stati distrutti. L’antico treno ansimante, trainato da una macchina a vapore, si fermava per ore a ogni stazione. Per di più i Raimondi incapparono in un controllore uggioso e pedante che intendeva farli scendere a Lucca per i troppi bagagli. Effettivamente la famiglia portava con sé una montagna di colli d’ogni genere e dimensione (e meno male che le famose cinquantaquattro casse se n’erano andate per conto loro a Roma con i materiali vari della ex ambasciata italiana di Tokyo!). “Ma rientriamo dalla prigionia...” Clé tentava di spiegare. “Eh, quante storie! Tutti dicono così adesso...” rispondeva l’insopportabile controllore. Fortuna volle che sopraggiungesse un capotreno più comprensivo, il quale chiuse un occhio (o tutt’e due) e lasciò via libera alla famiglia, che aveva ormai l’aria affaticata e scarmigliata di un gruppo di autentici profughi. Anche a Firenze quanti disastri. Solo il Ponte Vecchio varcava l’Arno ancora intatto (e dal 1333!), gli altri erano stati minati, e fatti saltare, dai tedeschi. Il fiume si traversava per mezzo d’un pontone militare di metallo e di assi, che strepitavano con un fragore caratteristico a ogni contatto con le ruote dei rari veicoli.

Quando Clé poté affiancarsi al cancello che dava sul viale di Villa Raimondi restò per qualche attimo interdetto, senza parole. Due anziani giardinieri sconosciuti, con il grembiule blu del mestiere sul davanti, uno con il cappello in mano, erano venuti ad aprire e si stavano chinando in rispettosi saluti. Ma Clé li notò appena. Vide invece subito che i cipressi e i pini del viale, nonché tanti altri alberi che erano stati lasciati molti anni prima, giovani e poco vistosi, erano cresciuti smisuratamente.

Clé capì subito che stava penetrando in un’isola beata, che era riuscita a escludere in modo totale dal suo perimetro ogni segno delle brutture, degli orrori, dei disastri di fuori. Le guerre? Come non ci fossero mai state! Clé si trovò inaspettatamente sbalestrato, disarcionato. Era felice, infelice? Non riusciva a capire. Amodio? Oh, non era così semplice. Da un lato stava questo paradiso come dono che un pochino, almeno, lo riguardava; dall’altro il paradiso come onta, in un mondo disseminato d’inferni – e questo lo riguardava nel profondo.

Le bambine per la felicità danzavano, si buttavano in girotondi improvvisi, cantavano, si rincorrevano felici. La più piccola aveva subito scoperto che i fiori delle azalee, sparse qua e là nei vasi, avevano un punto zuccherino alla base, e se n’era divorati non si sa quanti, facendosi una boccona viola che le dava un aspetto orripilante. Malachite, anche lei, non aveva tempo per riflettere, rincorreva le ragazzine cercando di domarle. I giardinieri avevano aperto del tutto il cancellone e invitavano il tassista a venire avanti, a dirigersi verso lo spiazzo dinanzi alla villa per scaricare i bagagli.

Intanto il dottor Roberto Raimondi era uscito all’aperto, nonostante fosse l’ora canonica per la siesta (erano le quindici circa), e aveva preso in braccio Yuri, la seconda delle nipotine, baciandola affettuosamente. Clé pagò il tassista, dette una mancia (in dollari) ai giardinieri, poi fece quei cinque o sei passi che lo separavano dal padre. Capiva benissimo che era un momento critico, delicato, importante. I due uomini erano stati spiritualmente lontani dai tempi in cui Clé era giovinotto, da moltissimi anni insomma. Ora, dopo una lunga parentesi, era possibile allacciare nuovi legami più felici? Un nulla e tutto si sarebbe potuto guastare e inacidire come prima. O peggio di prima.

“Ma benvenuti!” esclamò il dottor Raimondi facendosi avanti sorridendo. Padre e figlio s’abbracciarono brevemente, pudicamente, quasi temessero un reale contatto fisico, il sentore inevitabile dei reciproci odori corporali. “Vedo che state benone, nonostante abbiate traversato mezzo mondo,” continuò. “Venite, venite dentro, fuori il sole scotta.”

Il dottor Raimondi non era cambiato molto durante tutto quel tempo; i capelli gli s’erano fatti completamente bianchi, ma leggermente bruciato dal sole com’era in volto, gli stavano benissimo. “Somiglia sempre più a Tito” pensò di sfuggita Clé (sì, Tito il figlio di Vespasiano, non Tito lo iugoslavo). Era piuttosto ingrassato, ma aveva l’aria di trovarsi in ottima salute. Intanto erano uscite dalla cucina la cuoca Ersilia, che era in casa da vent’anni, e la Gioconda, che invece era stata assunta da poco.

“Oh Clé, come stai?” esclamò l’Ersilia, venendo impetuosamente avanti e abbracciando il giovane con lo stesso amore con cui avrebbe abbracciato un figlio. “Ma che bellezza vedervi tutti sani! Noi siamo sempre qui, come una volta... Eh, la povera mamma, la signora Iris, lei sì che ci manca! Come sarebbe stata felice di riabbracciarvi tutti!” (Intanto l’Ersilia, emozionatissima come sempre in simili casi, si asciugava le lacrime con il grembiule bianco.) “Ma lo sapete che quando le portavamo da mangiare, diceva spesso: ‘No, Ersilia, no, non ne ho voglia... Sento che i miei laggiù hanno fame. Mi vergogno quasi a mangiare.’ Ma era vero? Avevate fame davvero? Oh, signora Malachite come sta bene! Le ha giovato l’aria del Giappone! E la signorina Dafni... Lo capisci l’italiano? Ancora no, eh, ma farai presto, con quegli occhi vispi!”

La piccola processione di gente si avviò passo passo verso la loggia all’ingresso della villa, dove le donne avevano preparato un semplice rinfresco a base di tè freddo alla menta, frutta e dolci. Gli adulti si misero a sedere, le bimbe correvano per lo spiazzo davanti a casa, quella che era stata una volta l’aia dei contadini. Clé tirò in segreto un grandissimo sospiro, gli pareva che il tanto temuto incontro si fosse avviato bene. L’Ersilia, con il suo felice istinto umano e materno, aveva accennato a mamma Iris. Perfetto! Ora non c’era bisogno di dire più nulla. Il punto più doloroso (più terribile) era superato.

“E di Gentile che n’è stato?” chiese incuriosita Malachite.

“È andato per qualche giorno al mare, sta organizzando un campeggio per i futuri turisti stranieri, insieme a degli amici.” Spiegò il dottor Raimondi. “Non è una grande meta per un giovane trentenne. Ma chissà, oggi tutto cambia, magari finirà per guadagnare meglio che a fare il diplomatico, come speravamo...”

La conversazione continuò per una mezz’oretta, si parlò del viaggio, con qualche accenno al Giappone, alla bomba atomica, alle vicende dell’internamento. Ma Clé s’accorse che queste cose interessavano poco il dottor Raimondi, ne parlava così, per cortesia. Molto più vivo si faceva il discorso quando si avvicinava alla famiglia.

La guerra aveva portato a una quasi totale moria dei vecchi. Il nonno Anacleto, la nonna Ginevra, e parecchi della loro generazione se n’erano andati.

Il villino di Roma era stato già venduto (questa sì che era una triste notizia!).

“Al suo posto stanno costruendo un condominio smisurato a otto piani. Zia Clarissa, anche lei, non c’è più... Ha lasciato la sua villa di Roma alla Svizzera, pensa un po’. Ne vogliono fare un istituto di cultura... Ma, tra te e me,” commentò il dottor Raimondi come risvegliandosi e sorridendo, “dov’è la cultura svizzera, eh?”

“E zio Miscia, e zia Doretta come stanno?” chiese incuriosito Clé. Dalla risposta fredda ed evasiva che ricevette dal padre, intuì che dovevano esserci stati, o forse ancora erano in corso, dei dissensi tra i fratelli nella divisione dei beni ereditari. Di simili cose non si sapeva mai nulla da queste parti. Meglio proprio non parlarne.