3. Una terrazza su Portofino

Riprendiamo le vicende fiorentine. Dopo la visita per tutti commovente alla Villa Morgen-Wallace in occasione del suo “funerale”, Clé e Malachite erano appena tornati a casa Raimondi, quando arrivò una telefonata, o almeno quella che allora si chiamava una “comunicazione intercomunale”. Questa volta veniva dal Nord, era nientemeno che Daisy di Monteriòlo.

“Clé, sei tu? Bentornati! Come state?”

“Sì, non c’è male... Siamo a Firenze, ma ci prepariamo ad andare in Sicilia. E tu come stai? E voi tutti come state?”

“Benissimo! Ma quante ne abbiamo passate! E voi più di noi, da quanto ho vagamente sentito. Ascolta Clé, perché non venite tutti e cinque a Portofino, e vi fermate nella nostra casetta a riposarvi per un po’? In estate non ci stiamo, sai? Ernesto preferisce la montagna, quindi la casa è libera...”

“Ma Daisy... Al solito, la tua splendida ospitalità milanese. Non pensi che siamo in troppi? Non sarà un’invasione? Siamo in cinque, due adulti e tre bambine. E forse viene anche Sandra, una nostra amica che sta un po’ dietro alle piccole.”

“Macché invasione! Mi ripagherete raccontandomi le vostre avventure. Voglio sapere tutto, dall’A alla Z e ritorno!”

“Oh, ma Daisy, sei sempre l’amorosa sorellina dei giorni di Monteriòlo, ricordi?”

“Certo che ricordo! ‘Bimbo prendimi il pallone che m’è caduto in mare!’ Che spocchiosa che ero, vero? Ora i bimbi sono la nuova generazione, io ne ho due, tu ne hai tre... Allora vi aspetto al più presto! Telefonatemi quando sarete di partenza. Passami Malachite, che voglio salutarla. Ciao, ciao, Clé, un fraterno abbraccio...”

Malachite e Daisy continuarono a lungo la conversazione. Intanto le bambine facevano rumorosi salti di gioia:

Ino, ino, ino

andiamo a Portofino!

a Portofino stare il mare

e noi narau nuotare!

Le bambine si esprimevano ancora in un creolo italo-giapponese (narau significa “imparare”).

Daisy, inserita ormai da anni in una vita senza pensieri, molto agiata, vedeva le cose alla semplice, alla spaziosa. Con la telefonata seguente avvisò Malachite: “Il nostro autista sarà lì per incontrarvi alla stazione di Santa Margherita Ligure.” Partiti da Firenze in mattinata, i Raimondi raggiunsero Santa Margherita nel pomeriggio.

Dinanzi alla stazione li aspettava un ometto di media statura, di media corpulenza, dall’espressione benevola, rivestito da un’uniforme da autista, ma di pacata appariscenza.

“Benvenuti signori!” esclamò l’ometto sorridendo. “Sono Vitale, l’autista della signora Daisy. Avete bagagli?”

Malachite, sempre sensibilissima a queste cose, aveva speso oltre cinquecento dei suoi sudati dollari per acquistare valigie e sporte nuove e solide, prima di partire.

“Sfigurare con Daisy e con i suoi? Mai e poi mai!”

I bagagli furono dunque caricati, e gli ospiti si accomodarono in una Lancia di grossa cilindrata, forse vecchiotta, probabilmente la seconda (o terza o quarta) macchina di famiglia, passata al reparto “villeggiature”.

“Il mare, il mare!” gridavano intanto le bambine, mentre l’automobile affrontava a velocità tranquillissima, con andatura del tutto baronale, le numerose curve lungo la strada tra Santa Margherita e Portofino.

Arrivando a Portofino, “la casetta” di Daisy si rivelò una villa di tutto rispetto posta in alto sopra il paese, con una vista spettacolare sul promontorio, sul Castelletto, sulla baia, sul paese, e in lontananza sul ceruleo mare.

“Ma sembra d’essere in Giappone!” esclamò Malachite. “Guarda quelle rocce del capo con i pini abbarbicati in pose drammatiche! Esattamente come a Matsushima, o nella penisola di Kii, ricordi Clé?”

Infatti la punta di Portofino è uno dei pochi luoghi, di tutte le migliaia di chilometri delle coste d’Italia, che può evocare davvero le scogliere giapponesi.

La villa di Daisy (in realtà di suo marito, Ernesto) era esattamente come Clé se la sarebbe potuta immaginare. Per nulla eccentrica, sfarzosa, e neppure “artistica”, o come si dice in inglese “a period piece”, un cimelio storico di stili sorpassati, o floreale, o castellano medievale, o barocchetto da riviera. Si presentava come un edificio moderno, di ottimo e pacatissimo gusto, ma tirato su senza alcun risparmio. I colori erano gai, luminosi: bianco crema per i muri, verdolino primefoglie alle persiane, un sobrio ma franco rosso per le tegole del tetto. E tutto un lato dell’edificio si apriva a terrazzo verso il mare, con una presenza esuberante di buganvillee, in viola chiarissimo di fiori e verde vigoroso di foglie.

Daisy arrivò più tardi, quasi all’ora di cena, da Milano. L’autista Vitale era andato a prenderla a Genova.

Con il suo fare entusiasta d’una volta, assolutamente immutato dagli anni, la giovane e bellissima signora abbracciò forte, a tuffo, il “fratello” Clé, poi Malachite, e infine le piccole – che si sollevavano sulle punte dei piedi per arrivarle al collo. Poco dopo i tre adulti erano saliti sulla terrazza, e stavano cercando di riallacciare i fili d’una ventennale amicizia.

Naturalmente emersero per primi i racconti della fame di Nagoya, dei bombardamenti americani esplosivi e incendiari, del kamikaze che si lancia contro un bombardiere B29 facendolo esplodere in cielo, “proprio sopra le nostre teste”... Ma anche Daisy aveva la sua parte da raccontare: le sue origini ebraiche le avevano imposto fughe precipitose, nascondigli, mutamenti di nomi, di identità...

“Ora, se Dio vuole, tutto è passato,” continuava a ripetere Daisy. “Io dopodomani debbo raggiungere i miei a Bormio, ma voi restate qui quanto volete. Riposatevi, mangiate, prendete il sole, fate l’uso che volete anche della barca. Vitale vi dirà dove si trova. Poi tu sei sportivo in tutto, vero Clé? E non dimenticatevi, domani sera ho organizzato un piccolo cocktail per voi, così avrete subito degli amici e non vi sentirete soli...”

Terminata la cena dopo un’altra lunga e gradevolissima conversazione, tutti si prepararono per la notte. Clé s’era rinfrescato sotto una doccia, mentre Malachite e le bimbe prendevano un comodo bagno. Clé aveva indossato uno yukata, il leggero kimono estivo di cotone a disegni azzurri, e stava recandosi in terrazzo a recuperare una rivista dove aveva notato un articolo interessante, che aveva letto solo a metà.

In quel momento la porta della camera di Daisy, che dava sul corridoio, si aprì, e la giovane padrona di casa si affacciò. Sembrava agitata.

“Oh, Clé, stavo proprio cercando te, ti prego... C’è uno scorpione in camera! Mi fa tanta impressione. Forse tu riesci a eliminarlo! Sai, d’estate ogni tanto se ne vedono. È grosso, è nero. Mi fa paura!”

Clé entrò, vide l’animaletto sul muro, si tolse un sandalo e lo schiacciò facilmente, gettando i resti neri, afferrati con un pezzo di carta, nel giardino.

Il giovane stava per andarsene, quando si trovò improvvisamente dinanzi Daisy in qualche sorta di lieve, vaporoso abbigliamento notturno. Clé non sarebbe stato in grado di descriverlo: era una mitologica apparizione di sete candide, sotto le quali s’indovinava un corpo splendido, sciolto dalle consuete costrizioni del giorno, libero e nudo. Per un attimo Clé, respirando i profumi inebrianti di Daisy, si sentì girare la testa. “Buonanotte, Daisy,” disse sottovoce, e non poté fare a meno di aggiungere: “Dio, quanto sei bella!” Mai come in quel momento l’ago della segreta bilancia che segnava il clima dei rapporti tra i due, tra fraterna amicizia e chissà cosa d’altro, fu più vicino a un punto di gravissima crisi.

“Clé, la nostra amicizia fraterna è qualcosa di troppo prezioso, non ti pare?” sussurrò Daisy. Clé si sentì improvvisamente risvegliato. Ma certo! E pensò all’ospitalità inevitabilmente tradita. E vide Malachite di là, a due passi, con le bimbe. Si avviò allora svelto verso la porta. Daisy lo seguì.

Dall’uscio socchiuso la donna sollevò due dita alla bocca, le baciò, e fece il gesto di soffiare il gentile incorporeo messaggio verso “il fratello”. Dopo di che la porta si richiuse con un sonoro e fermissimo clock! Uno scorpione, vero, era stato ucciso, l’altro, zodiacale, fermamente disciplinato.

La mattina dopo, verso le dieci, Daisy, Malachite, Clé e le bimbe erano già comodamente nella barca di casa, il Sarago, uno scafotto da pescatori, tinto di rosso e di blu, privo di qualsiasi pretesa, ma saldissimo e azionato da un fuoribordo Evinrude, che Clé imparò subito a far funzionare. Capitano, se così si può dire, del natante era un ragazzotto muscoloso e simpatico di nome Mirko, dai capelli ricci, sbionditi dal sole e dal salmastro quasi al punto da somigliare alla canapa.

Girando la punta di Portofino, Malachite e Clé notarono di nuovo: “Come pare di trovarsi lungo una qualsiasi costa giapponese!”

“I pini giocano a fare degli stupendi e giganteschi bonsai,” concluse ridendo Clé e spiegò a Daisy cos’è un bonsai, allora oggetto del tutto sconosciuto in Italia.

Doppiato il piccolo ma impertinente capo di rocce nerastre sulle quali, un po’ più indietro, torreggia il Castelletto, la barca si diresse sicura verso nord, costeggiando delle rocce alte e selvagge sulle quali allignavano dei pini più robusti, ma forse meno pittoreschi di quelli del capo.

“Ecco San Fruttuoso!” esclamò Daisy, mentre la barca, doppiato un altro piccolo capo, si dirigeva verso il fondo di una baia boscosa e ben protetta dai venti di tramontana.

* * *

La sera, verso le sette e mezzo, la terrazza della villa cominciò a riempirsi degli ospiti che Daisy aveva invitato per il cocktail. Gli uomini apparvero in giacche leggere estive, alcuni senza cravatta, altri con fazzoletti di seta al collo, uno o due, più giovani, muscolosi e sportivi, in polo variamente colorate. Le donne, per lo più bellissime, bruciate dal sole con arte consumata, con i capelli dal biondo fiammante al nero più fusto, con monili che andavano dal vero gioiello più o meno vistoso, alla trovata marinaresca, malacologica, oppure francamente etnografica, formavano un popolo ondeggiante, sorridente, salutante, baciante, e musicalmente ciarliero. Vista da sotto e da una certa distanza, la terrazza poteva dare l’idea d’un gran paniere colmo di volatili tropicali multicolori e in effervescente agitazione.

Daisy, in un turbine di cordialità espansiva con la sua voce alta e musicale, con la sua fascinosa presenza, sempre inequivocabile, ma equilibratissima tra stramberia personale (che indubbiamente c’era) e conformismo sociale (che indubbiamente sapeva con finezza coltivare), andava presentando Malachite e Clé a una ventina di suoi amici e conoscenti, persone che trascorrevano il periodo estivo, breve o lungo a seconda dei casi, a Portofino. I presenti erano in buona parte milanesi, ma non mancavano nomi torinesi, veneti, toscani. Di siciliani pare vi fosse soltanto Malachite, ma Daisy aveva già abilmente seminato notizie su nascita, vita e miracoli dell’amica, in modo da renderla la più festeggiata della sera.

La terrazza s’affacciava su Portofino, di cui si vedevano i tetti a embrici rossi, la piazzetta, la baia, ottanta o cento metri più in basso: a prima vista si sarebbe detto un paesino incantevolmente primitivo, ma qualsiasi analisi un poco più attenta avrebbe concluso che fosse solidamente miliardario. Il sole era tramontato da poco, lasciando nel cielo una festa sontuosa di rosa e di rossi, con qualche sospiro d’estro, che andava incupendosi rapidamente sul mare, augusto e lontano. In basso nel paese, e tra le ville del capo, brillavano le prime luci elettriche ingioiellando il paesaggio di punti dorati, tra le sagome ormai violacee dei pini e i riflessi nervosi nelle acque della baia.

Dopo una prima fase della festa, nella quale tutti o quasi stavano in piedi a gruppetti di due, tre o più persone, tenendo in mano una coppetta di bevande bionde, rosse o trasparenti, servite da uomini in uniformi d’indefinibile natura – probabilmente quelle d’una ditta specializzata in servizi per feste, matrimoni e così via – le coppie e i gruppetti ormai variamente assortiti, andarono sedendosi ai cinque o sei tavoli di metallo laccato in bianco, disposti in vari punti del terrazzo.

Clé si trovò, insieme a Malachite, con due signore e un uomo di mezza età dall’aria simpatica di “amici dell’aria aperta”. Come spesso succede, i nomi erano sfuggiti, volati via tra i fiori delle buganvillee, ma la conversazione procedeva lo stesso animata. Naturalmente si parlava del Giappone.

“Sarai felice d’essere tornata in Italia, dopo tante avventure!” stava dicendo a Malachite la signora che le sedeva di fronte. “Che cos’è che ti colpisce di più?”

“Be’, il fatto che l’Italia sia molto meno devastata del Giappone. Per ora abbiamo visto soltanto Milano, Lucca, Firenze... ma non c’è paragone! Sarà che da noi si è sempre costruito in pietra, mattone, marmo, cemento, mentre in Giappone le città erano di legno, carta e stucco. Quindi i cicloni di fuoco del marzo 1945 non hanno lasciato nulla in piedi. La cosa che mi ha colpita di più a Tokyo era il fatto che in quelle pianure di cocci, di tegole rotte, di vetri fusi, le uniche cose sopravvissute erano le casseforti dei negozi, degli uffici, delle ditte... Sfido io, erano di metallo, d’acciaio!

“Vedevi allora una pianura con tanti mobili metafisici, quasi concepiti da De Chirico, disseminati qua e là... Mobili color caffè, perché ormai arrugginiti dal sole e dalle piogge. Ah, non avessi giurato di buttar via per sempre i pennelli, che soggetto per una serie di quadri!”

“Potresti rievocarli adesso nei ricordi, no?”

“Niente, ormai ho giurato, basta per sempre...”

“Dunque tornare è stato piacevole?”

“Certo...” e qui Clé ascoltò Malachite che parlava di un’esperienza che la riguardava in modo particolare come donna, e di cui aveva spesso inteso, o intuito, dei cenni nelle confidenze della compagna.

“Vi confesserò,” riprese Malachite, “che tornare in Italia, in Occidente, è stata una sorta di rinascita...”

“In che senso?”

“Be’, è un po’ difficile a spiegarsi... Ma in Asia orientale una signora occidentale è esattamente, e solamente, una “signora occidentale”. Nulla più! Dimenticati pure d’essere donna. Mai nessuno che t’apra una porta, che ti ceda il passo, che ti faccia un sorriso che superi le mere formalità, mai uno sguardo di desiderio, mai un fosse pur minimo sottinteso galante, mai una di quelle espressioni anche osée che gli spagnoli chiamano piropo... Sei un personaggio neutro in una commedia di cartone!”

“Dunque tornare è un salto?”

“Un salto? Ma è un volo! Come donna, come femmina è una resurrezione!”

E qui Malachite pose affettuosamente una mano su quella più vicina del marito: “Scusami sai Clé, ma tanto sono cose che sappiamo benissimo. Per te, per voi maschi, l’Asia orientale è un paradiso, siete ovunque principi, re, le donne vi cascano ai piedi come se si passeggiasse tra le pagine del Kamasutra, per noi è quasi esattamente l’opposto... Tornare in Europa ristabilisce almeno un poco l’equilibrio!”

Qualcuno toccò Clé sopra una spalla con un dito. Clé si voltò alzandosi. Era Daisy.

“Volevo farti conoscere l’amico Eugenio,” disse la padrona di casa, “fa l’editore, chissà che non possiate scoprire degli interessi comuni.”

Clé lasciò il tavolo dove si era seduto con Malachite e i tre signori, e restò in piedi a parlare con l’uomo a cui era stato presentato da Daisy. Si trattava di un personaggio abbastanza giovane, quasi calvo, ex biondo, con una faccia scavata interessante, da apostolo nelle mani d’uno scultore gotico del legno.

“Sono stato anch’io in Giappone,” diceva il nuovo interlocutore, “molti anni fa e solo per una settimana. Pochissimo, vero? La cosa che trovavo interessante, curiosa, era la situazione religiosa. È corretto dire che uno nasce scintoista, vive da confuciano, e poi muore da buddista? Da noi parrebbe una sorta di paradosso inaccettabile...”

“Eppure sì, è spesso vero, ma non sempre. Ci sono molti inseriti in un binario religioso solo, dalla nascita alla morte... Come ci sono moltissimi “a-religiosi”, agnostici nel più completo senso della parola. In quanto al Confucianesimo non è, o lo è solo eccezionalmente, una religione. Per due secoli e più fu l’ideologia di Stato, oggi sopravvive come filosofia spicciola, come radice inespressa dell’etica che governa la società...”

“Allora i giapponesi sono fortunati. Possono dire di regolarsi secondo un’etica in fondo laica. Cosa qui da molti sognata, ma quasi irrealizzabile.”

“Esattamente! Ritengo sia una loro grande, grandissima forza. Da noi, quando si perdono le radici cristiane, cattoliche, generalmente si casca nel vuoto. Nessuno ti sostiene. Ti vedi confinato nella comoda discarica degli atei, e lì puoi tranquillamente marcire e morire. Invece i giapponesi (e gli altri popoli ex confuciani) possono benissimo perdere le loro radici religiose, senza smarrire la bussola dell’etica. La quale non fu mai, o lo fu solo in tempi remotissimi, legata alle rivelazioni, ai comandamenti propriamente religiosi... Non per nulla il Giappone ha un tasso di criminalità bassissimo, del tutto invidiabile da parte dei popoli occidentali.”

“Eh, sono cose davvero affascinanti! Purtroppo siamo poco informati... Senta un po’, non le è mai passato per la mente di scrivere un testo sulle sue esperienze giapponesi? Chissà, potrebbe venire fuori qualcosa d’interessante!”

“Sì, per la verità ci ho pensato. E ci penso. Ma ritengo che mi ci vorrà una nuova visita prolungata laggiù per mettere meglio a fuoco la marea delle impressioni, per approfondire la materia...”

L’apostolo gotico tirò fuori un biglietto da visita.

“Se ci ripensa, mi chiami. Non se ne dimentichi!”

* * *

Esaurito l’argomento, come succede nei cocktail, ci fu uno spostamento di personaggi. I cocktailisti abituali sono abilissimi in queste manovre delicate e talvolta importanti; sanno esattamente quando una nave è divenuta una zattera da abbandonare, o quando passa vicino un galeone da abbordare con maggiori piacere e profitto. Clé, da caparbio isolato, da solitario recidivo, trovava il “salto cocktailico” molto penoso e sgradito. Come passare da un centro di facce, menti, discorsi, immagini, fantasie, ricordi, bevande, salatini e altro, a uno nuovo, senza aver l’aria di tradire? Di ergersi elegantemente a duro, a calcolatore gelido di vicinanze, convenienze, simpatie?

La serata con Daisy e i suoi amici seguiva intanto il suo amabilissimo corso. Tra l’altro, un’oretta dopo il tramonto sontuoso consumatosi lì dinanzi, sull’orizzonte di gran respiro del mar ligure, andava facendo capolino una luna appena calante, affacciandosi d’oltre i pini del bosco dietro la villa, sulle prime pendici del monte di Portofino. Le ombre si diradarono e tutto il paesaggio parve rivestirsi d’un velo d’argento.

Clé notò due fanciulle dall’aria straniera appoggiate lì vicino alla balaustrata del terrazzo che gli sorridevano in modo invitante. Erano (come risultò poi subito) Karin e Gerda, due giovani baltiche rifugiatesi con le famiglie in Italia per eventi di guerra. Parlavano ormai l’italiano benissimo.

“Abitiamo per l’estate in una casetta rustica più su, sul monte di Portofino,” raccontava Karin, la più anziana e la più bionda delle due (“forse trent’anni” pensò Clé). “È una specie di capanna, sa, non una villa come questa di Daisy! Ma ci stiamo bene e volentieri... Venga a trovarci. Ci racconterà delle sue avventure, vuole?”

Intanto Gerda, più giovane dell’amica (sui venticinque anni), più slava all’aspetto, castana di capelli, ben piantata, con gli occhi scuri e curiosi, rideva nervosamente.

“Senta Clé,” fece come liberandosi d’un peso, “io ho sentito spesso che le giapponesi sono donne fascinose... Ci può dire (risatina) come fanno l’amore le giapponesi? È vero che sono delle maestre dei più raffinati segreti dell’erotismo orientale?”

“Ah, ah,” rispose Clé ridendo, “se devo dire il vero, la situazione è del tutto diversa, quasi opposta. Non per nulla c’è un detto che circola in Asia orientale, e che dice: ‘Volete condurre una vita ideale? Allora occorrono: un conto in una banca svizzera, un cuoco cinese, un maggiordomo inglese, un’auto tedesca, un’amante francese e una moglie giapponese.’ Come mogli, le giapponesi sono perfette, ma come amanti... Tipico il particolare che nelle case chiuse giapponesi, la lucciola prescelta si toglie il kimono, si sdraia nuda sul coltrone futon che fa da letto, apre (scusate!) le gambe, e annuncia con vocina accattivante: ‘Hai!’, cioè ‘sono pronta’, ‘prendimi’, ‘infilami’!”

“Allora sono tutte favole quelle che circolano?”

“Ho paura in gran parte di sì. D’altro lato bisogna ricordare la straordinaria capacità d’affetto, la dedizione della donna giapponese come compagna. Potenzialmente, magari, la stoffa ci può essere. Una giapponesina che è stata ammaestrata da un occidentale pub fare scintille, ma normalmente tali qualità restano latenti...”

“Ci dobbiamo contentare allora del patetico ‘hai’, sono pronta?”

“In genere sì... Preamboli fantasiosi? Niente. Ricami a risveglio dei sensi? Nulla. Giochini sofisticati? Tutto da inventare. D’altra parte appaiono paesaggi squisiti d’affetto, dedizione assolute... Vi pare poco?”

“E ci tolga ancora una curiosità,” continuò Gerda. “Ecco,” disse ridendo, “le giapponesi da nude sono belle?”

“Mi dispiace deludervi ancora una volta,” riprese Clé sorridendo, “ma devo dire che, viste con occhi occidentali, molto raramente sono belle. Possono certo essere piacenti, ma siamo su un altro piano, no?”

“Forse è una questione razziale?”

“In parte può essere... Ma essenzialmente ritengo sia una questione culturale. Più s’indaga sui popoli lontani e diversi da noi, più si è portati a concludere che le divergenze dipendono in gran parte dalla cultura, dal pensiero, dalle idee, dagli atteggiamenti di fondo, dai famosi ‘valori’, dal modo di vedere e considerare la vita nei suoi innumerevoli aspetti...”

Clé sorbì un sorso della bevanda verdolina dalla sua coppetta e continuò: “In Occidente, da almeno duemilacinquecento anni gli artisti propongono agli occhi della gente visioni ideali dei corpi nudi femminile e maschile. Per la versione femminile, vedere Inanna, Astarte, Afrodite, le Grazie, le varie famiglie di ninfe, il tema delle Sabine rapite dai romani, le concubine di principi e di re, su su fino alle opere di Botticelli, Michelangelo, Paolo Veronese, Signorelli, la scuola di Fontainebleau, gli impressionisti e gli orientalisti dell’Ottocento... Questo bombardamento iconografico millenario porta a una sorta di selezione naturale estetica. Poiché il corpo è, almeno parzialmente, modificabile, le donne cercano di adeguarsi ai modelli proposti dagli artisti più famosi, più in voga.”

“Dunque, la vita e la natura imitano l’arte e non viceversa?”

“Vi fu mai un serio dubbio in proposito? Certo bisogna considerare le cose nei tempi lunghi, lunghissimi... L’estetica occidentale del nudo è cambiata più volte nei secoli, basti ricordare i nudi medievali, gotici, con le loro braccine e gambine patetiche, e con un pancino, viceversa, di quasi impertinente eminenza... Ma dal Rinascimento in poi si è tornati agli ideali classici. Ed è secondo questa selezione che emergono poi nella vita le belle. Gran parte delle altre si coprono, stanno zitte e defilate, spariscono.”

“E in Oriente?”

“Escludendo l’India che ha duemila e più anni d’opulenti ideali artistici del nudo femminile e maschile, in Asia orientale (Cina, Corea, Giappone) l’ideale del nudo femminile non si pone neppure: non esiste. I personaggi sono sempre vestiti, l’artista si definisce per l’abilità con la quale tratta elegantemente, fluidamente, i drappeggi delle vesti. In qualche caso si ha il nudo maschile, per esempio in certe immagini di ‘protettori dei templi’, i Nioo (i Benevolenti Re), ma la muscolatura poderosa è di fantasia, non frutto d’osservazione! Perfino l’arte erotica brancola nel buio. I rotoli porno dei cinesi ti propongono dei nudarelli da piangere, con faccine carucce, ma arti filiformi, poppine che paiono prugne acerbe... I giapponesi, più pragmatici e terreni, si limitano volentieri ai primi piani in cui campeggiano sessacci mostruosi, porzioni di coppie quasi sempre vestite, ‘inkimonate’ a dovere.”

“Insomma, capisco, i popoli dell’Asia lontana non hanno modelli iconografici del nudo. È così?”

“Esattamente. E non avendo modelli di nudo nell’arte, non hanno mai curato il nudo nella vita. Le giapponesi nude non sono veramente nude, sono delle ‘spogliate’! In particolare il seno è generalmente scarso, immaturo, o se consistente, sbadato. Le cosce possono essere esuberanti, ma le gambe sono quasi sempre mal modellate, o come si dice in giapponese, ‘simili a daikon’, simili cioè a rape colonnari giganti. Le giapponesi non crescono con Botticelli in testa come le nostre ragazze, e quindi non tentano neppure d’adeguarsi ai personaggi del maestro, o di tanti altri maestri di cui si propongono ad ammirazione di tutti le opere nei musei, nelle gallerie, nelle collezioni private, magari nelle chiese (cappella Sistina!) nei libri illustrati. Niente Botticelli nelle retine, niente bei nudi nella vita! O soltanto qualche esempio casuale di tanto in tanto.”

“Insomma lei vede la cultura dappertutto?”

“Eh già... Mi chiedete cosa ho imparato stando lontano tanti anni, no? E io vi do le risposte che ritengo più vere. Dirò addirittura, non scandalizzatevi, che le donne recitano culturalmente, senza saperlo né pensarci, i loro orgasmi. Le occidentali prendono a modello la Santa Teresa del Bernini, e vivono l’orgasmo come un’estasi laica. Le giapponesi si conformano, senza porvi attenzione, alle immagini di Aizen-Miyoo (il Luminoso Re d’Amore Intriso), una divinità del tardo Buddismo tantrico, che simbolizza la sublimazione delle passioni a fini spirituali...”

“Ah, ah,” rise Gerda, un po’ rossa in faccia, “ma questi suoi studi d’orgasmi comparati devono essere stati, oltre che proficui momenti di ricerche antropologiche, anche interessantissimi, divertentissimi...”

“Effettivamente! Ma bisogna sempre cercare nella vita spunti significativi per il pensiero. Altrimenti quale esistenza piatta e insipida sarebbe?”

Ormai gli ultimi ospiti stavano lasciando il terrazzo tra baci e saluti. La luna era salita alta, tranquilla, beata in cielo, quasi cancellando le stelle. Un profumo di gelsomini in fiore si spandeva voluttuosamente nell’aria, portato da leggere piume di brezza marina. Gli ultimi rumori di veicoli, qualche voce, un canto punteggiavano, dal paese laggiù, il silenzio della villa. Ci furono gli abbracci finali, i ringraziamenti per Daisy. Poi comparve il buon Vitale, con la moglie Paolina, per fare un po’ di pulizia tra i tavoli.

“Domattina partirò presto,” osservò Daisy salutando Malachite e Clé. “Ma voi dormite fin quando volete. Vi dico addio, anzi arrivederci, adesso. Baciatemi le piccole. Ciao carissimi!”

Nell’andirivieni tra terrazzo e stanze, Clé incontrò ancora una volta casualmente Daisy.

“Ciao, Daisy bella!” le disse a bassa voce. “Ora abbiamo un altro sloganino nostro segreto, no? Oltre al celebre: ‘Bimbo, prendimi la palla’, c’è anche: ‘Bimbo, schiacciami lo scorpione!’”

“Ciao, amato Clé,” disse Daisy dando un bacione a schiocco sulla guancia del “fratello”, “quanta preziosa saggezza, vero? Ciao, ciao...”

* * *

La mattina dopo Clé, svegliandosi, si sentì preda d’una stanchezza addirittura perniciosa, mortale; riusciva appena a tirare su le braccia nel letto per incrociarle dietro la testa.

“Non so cosa sia,” diceva a Malachite. “Già ieri sera, il cocktail era come uno strano, bellissimo sogno. Vedevo tutti, partecipavo, ma non eravate veramente viventi, tangibili, reali. Era come una giostra illusoria fuori del tempo e dello spazio...”

“Ma vedrai che non è niente,” gli ripeteva con voce rassicurante Malachite. “Ti passerà prestissimo. Ho preso nomi e indirizzi di buona parte degli amici di Daisy. Devi approfittarne! È un’occasione unica! Per esempio quell’editore... Ti ha dato il suo biglietto da visita, vero? Dove ce l’hai? Dammelo, che lo metto da parte. Tu che dici sempre di voler scrivere. Eccoti la pista di lancio. Non ti abbattere, ci mancherebbe altro!”

“Sì, lo so,” rispondeva Clé, “lo so che hai ragione. E credo anche che non sia nulla di grave... Però è come se, d’un tratto, mi si presentassero all’incasso tutte le cambiali emotive firmate da quel lontanissimo 8 settembre del ’43, ricordi? Ohé, signor Anacleto, ci sono da pagare i debiti psicologici di almeno tre anni di vita. Non possiamo più attendere! Da Karuizawa con i poliziotti in treno, poi Kyoto assediati dai poliziotti, e Nagoya, la fame, il freddo, le bombe, i terremoti, Kasuya, il Chiesino... Al Kōsai-ji vi fu un po’ di respiro... Ma poi ancora affanni, il viaggio di ritorno, Tokyo senza Hiro, Firenze senza la mamma... Insomma è come se si fosse conclusa qui, ora, una traversata terribile d’oceani, deserti, steppe, tundre, foreste. Tutto mi sta crollando addosso di colpo, capisci?”

Clé vedeva lucidamente la totale ragionevolezza di quanto gli andava obiettando Malachite, ma non riusciva a superare il punto morto. Per esempio non fece alcun passo per contattare di nuovo l’editore torinese dimostratosi tanto disponibile e bene intenzionato, che certamente avrebbe potuto costituire un punto d’approdo fuori del comune, se non subito, nel futuro.

Tre settimane, quasi un mese, trascorsero per Clé in una sorta di ottusa vita animale: Malachite aveva passato un periodo simile, ma le era accaduto prima. Forse durante il lungo e sofferto viaggio in piroscafo da Yokohama a Le Havre? Adesso stava nettamente meglio di Clé, e lui la sentiva come un valido appoggio nei momenti, non rari, di autentico sconforto.

In superficie tutto andava benissimo. Mattina ore nove gustoso “rompi-digiuno” con frutta, yogurt, pane tostato, burro, miele, marmellate, poi caffellatte, briosce... Dopo di che comoda discesa al mare. La barcona, il Sarago, sembrava troppo impegnativa: c’era però anche un barchino a remi, e su quello Clé, le bambine, e l’amica senese, Sandra, che era venuta a dare una mano a Malachite, vagavano lungo le scogliere della punta, fermandosi dal lato esterno, dove si presentava qualche approdo, piuttosto avventuroso, per il bagno. Malachite, chiara com’era, non poteva esporsi troppo al sole, e tutto sommato, pur stando benissimo, preferiva, in pieno agosto e pieno solleone, restare nel fresco della villa. Clé e i suoi per mezzogiorno si portavano dei panini e della frutta. Con il pomeriggio tutti tornavano a casa. Seguivano doccia, pennichellona e cena prima di lasciarsi cadere a dormire.

Le più sveglie e vispe erano le bambine. Dafni ormai stava sbocciando in un’incantevole Lolita. Yuri era sempre la sognante fatina che raccontava alle sue bambole storie di principesse e di cigni, o di draghi. Kiku prendeva allegramente in giro tutti e tutto, appena riusciva a infilare la sua linguetta puntuta tra un evento e l’altro della vita.