4. In barca lungo le Cinque Terre
D’un tratto, a fine agosto, la situazione cambiò radicalmente. Perché? Un fatterello imprevisto e semplicissimo: l’incontro con Vincenzo, un amico periferico dell’antico gruppo di tinegisti fiorentini, non più visto da decenni.
I due si notarono per caso nella piazzetta di Portofino, si salutarono e si misero a sedere a un tavolino d’uno dei caffè del luogo.
“Ciao Vincenzo! Ma cosa fai a Portofino? Sono anni che non ci vediamo...”
“Eh, caro Clé, sì sono davvero anni! Mi hanno detto che sei stato in Oriente. Ma insomma ora sei qui e stai bene. Anche a me, nel male, è andata bene. Sono stato prigioniero dei tedeschi, ma per fortuna quando non mordevano più con tanta ferocia. E così adesso sono qui per un paio di giorni. Ho un certo problemino, posso parlartene?”
“Certo Vincenzo, sono tutt’orecchi!”
“Vedi, l’anno scorso le cose mi andavano lisce, liscissime, e allora, al principio dell’estate, mi comprai una barchetta a vela, una cosetta da nulla, una semplicissima deriva da cinque metri e mezzo, per di più usata. Ora le cose sono un po’ cambiate, e così vorrei venderla... Chissà se la barchetta potrebbe interessare a qualche tuo conoscente?”
“Capisco, sono cose che succedono. Cercherò, chiederò, Vincenzo. Ma, tanto per avere qualche altro dato, quanto chiedi?”
“Ti dirò, caro, una vera piccolezza... sessantamila lire... Del resto per un oggetto due volte di seconda mano non potrei esigere di più.” (Va detto che eravamo nel 1946, e la somma non era poi così ridicola come appare oggi!)
I due continuarono un poco a parlare di ricordi, amici, eventi di guerra, poi Vincenzo si diresse verso il suo albergo (di cui dette il nome all’amico), e Clé prese la ripida salita che portava alla villa.
Fatto strano, la salita, che nei giorni passati gli era parsa tanto faticosa, una pettata da togliere il respiro, quel giorno gli risultava molto più facile e leggera. Come mai? A Clé parve d’intuire la causa... Ma sì, che idea, che follia! Si trattava di pensieri che, all’improvviso, gli stavano restituendo l’entusiasmo, la gioia di vivere, l’allegria d’una volta! E in che cosa consisteva questa misteriosa, straordinaria medicina? “Semplicissimo” si ripeteva Clé, “compriamo la barchetta di Vincenzo... Che sono sessantamila lire? Ne ho almeno dieci volte tanto in dollari! Poi navighiamola, che so io, fino a Livorno. Da lì con un cargo qualsiasi spediamola a Palermo, così quando arriviamo in Sicilia saremo, sì, sprovvisti di casa, ma saremo anche barcatenenti! Pensa che gioia! Che delizia poter veleggiare intorno a capo Zafferano, e magari intorno a monte Pellegrino e a capo Gallo, nei dintorni di Palermo! Uh sì, Vincenzo carissimo, altro che cercarti un amico cliente, sarò io il tuo cliente...”
Da principio, giustamente, Malachite fu del tutto contraria a questo “piano fuodde”... Poi, visto forse il ritorno degli entusiasmi d’una volta, del colorito vitale sulle gote del marito che era vissuto per settimane come spento e cinereo, disse di sì. Lei e le bambine sarebbero rientrate a Firenze con Sandra; Clé avrebbe spedito la barca da Livorno, raggiungendo poi la famiglia a Firenze.
Allora Clé si precipitò come un ossesso giù all’albergo, dove Vincenzo gli aveva detto che alloggiava. “No, ci dispiace, ma il signore che lei cerca è fuori.” “Mamma mia” pensava Clé, “perdere quest’occasione sarebbe terribile, insopportabile!” Il suo precario stato psicologico, come se l’era analizzato pochi giorni prima, parlando con Malachite, lo portava a estremi di entusiasmo e di depressione, alternati per un nonnulla.
E quando Vincenzo rientrò, le notizie per Clé non erano allegre.
“Mi pare d’averlo trovato l’acquirente, sai!” esclamò tutto contento l’amico. “C’è un ragazzotto di Rapallo a cui la barca interessa moltissimo... Domattina viene a vederla.”
“Oh, ma Vincenzo, sai che ci ho pensato su anch’io... Come te la prenderei volentieri!”
Vincenzo all’inizio parve addirittura contrariato, forse temeva di farci una brutta figura. Dopo molte insistenze disse che ci avrebbe riflettuto, che avrebbe telefonato a Rapallo. “Puoi dire al tuo ragazzotto che hai trovato un compratore, il che è vero, che ti offre settantamila lire, come infatti te ne offro io. Sempre sperando che non s’inneschi tra noi una sorta di gara d’asta! Che, del resto, andrebbe a tutto tuo vantaggio, no?”
Clé passò la notte in agitazione. “Ah, se mi fossi deciso subito! Tanto lo sapevo che Malachite mi avrebbe capito, e avrebbe detto di sì...” Per fortuna la mattina dopo le cose si erano aggiustate. Dunque la barca era sua. Clé pareva impazzito dalla felicità!
Nel pomeriggio, Vincenzo e Clé si trovarono al punto stabilito delle banchine portuali di Portofino.
“Ecco,” disse Vincenzo, “questa è l’imbarcazione. Come vedi un cinque e cinquanta scoperto, con deriva e due vele. Adesso proviamo a farci un giretto insieme, così ci prendi la mano.”
Clé notò sulla poppa un nome, intagliato sopra una tavoletta di legno lavorato applicata allo scafo: Scopamare. Gli piacque!
Clé non era un assoluto novellino alla vela. Ai tempi dei tempi, la signora Sjöberg possedeva un barchino consimile, ma più piccolo, un dinghy a una sola vela, e Clé aveva veleggiato tante volte insieme a Gisella su e giù nelle acque di fronte a Forte dei Marmi. Dunque gli elementi di base li aveva già nelle braccia, negli occhi, nella mente. Sapeva virare e orzare. Certo lo Scopamare aveva due vele, randa e fiocco, quindi virare diveniva un poco più complicato, specie da solo; ma Clé ci si trovò subito a proprio agio. Nulla s’impara più presto e meglio di ciò che appassiona... Appena fuori dalla punta, il mare si presentò leggermente mosso, con delle onde abbastanza grandi, ma non erte, che venivano di lontano ed erano ormai stanche, quindi facili. Soffiava un leggerissimo maestrale. Clé teneva il timone e la scotta della randa nelle mani. Che sensazione stupenda! La barca vibrava, era una cosa viva, come un cavallo.
“Eh, ma Clé,” esclamò Vincenzo, “altro che principiante, mi sa che sei un veterano che la sa lunga!”
Clé si sentì molto orgoglioso delle parole dell’amico, e gli raccontò delle sue esperienze di vela di tanti anni prima, in Versilia.
Nel frattempo Vincenzo mostrava a Clé varie forniture della barca: l’ancorotto, i remi, una scatola di arnesi (pinze, tenaglie, seghetto, lime da legno e da metallo...).
Dopo un paio d’ore Clé riaccompagnò Vincenzo a terra, gli diede la somma di denaro, salutandolo con sincera effusione.
Clé notò in piazza Sandra con le tre bambine. Il sole era già basso, ma c’erano di sicuro ancora un due ore di luce.
“Venite, picciridde!” gridò Clé raggiante. “Facciamo un giretto con la ‘nostra’ barca!”
Le bambine saltarono con gioia rumorosa sull’imbarcazione, seguite da Sandra, una personcina piuttosto chiusa e tranquilla, castana di capelli, ordinatissima, la quale però doveva aver capito qualcosa, perché disse con enfasi: “Ma Clé, sembri rinato! Che sia il fatto che sei diventato di colpo armatore e capitano?”
Dafni e le sorelline volevano toccare tutto, farsi spiegare ogni particolare, ogni parte e attrezzo dello Scopamare. Anche per loro le parole “nostro”, “nostra”, avevano un senso magico, totemico, d’altissimo voltaggio. Poverine, avevano ragione. Da quando erano nate si può dire che gli aggettivi possessivi le avevano soltanto sfiorate.
“Papà,” ripeteva Dafni, “è proprio nostra? Che bello! E la mandiamo in Sicilia vero? Ci porterai a capo Zafferano? Uh, papà che bellezza, sembra un sogno!”
E un sogno pareva anche a Clé, che condusse Sandra e le bambine fino al largo di Santa Margherita, per tornare poi verso Portofino, con le luci fastose d’un tramonto drammatico e barocco, laggiù verso Genova.
* * *
Seguirono due giorni di preparativi febbrili.
La barca era fatta per gentili veleggiatine intorno al porto, quindi era del tutto priva, non diciamo d’una cabina, ma d’un qualsiasi riparo. Lo scafo era in ottimo stato, tutto in legno si capisce, verniciato di bianco sopra la linea di galleggiamento, di verde sotto. Il timone, incernierato a poppa, veniva azionato direttamente per mezzo d’una barra lunga poco meno d’un metro. Al centro sorgeva l’albero alto circa otto metri, tenuto ben fermo dalle sartie; all’albero era collegato, con un cavo ad anello, il boma della randa, la vela principale, tenuta ben tesa da cinque o sei stecche nelle loro tasche di tela. Al centro stava inoltre la deriva, una grossa e pesante chiglia di bronzo che, con l’aiuto d’un cavo resistente, si poteva tirare su quando ci si avvicinava a riva e si rischiava di toccare degli scogli o dei fondali troppo bassi.
Clé, preso dall’euforia più estrema – l’alta cresta successiva alle valli della depressione – pregustava già il piacere di dormire nella barca, di sentirsi libero come una rondine, perciò s’era comprato un materassino di gomma gonfiabile, nonché una grossa coperta, oltre ad alcune sporte impermeabili per i cibi, per gli arnesi, per i vestiti.
Oggi un’impresa del genere sarebbe facilitata da tanti attrezzi e aggeggi appositamente escogitati, ma allora si viveva ancora in un mondo nel quale bisognava ingegnarsi, e spesso far buon muso a cattivo, o cattivissimo gioco. D’altra parte una simile impresa, soprattutto così improvvisata, sarebbe oggi impossibile. Allora non esistevano patenti d’alcun genere per piccole imbarcazioni e non si conoscevano limitazioni o restrizioni, oggi da tutti accettate.
La sera prima della partenza, Clé stava trafficando nel suo nuovo galeone, cercando di personalizzarlo al massimo, di trasformarlo da cosa in casa, quando si sentì chiamare dalla banchina a cui s’era ormeggiato. To’, erano Karin e Gerda, in abitini svolazzanti e leggeri di cotone coloratissimi, con dei panierini al braccio, chiaramente in giro di compere.
“Salve, Clé, buona sera!” esclamò Gerda sorridendo e accucciandosi sulla banchina. “Abbiamo sentito del tuo nuovo acquisto. È questa la barca, vero? Graziosa! E ha anche l’aria solida! È vero che la vuoi portare fino a Livorno da solo? Che matto! Non leggeremo sui giornali ‘naufrago sperduto al largo delle Cinque Terre’?”
“Ma è bello vivere da matti qualche volta, no? Sono stato saggio per tanti anni... Ora è tempo di follie. Viva le follie!”
Le ragazze scapparono ridendo, e tornarono dopo un quarto d’ora con una scatolona di cioccolatini.
“Ti terranno compagnia nelle solitudini! E guarda come siamo state previdenti. La scatola è di metallo, assolutamente impermeabile!”
Finalmente spuntò il giorno folle e beato.
Clé lasciò la villa alle cinque del mattino, dopo lunghi abbracci a Malachite e alle bimbe, e dopo un saluto a Sandra, nella cui stretta di mano avvertì una calda (e inaspettata) partecipazione all’impresa.
La prima tappa, Portofino-Sestri Levante, fu un gioco, una danza, una festa! Puntando dritto dall’uscita della baia di Portofino al capo di Sestri, Clé si trovò subito abbastanza al largo di Santa Margherita e Rapallo. Poi apparve Chiavari sulla sinistra, un seminio bianco di case e di ville.
Oggi il tratto di mare tra punta di Portofino e Sestri Levante è una specie di autostrada delle onde; vi passano continuamente, in su e in giù, gommoni d’ogni misura e potenza di motore, cabinati con o senza vele, panfili di lusso, barche a motore, piccole vele da diporto, e infine natanti d’ogni genere. Ma allora, quasi incredibile a dirsi, Clé nel suo barchino era il solo oggetto visibile a giro d’orizzonte. Il mare aveva delle onde abbastanza grosse, ma stanche e tranquille, sopravvissute a chissà quale tempesta infuriata chissà dove. Un debole ma simpatico maestrale soffiava dalla direzione giusta, Clé lasciava che la barca veleggiasse così feliciona, con la randa e il fiocco al lasco. Piano piano prese forma alle spalle un tramonto di gran prestigio, degno del pennello di Turner, tuttavia Clé non poteva goderselo perché avveniva proprio alle sue spalle. Ai primi bui Clé entrò nella baia di Sestri, e poco dopo gettò l’ancora a poppa, assicurandosi a prua a un palo, tra tanti vicini a riva.
Clé scese a terra per rifornirsi d’acqua, venti litri in una tanica non ancora di plastica, ma di metallo grigioverde, per fare qualche compera, pane, frutta eccetera e, dato che c’era, cenò in una trattoria che dava sulla baia. L’indomani era prevedibile fosse uno dei giorni più impegnativi, perciò Clé tornò al suo materassino, un po’ umido e freddo, e si avvolse nella grossa coperta che non erano ancora le nove, addormentandosi subito.
L’indomani mattina, ai primi lucori dell’alba, Clé con il suo Scopamare era già salpato da Sestri. Sopra il paese si leva una notevole altura, il monte Castello, e che si spinge fuori in mare con l’arcigna punta Manara.
All’inizio le cose andarono benissimo. L’acqua era calma, appena rabbrividita da sospiri d’aria provenienti da terra. Il mare rifletteva le luci dell’alba, poi del sole nascente. Gli odori di salmastro erano forti e gradevoli. Un paio di barche a motore di pescatori locali sorpassarono lo Scopamare e sparirono chissà dove.
Arrivato alle alte rupi della punta Manara, che piombava sulle onde con una serie severa, quasi ripugnante, di precipizi, Clé si trovò in un altro mondo. Il vento cambiò di colpo: dal benevolo maestralino si passò a un franco libeccio, non furioso, ma alquanto teso. Le onde si fecero grosse e, quello che più importava, ripide. Le creste erano coronate da gallinelle candide di spuma. Lo Scopamare cominciò a ballare con gusto perverso; ogni tre o quattro onde ce n’era una più grossa o più cattiva che si rompeva contro la prua, producendo una fontana di spruzzi... Clé, naturalmente nudo, si lasciava inondare, anche se qualche schiaffata più vigorosa d’acqua marina gli metteva addosso dei brividi di freddo.
A ogni modo il gioco era bello, entusiasmante! Erano anni che non si sentiva così libero, a tu per tu con la natura in una delle sue facce più nobili e splendide: il mare. A questo particolare livello, esso offriva veramente un parallelo degnissimo con l’alta montagna. Clé teneva nella destra la barra del timone, che esercitava una forza cocciuta, ma irregolare, e che andava continuamente controllata al salire e allo scendere tra le onde. Con la sinistra regolava invece la scotta della randa o, se possibile, la fermava con due rapidi giri all’apposito gancio sul bordo della barca.
Purtroppo non era possibile puntare con la prua direttamente a sud, o a sud-est, come sarebbe stato ideale per dirigersi verso La Spezia e poi Livorno. Occorreva stringere il vento al massimo di bolina (che non era poi molto, con una velatura così semplice), portandosi quindi arditamente al largo, fino a un limite compatibile con una certa elementare prudenza, infine virare e riavvicinarsi a riva.
Clé aveva con sé soltanto una cartina della Liguria in scala 250.000 del Touring: a occhio e croce calcolò che a ogni bordata avanzava (al massimo) un paio di chilometri rispetto alla costa. Va bene che aveva diciotto o venti ore dinanzi a sé, ma quanti zigo-zaghi sarebbero stati necessari se voleva, come sperava, arrivare fino a Levanto, o per lo meno a Bonassola?
La nuova situazione, per il momento, era sotto controllo; però Clé spiava costantemente il mare, le onde, le loro creste, per vedere se le gallinelle spumeggianti aumentavano o no. Con il libeccio non c’è molto da scherzare. L’impresa era ardita e rischiosa, ma Clé si sentiva di nuovo in piena forma, e pervaso da una felicità indicibile! Oltre la punta Manara non si vedevano più imbarcazioni di sorta. Soltanto nel rientro dalle bordate, avvicinandosi a riva, scorgeva file d’ombrelloni, e folle di bagnanti sulle spiagge.
Sapeva benissimo che il mare vissuto così intimamente, quasi come a nuoto, non è spettacolo monotono, come avviene per chi lo percorre in piroscafo, o in navi di notevoli dimensioni. Al contrario è spettacolo meraviglioso, che cambia di mezz’ora in mezz’ora, a seconda dei capricci del vento, a seconda dell’altezza del sole sull’orizzonte, e anche secondo le nubi che ci sono, o meno, in cielo. E Clé si beava delle continue mutevoli vedute.
In mattinata Clé superò capo Baffa, e si avviò verso Mone-glia, situata in un’ampia rientranza della costa. Ma il vento, soffiando da sud-ovest, non dava alcun riposo; anzi spingeva le onde diritte fino a riva, e in tutte le sue baie e baiette. Avvicinandosi alla costa Clé udiva il fragore delle onde che si rompevano sulle spiagge, o che s’infrangevano sugli scogli. Qualche bagnante gli faceva grandi segni di saluto con le braccia alzate. “Ciao matto,” forse pensavano, “dove pensi mai d’andare?”
Clé, con le mani continuamente impegnate nella battaglia contro vento e onde, poté soltanto mangiare un panino con del formaggio. “Non importa,” si ripeteva, “ci rifaremo stasera.”
Con il tardo pomeriggio lo Scopamare aveva raggiunto l’altezza di Deiva Marina. “Forza Clé,” si diceva il solitario navigatore, “ormai ce l’abbiamo fatta.” “Non ancora, non cantar vittoria troppo presto!” mormorava un invisibile demonietto. Infatti, che fosse un giro di venti sotto costa, o altro, le onde si complicarono come succede talvolta. A quelle regolarmente ordinate in battaglioni provenienti da libeccio, si aggiunsero delle altre di traverso. Invece di valli regolari d’acqua tra un cavallone e l’altro, si producevano ogni tanto dei veri buchi d’acqua, delle doline di mare. Se capitava alla barca di caderci dentro, rischiava di restare con la prua sommersa e di imbarcare liquido più del necessario. Clé aveva certo la sua brava votazza di legno, ma come trovare il modo d’usarla? Doveva mollare il timone, lasciar le vele in lasco e abbandonare il barchino in balia degli elementi. Così dovette fare due o tre volte, per liberare lo scafo dall’acqua precipitatavi dentro.
Verso il tramonto il vento perse molto del suo vigore, le onde si riordinarono e divennero più fiacche, perdendo ogni traccia di spuma sulle creste. Clé entrò a Levanto che il sole stava sparendo oltre l’orizzonte, un immenso disco rosso lontano sul mare paonazzo.
Assicurata alla meglio la barchetta, scese a terra per fare qualche rifornimento, e per mangiare. Dall’alba era riuscito a metter sotto i denti soltanto quel panino, nel suo combattimento estremo con il vento, con le onde, con le vele, con il timone, con gli spruzzi, senza un possibile momento di sosta. Ah, era bello, era entusiasmante, ma alla fine lasciava stremati di forze!
Forse non erano ancora le otto, quando si stese sul suo materassino, avvolgendosi nella coperta, pronto a prendere sonno.
Poco dopo gli parve di udire delle voci femminili che lo chiamavano. Chi era? Cosa volevano?
“Hallo Clé, ci sei? Siamo Karin e Gerda!”
“Ma no!” esclamò Clé sorpresissimo. “Che ci fate da queste parti?”
“Eh, ti abbiamo seguito per tutto il pomeriggio da terra. La tua minuscola vela triangolare era l’unica in mare. Sbatteva di qua e di là, danzava come una pazza. Là fuori doveva essere una vera e propria battaglia, no? Ma con la sera si avvicinerà a riva, verrà a terra, ci dicevamo! Infatti...”
“Ma, scusate, come mai siete da queste parti?”
“Eh, Clé... Abbiamo sentito della tua partenza da Portofino. La favola ci ha entusiasmate. ‘Andiamo a salutarlo!’ ci siamo dette. Era facile trovarti, sei l’unica vela in questo mare da pazzi, da sciagurati forse!”
Clé, commosso, in fondo felice per questa invasione nella sua solitudine, ringraziò ripetutamente le ragazze, s’infilò dei calzoncini, si alzò e finì per scendere di nuovo a terra, e per mangiare ancora un supplemento di cena in una trattoria che dava sulla spiaggia. La compagnia parve tanto allegra e indovinata che Karin e Gerda chiesero a Clé se le prendeva come passeggere con sé, almeno per un giorno, l’indomani...
“Guardate però che il traghetto parte alle quattro in punto! Domani è una giornatona di massimo impegno. Vorrei arrivare a Portovenere. Ci vorranno diciotto o venti ore di fatica e di rischi, con il ventaccio che tira...”
“Va bene, benissimo, Clé! Dormiamo qui a Levanto, dove abbiamo già trovato una camera. Domattina alle tre e mezzo siamo da te. Promessa! E ci porteremo anche da mangiare. Vuoi qualcosa di particolare?”
“Frutta, se volete, ce n’è sempre troppo poca!”
La mattina dopo, erano appena le tre e mezzo, non s’indovinava ancora alcun segno d’aurora, ma Clé si sentì svegliare dalle voci delle due fanciulle.
“Vedi, siamo puntuali! Facciamo le cose sul serio. Buongiorno, signor Clé!”
Mezz’ora dopo la barchetta, tre volte più carica del giorno prima, lasciò l’ancoraggio e si spinse a remi verso il largo. Non c’era ancora un alito di vento; delle vecchie onde stanchissime andavano a morire con fracasso sulla spiaggia. Fu solo dopo un’altra mezz’ora che le acque parvero qua e là rabbrividire con delicatissimi fremiti d’un verde profondo. Allora Clé tirò su le vele, e la barca, come un animale, parve svegliarsi.
“Ohé, fanciulle, annunciò il capitano, lo sapete che sullo Scopamare è di legge il nudo assoluto? Natura assoluta, nudo assoluto, non c’è scampo!”
“Oh, per noi va benissimo!” rispose Karin. “Siamo baltiche, abituate fin da bambine al nudismo... Però, un patto Clé: nudismo sì, ma niente sesso! Siamo, in questo, nel mar Baltico, non nel Mediterraneo! Ce lo prometti, Clé?”
“Perché no? Certo, ve lo prometto.”
“Allora intesi!”
Le prime due ore fece addirittura freddo, tutti restarono coperti. Poi il sole rinforzò, le onde cominciarono a farsi più balde e più ripide, gli spruzzi e le sventagliate marine si resero aggressivi e frequenti. Clé avverti subito che la barca era più carica del giorno prima, ma in qualche modo era anche più stabile.
Karin fu la prima a gettare il costume, un maglione nero d’un sol pezzo, all’antica, seguita ben presto da Gerda che invece indossava un comune bikini. Per fortuna le due balticone, lo si vedeva subito da come si muovevano, erano delle vere autentiche naturiste e nudiste, non delle semplici spogliate. Le italiane, in simili circostanze, sarebbero probabilmente impacciate da residui di moralismo corrente, o al contrario mosse da suggestioni sensuali e sessuali. Le nordiche hanno un atteggiamento del tutto diverso: diretto, franco, solare.
Patti o non patti, sesso o non sesso, Clé si sentì quasi costretto a dare un colpo d’occhio alle sue gentili e curiose compagne di viaggio. Karin, anche se più anziana dell’amica, era senza dubbio la più bella nel senso tradizionale della parola: capigliatura bionda e sciolta, volto intelligente, un collo scolpito, spalle larghe e braccia da sportiva, petto florido anche se caduto, ventre piatto, bacino stretto, e soprattutto gambe lunghe, superbamente modellate. Inoltre andava notata quella patina color bronzo, curatissima, senza la minima traccia biancastra di costumi.
“Come hai fatto, Karin, a spennellarti di sole in modo così completo e perfetto?”
“E che ci vuole? Andiamo ogni tanto alla Cala dell’Oro. Lì si può fare il bagno nature...”
Le due inaspettate passeggere erano per fortuna ottime marinare. E Clé si fece raccontare ricordi di navigazioni nei loro mari verdastri e freddi.
“Ah, il Mediterraneo,” gridava Gerda, “questo sì che è mare!”
Clé però spiava sempre, e francamente con apprensione, le onde in arrivo. Erano ripide come quelle del giorno prima, ma le creste si arricciavano con merletti bianchi decisamente più minacciosi. Clé continuava con pazienza i suoi bordeggi a zigzag, limitando però le uscite verso il largo fino a distanze non troppo pericolose dalla costa. Naturalmente il mare era deserto; si notavano soltanto dei piroscafi lontanissimi, sagome nere nel controluce solare, che andavano verso La Spezia, o ne venivano. Ma erano apparizioni lontane. Le onde, che arrivavano a battaglioni serrati, erano bellissime in quello scorcio di mattinata! Il sole le illuminava di sguincio, i fianchi avevano tutte le preziosità dei colori che andavano dal verdeturchese al blu pavone con brividi di superficie come una pelle che trasale; e quando le creste si rompevano in scrosci di spruzzi contro la prua, ecco improvvise fontane di luce, di perline iridate, di gioielli scintillanti.
“Che gioia prendersi addosso il mare! Ti sposo Mediterraneo!” gridava Karin a prua esponendo il petto, il ventre, il pube, con gli occhi chiusi e sorridendo, ai getti d’acqua che ogni tanto la barca produceva rompendo un’onda. Poi tornava tutta bagnata a sdraiarsi al sole sulla piccola tolda coperta, disponibile a prua.
“O matte, non avete paura?” gridava dì tanto in tanto Clé.
“No, per nulla,” rispondeva Gerda. “Sappiamo che ci sei tu, abbiamo fiducia nella tua mano, nei tuoi occhi. Si vede subito che ci sai fare!”
“Eppure, se un’onda dovesse rovesciarci, sarebbe possibile salvarsi solo nuotando fino a riva. Ve la sentireste allora?”
“Ah, ah, Clé, ma l’onda che deve rovesciarci non è ancora nata! Lo vedo come hai la mano sicura... Senza contare che la tua nuova barchina è formidabile, sicurissima!”
“Dicci cosa possiamo fare per aiutarti!” aveva suggerito Karin. E Clé le aveva passato la votazza per liberare lo scafo dall’acqua, in parte filtrata tra fasciame e madieri, in parte raccoltasi con gli spruzzi delle onde infrante dalla prua.
Gerda si dava invece da fare per provvedere a tutti un’ottima colazione. Stava preparando una sorta di pentola, riempiendola d’un misto gustoso di pane casereccio spezzettato, di pomodori tagliati, di olio, aceto, sale, dei frammenti d’un formaggio magro, più olive snocciolate, capperi, origano e altro ancora.
“Oggi finalmente,” esclamò Clé, osservando Gerda al lavoro, “non dovrò più fare la fame come ieri!” Allo sguardo interrogativo della ragazza, Clé rispose spiegando le disavventure del giorno prima, quando non aveva mai avuto le mani abbastanza libere per farsi da mangiare.
“Vedi, abbiamo carpito il segreto messaggio per telepatia, e siamo venute in tuo aiuto!”
“Indubbiamente siete inviate dalla Provvidenza, su questo non c’è dubbio...”
Poco dopo mezzogiorno il pentolone fu pronto e Gerda distribuì tre cucchiai per il pasto. Karin tirò fuori una bottiglia di vino bianco e tre coppette. Che fame! Com’era gustoso quel semplicissimo intruglio freddo! Peccato che finì in pochi minuti... Meno male che c’era ancora parecchia frutta. E infine c’erano i famosi cioccolatini della sera prima.
Il vento era leggermente calato, ma le onde si presentavano sempre grosse e cattive, anche se meno ripide e spumose in cresta. Karin aveva trovato la carta del Touring Club e andava nominando paesi e paesini della costa e delle alture che la sovrastavano. La veduta era superba. In alto, in cielo, si ammirava un prodigioso fastigio di nuvoloni candidi a cavolfiore, con strane strisce viola per corona. Le parti più basse e più scure s’adagiavano sui monti intorno al passo del Bracco, sui sette-ottocento metri di quota. Più in basso ancora colli e colline digradavano graziosamente verso il mare. Indimenticabile un santuario di monte Nero posto al culmine d’una montagna non molto alta, ma regolarissima e terrazzata a vigne curate con arte da definirsi più del giardiniere che del contadino.
“Sono le famose Cinque Terre,” diceva Gerda, “ci siamo state una volta in bicicletta. Sono incantevoli! Si percorrono certe stradine agresti, tra vigne, casolari, qualche villa, qualche chiesa, sempre in vista del mare aperto. Non avrei mai pensato di rivisitare le Cinque Terre anche dal mare. Siamo state veramente fortunate! Grazie Clé, per la tua ospitalità in barca!”
Il mare, sempre così mutevole, con il pomeriggio stava leggermente calmandosi. Le onde erano sempre alte e possenti, ma un pochino meno ripide e rabbiose, meno segnate dai brividi di schiuma causati dalle raffiche di vento. La luce del pomeriggio rendeva le acque in qualche modo più azzurre, quasi d’un intenso cobalto.
A un certo momento Gerda, dopo una lunga e misteriosa consultazione con Karin, si rivolse a Clé con una faccia strana, come se avesse un problema proprio difficile.
“Ascolta, Clé,” fece la ragazza arrossendo, “ho un bisogno che non posso assolutamente più rimandare... Che mi suggerisci?”
“Ma è una cosa da nulla!” esclamò ridendo Clé. “Ora ti lego, poi ti cali un momento in mare, ti liberi del tuo fardello, e dopo ti ritiriamo su come una stupenda sirena pescata tra le onde. Ah, ah, bisogna ingegnarsi quando si fanno i navigatori solitari in barchette aperte, sprovviste di tutto... Sono cose normalissime, perfettamente in programma!”
Clé legò Gerda alla vita con un solido nodo da guide alpine, e la balda giovinotta si tuffò fragorosamente in mare. Le mollò il cavo in modo che non si trovasse troppo vicina allo scafo, attese il cenno di “tutto fatto... pronta per il rientro!” che giunse dopo pochi minuti; poi Gerda fu issata a bordo da Karin e Clé uniti nello sforzo.
Gerda aveva cinque o sei anni meno dell’amica, ma era molto meno avvenente tanto di viso che di corpo. Mentalmente Clé la classificava come “una soda ragazzotta slava”. Aveva infatti dei capelli castani lisci che portava a caschetto, dei seni alla Venere di Milo, un culotto più utile per sedersi che per competizioni di callipigìa, e delle gambe diciamo un po’ vaghe, quasi provvisorie, meno elegantemente scolpite di quelle che sfoggiava Karin, con evidente compiacimento. D’altra parte Gerda manifestava in atteggiamenti, espressioni del viso e mosse, una simpatica semplicità, un’innocenza quasi infantile. Ora che il mare si stava ammansendo era possibile conversare con lei, scambiarci quattro chiacchiere.
“Che fate, tu e Karin, nella vita normale?” chiese Clé con una certa curiosità.
“Be’, siamo tutte e due ceramiste,” spiegò la fanciulla. “L’anno scorso, appena finita la guerra, abbiamo seguito una scuola speciale in Danimarca. Ora lavoriamo presso un noto maestro a Deruta...”
“Ottima idea,” commentò Clé. “Molto meglio un lavoro manuale, con grandi possibilità di sviluppi artistici, che le solite pergamene letterarie o storiche, che rischiano di lasciare tutti a mani vuote...”
“Il Giappone è un grandissimo Paese per le ceramiche, vero?” osservò Karin. “Ne sentiamo sempre parlare. Ho anche visto dei pezzi stupendi! Come si chiama quel famoso maestro?”
“Forse volete dire Shoji Hamada... Ma ce ne sono tanti!”
“Sì, ecco è lui. E l’hai conosciuto?”
“Una volta, a una mostra. Ma ci siamo scambiati appena una stretta di mano, o meglio un inchino.”
“Come invidio la tua esperienza giapponese!” esclamò Gerda. “Ciò che dicevi l’altro giorno sugli orgasmi era affascinante. Ma, confessati un po’, hai davvero osservato così spassionatamente, da antropologo, le tue giapponesi, in quegli attimi supremi?”
“Be’ Gerda, capisci che ho avuto la buona ventura di trascorrere gli anni laggiù da uomo felicemente sposato...”
“Già, incantevole la tua Malachite, una donna fuori del comune, si vede subito!”
“Però un paio d’esperienze mi sono capitate...”
“Eh già, in fondo non ti dai arie, però sei piuttosto fascinoso. Capisco le tue prede! E loro negli attimi fatali impersonavano... Come si chiamava quella divinità buddista di cui hai parlato?”
“Aizen-Miyoo... (Il Luminoso Re d’Amore Intriso). Anche il nome ha un voltaggio altissimo. Be’ non è una favola... Almeno le mie due esperienze mi dicono che intuivo giusto. Quando arrivavano all’orgasmo si scatenavano davvero, e nelle loro facce scalmanate era possibile intravedere il famoso nume tantrico!”
“E le occidentali?”
“Uh, quante ne vuoi sapere, cara Gerda! Se giriamo troppo vicini al cosmico buco nero, finiremo per esserci trascinati dentro! E se ti chiedessi di mostrarmi le tue sguerguenze negli attimi fatali?”
“Ah, ah, forse sarei beata... Ma c’è il sacro patto mattutino tra di noi, non dimentichiamolo! Quindi ritiro la domanda.”
Piano piano le ombre andavano allungandosi. L’ultima parte delle Cinque Terre, oltrepassato Riomaggiore, era molto meno spettacolare della prima. Si vedevano dei dirupi biancastri scoscesi e impervi che precipitavano fino alle acque marine. La costa doveva comporsi di lunghe spiagge formate di ciottoloni. Del resto, anche avvicinandosi a terra non si vedeva più anima viva.
Dopo il tramonto nel cielo pressoché sereno, in quella meravigliosa ora di luce in cui qualche striscia di vermiglione si dissolve nel cilestro che precede la notte, lo Scopamare puntò allo stretto tra l’isola Palmaria e la terraferma, entrando nel porticciolo di Portovenere. Erano passate quasi venti ore dalla partenza da Levanto.
Karin e Gerda, rivestite e con una maglia perché faceva fresco, si apprestarono a lasciare “il traghetto”.
“Grazie, Clé... Che meravigliosa giornata ci hai regalato! Ora andiamo a cenare insieme... E intanto cerchiamo per noi una stanza a Portovenere...”
Durante la cena, Gerda, la più spontanea delle due ragazze, quasi piangendo sussurrò a Clé: “È troppo triste lasciarci qui, così... Non ti pare? Portaci con la tua barca ancora per un giorno. Fino a Marina di Massa o Forte dei Marmi, vuoi? Dopo ti spediamo da solo per Viareggio e Livorno. Che ne dici, Karin?”
Karin fu subito d’accordo. E anche Clé era contento all’idea. Non solo per la compagnia, ma anche per l’aiuto che le due belle balticotte gli avevano dato, e gli avrebbero dato ancora, nel tenere a punto la barca e nel preparare da mangiare.
“Allora partenza alle quattro, come ieri?”
“No, no, domani si va sul tranquillo... Partenza alle sei, basta!”
Infatti il giorno dopo la situazione meteorologica e marina era del tutto cambiata. Il libeccio s’era assopito, ed era tornato un pacato maestralino. Clé poteva navigare beato con il vento in poppa, puntando la prua a sud-est, dove voleva dirigersi.
Poi c’era il fatto che il mare dalla punta Manara alla punta di Mesco, e poi da lì a Portovenere, era un mare maschio, severo, impegnativo, talvolta rabbioso, confinato a levante da quella spettacolare muraglia di monti, rupi, scogli, capi, faraglioni che lo contenevano e sovrastavano. Entrati nel golfo di La Spezia, pareva che il mare mutasse di sesso: non era più un maraccio minaccioso, talvolta pauroso, ma “una mare” sorridente, dolce, pacifica, amorosa. E lì davanti stavano paesi incantevoli, come Lerici o Montemarcello.
Da Portovenere a Marina di Massa fu una vera volata. Ormai con il maestralino alle spalle significava procedere a ruota libera. Per due giorni durissimi il mare era stato in salita, ora era nettamente in discesa. La traversata fino a Marina di Massa richiese appena cinque ore. Onde soavi e quasi sorridenti accompagnavano lo scafo dello Scopamare, e certe volte, per lunghi tratti, lo trasportavano addirittura, imprimendogli una velocità maggiore di quella che gli avrebbero dato le sole vele.
A Marina di Massa ci furono gli addii tra le belle, simpatiche, coraggiose balticotte e il lacrimevole Clé, desolato di dover continuare da solo. La distanza da Livorno era ancora grande, anche se le condizioni erano favorevolissime. Clé pernottò in barca al Tònfano, dove un piccolo fiume sfocia in mare.
Finalmente con il quinto giorno, dopo una lunga volata di circa dieci ore, passando al largo di Viareggio, Marina di Pisa e Tirrenia, arrivò nel porto di Livorno. Lì dovette attendere un paio di giorni per trovare chi gli portasse la barca a Palermo. Finalmente scovò un peschereccio che andava a Trapani e il cui capitano accettò, contro un modesto compenso, di caricarsi la barca a bordo, disinnestando l’albero e impacchettando le vele.
Infine Clé poté prendere il treno per Firenze e raggiungere la famiglia.