5. “Aahh!” gridò Sisidda. “U’dduca è muortoo!”
Ormai l’autunno si stava avvicinando, era bene decidersi a partire per la Sicilia.
Da un lato le notizie che giungevano da Bagheria riguardanti la salute del patriarca di laggiù erano sempre meno buone, e Malachite faceva spesso sentire il suo desiderio giustissimo di riabbracciare il padre al più presto; dall’altro Clé intuiva da tanti piccoli segni che per il dottor Raimondi la presenza in casa d’un figlio sposato e di tre nipotine carucce, ma irrequiete e rumorose, stava cominciando a diventare pesante. La villa era senza dubbio grande a sufficienza perché tutti potessero abitarvi con agio ancora per qualche tempo, in attesa di una sistemazione definitiva, in più era circondata da oltre un ettaro di orti e giardini, ma nel dottor Raimondi, con l’età, il culto dell’ordine, dell’orario d’ogni evento giornaliero anche più minuto, aveva acquistato proporzioni che Clé (vergognandosi un po’) definiva in silenzio “maniacali”.
L’organismo spazio-temporale “villa” funzionava come un mirabile e delicatissimo congegno a orologeria. Tre persone fidate accudivano alla casa e ai bisogni giornalieri del dottore, due giardinieri (più alcuni aiuti per i lavori grossi) coltivavano la terra e tenevano in ordine con cura solerte e paziente aiuole, vasi, siepi, l’orto, il frutteto e gli alberi ornamentali. Le abitudini mentali dello scultore, ormai divenute una seconda natura, si erano recentemente riversate sulle piante, sotto forma d’una vera passione per l’arte topiaria: gli allori erano stati educati in lunghissime siepi di geometrica eleganza e su di esse si levavano in palle, cilindri, cubi o tronchi di cono, le chiome euclidee dei lecci. Nei punti focali del giardino, al termine di vialetti, al loro incontro, nel recesso d’una piccola esedra di bosso e ulivi, erano state via via disposte delle statue in bronzo, in pietre varie, alcune semplicemente di gesso, ovviamente di mano casalinga. A parte certe leziosità francamente eccessive, bisognava riconoscere che, nei decenni, Roberto Raimondi era riuscito a creare un verde gioiello, del resto segnalato in varie opere, anche importanti, sui giardini di Firenze. “Sarà la mia creazione ultima e più bella!” pare dichiarasse ad amici e conoscenti.
Qui bisogna aggiungere che il dottor Raimondi, avendo vissuto una franca e onesta adesione al fascismo, almeno fin quando essa fu sostenibile (negli anni 1939-40), adesso, da persona tutta d’un pezzo, inadatta agli usuali accomodamenti pragmatici e mondani, si sentiva dolorosamente in colpa, a disagio, insomma un sopravvissuto in tempi non più suoi. Perciò viveva completamente da solo. Non usciva mai. I suoi unici contatti umani abituali erano quelli con i giardinieri e con le donne di casa. Se aveva bisogno di consultare il suo avvocato, o di farsi visitare da un medico, li invitava a casa. I pochi veri amici che gli rimanevano abitavano a Venezia, a Milano o a Roma, magari all’estero, e quindi comparivano di rado. Si aggiunga che Roberto Raimondi non aveva mai preso la patente di guida, né posseduto un’automobile (preferiva l’uso dei taxi), quindi ignorava la mobilità di chi è abituato all’uso delle quattro ruote.
Riguardo alle risorse economiche del padre, Clé non aveva la minima informazione. Era però facile indovinare che, sia come erede del nonno Anacleto, sia per ciò che aveva accumulato personalmente in decenni di continuo lavoro, non dovesse avere pensieri. L’ansia che figlio, nuora e nipotine, restassero troppo a lungo in quello che Malachite e Clé, nelle loro conversazioni private, scherzosamente chiamavano “l’uovo ingioiellato di Fabergé”, non aveva origini economiche, bensì, diciamolo, situazionali.
I giovani, ritardando magari di soli cinque o dieci minuti il ritorno a casa per i pasti, o peggio ancora telefonando all’ultimo momento per dire che restavano fuori, distruggevano imperdonabilmente l’ordine sublime e celeste dei riti casalinghi. Lo stesso avveniva se osavano invitare degli amici, non diciamo ai pasti che sarebbe stato inconcepibile, ma per un rinfreschino pomeridiano o serale; vedere il sacro luco invaso da sconosciuti poneva Raimondi padre in stato d’angoscia, o (forse) di sordo furore. I giovani, ovviamente, erano gregari; ciò significava limitare telefonate, visite, viavai di gente, di veicoli, di cose, oltre a rumori, voci, presenze, eventi inaspettati, rotture continue del sistema tolemaico domestico con i suoi cicli ed epicicli stabiliti da secoli.
Gentile, il fratello di Clé che conviveva con il padre, era tollerato perché scapolo, perché giudizioso e sottomesso, perché si faceva vedere il meno possibile, e infine perché in molte cose la sua personalità combaciava con quella del genitore.
Viaggiare a quei tempi in Italia non era facile. La linea ferroviaria diretta Firenze-Roma era ancora chiusa per ricostruzioni varie. Volendo recarsi al Sud occorreva andare a Pisa, donde rari e affollatissimi treni trasportavano la gente lungo l’Aurelia verso Roma. Quando si arrivava? Nessuno lo sapeva. Le soste erano continue, irregolari e generalmente lunghe. Fu così che Clé, con le donne della sua famiglia e gli immancabili bagagli, lasciò Firenze su di un capace vagone merci dalla vernice rossa scrostata, con la mitica scritta CAVALLI OTTO, UOMINI QUARANTA: per fortuna gli esseri umani non erano quaranta, anzi il vagone era pressoché vuoto. Che divertimento per le piccole viaggiare, quasi all’aperto, con il sole e le brezze autunnali in faccia! La temuta trasferta si rivelò una festa continua, un gioco prodigioso. Tardissimo la sera “i profughi” raggiunsero Roma, dove furono cordialmente ospitati da zio Miscia. Era quasi impossibile pensare che lui e il dottor Roberto fossero fratelli! L’aspetto fisico magari non li separava tanto, benché zio Miscia fosse più rosso di capelli, più gioviale d’espressione, più robusto di corporatura. Erano le personalità che si contrapponevano come polarmente opposte. Zio Miscia fu felicissimo d’ospitare “la banda dei miei cari giapponesi” alla meglio, su letti improvvisati e sofà sdoppiati, mandando la donna della cucina, la Vittoria (alta, mezz’età e sorridente) a fare ampie provviste in rosticceria.
“Ma zio, t’invadiamo la casa, no?” ripeteva Malachite.
“Niente paura,” rispondeva zio Miscia, “se mi rompete i coglioni ve lo dico subito...” “Rompere i coglioni”, ma quando mai s’era intesa una simile espressione ribalda e popolare nella Villa Raimondi di Firenze? Mai e poi mai, si capisce. E non per questioni di morale, ma per stile, per buon gusto, per signorilità. Inoltre zio Miscia, che aveva da sempre una passione ardente per la grande musica, fu capace di prendersi una delle nipotine sulle ginocchia e raccontarle tutta la trama del Sigfrido wagneriano, cantando le varie arie, e per di più chiappando una pentola in cucina per battervi i famosi colpi del maglio di Fafner. Le bambine n’erano incantate e non volevano più partire.
Dopo un paio di giorni Clé e famiglia si avviarono in autobus verso Napoli. La città partenopea era ancora per metà sottosopra e popolatissima di militari alleati. GUARD YOUR KIT! dicevano grandi cartelli sparsi ovunque. Certe strade erano OFF LIMITS, oppure OUT OF BOUNDS, d’accesso vietato, a seconda se il segnale era stato apposto dagli americani o dagli inglesi. Clé, che aveva portato in salvo le sue molte cose attraverso metà del mondo, riuscì a superare indenne i rischi napoletani. Certo gli scugnizzi/sciuscià erano diabolici, e uno di loro quasi quasi riuscì a impossessarsi d’una valigia, per fortuna un po’ troppo pesante per le sue braccia ancora da ragazzino.
Come vollero i Kami, i cinque si trovarono al tramonto imbarcati sulla nave per Palermo. Date le esigenze del momento, un miserando piroscafetto d’appena ottocento tonnellate, di nome Mocenigo, era stato dirottato dai trasbordi lagunari veneziani e posto sulla linea molto più impegnativa Napoli-Sicilia. Il fatto avrebbe potuto costituire un allegro diversivo con il bel tempo, ma il fato volle che il basso Tirreno fosse battuto quella notte da una feroce libecciata. Il bravo Mocenigo s’inerpicava sulle onde per poi precipitare dal lato opposto in una danza continua e folle. Clé e i suoi trascorsero la notte a vomitare disgustosamente, come non avevano mai fatto, pur avendo attraversato i più minacciosi e malfamati oceani del mondo.
In qualche modo miracoloso il vecchio duca era riuscito a far giungere al porto di Palermo, proprio dinanzi al Mocenigo, un’auto di rimessa pilotata da tal Pilade Ciolino, che lavorava spesso per l’azienda famigliare dei vini. Pilade si sarebbe potuto definire il tipico siciliano atipico di Palermo e dintorni, dove vichinghi, normanni, bretoni, svevi e tanti altri uomini del Nord hanno lasciato miriadi di tracce dei loro amori isolani: biondo, alto, occhi chiari, si sarebbe detto, più che siculo, svedese. Di parola, gesti, portamento era però, senza dubbio alcuno, figlio della Trinacria. Salutò profusamente Malachite e Clé con molti “Voscienza benedica” e “Vi bascio le mani”, caricò bagagli e figlie sul vetusto veicolo, e poi avanti per Acqua dei Corsari, per Ficarazzi, in direzione di Bagheria.
Che emozione ritrovarsi dopo tanti anni, dopo tante vicende vissute in lungo e in largo per il mondo, dinanzi al cancellone smisuratamente alto in ferro battuto rugginoso (il quale s’apriva con un ghiiii sonoro e musicale, quasi un sospiro di metallo), e che dava sul vialone in salite e curve conducente a Villa Valginevra! La custode, donna Filomena (detta da sempre donna Fila), un corpaccione prospero di sessantenne soddisfatta, vestita alla popolana in vari sobri toni di grigio, con la faccia benevola di tinta olivastra coronata da capelli bianchissimi stretti in una crocchia alla nuca, era già lì ad attendere l’arrivo dell’auto. Vedendola si sarebbe pensato volentieri al saluto di un’arcaica Madre Terra miracolosamente uscita, non dalla sua casetta cubica imbiancata di fresco lì accanto al cancellone, ma da qualche misterioso tempio megalitico celato chissà dove. “Figghia mia, dunne venisti, eh?” esclamò donna Fila vedendo Malachite, e poi giù abbracci, lacrime, strani lamenti di gioia, baci, saluti, affettuosità strabocchevoli, ma sincere. Malachite (noblesse oblige), per pura forza della sua straordinaria volontà, pareva completamente rimessa dalle tragedie gastriche notturne sul Mocenigo, e sorrideva beata. Bellissima.
Finalmente superato il cancellone, la macchina, sputazzando benzina malcarburata, risalì il viale molto trasandato, girò la curva, passò sotto degli archi che certamente dovevano avere avuto, un tempo, qualche senso, ora del tutto perduto, e sbucò sul vasto piazzale detto, in famiglia, “delle Cinque Principesse”, dinanzi alla villa. “Oh, ma guarda, non c’è nessuno!” esclamò visibilmente contrariata Malachite. Pilade scese, aiutò le bambine a sbarcare dal veicolo e scaricò i bagagli ammucchiandoli su delle alte pietre rettangolari che anticamente servivano per montare a cavallo. Malachite era sparita. Clé e le bimbe cominciarono a salire per lo scalone esterno, quando Malachite riapparve con la faccia molto rabbuiata. “Povero papà, poveretto davvero,” sospirò tergendosi con un fazzolettino delle lacrime dagli occhi. “Sta molto peggio di come immaginavo... Però venite, andiamo, ci aspetta.”
L’intera famiglia passò al primo piano, percorse un breve e oscuro corridoio, poi sbucò in un vasto salone decorato da settecenteschi affreschi pompeiani, con l’impiantito a mattonelle di maiolica lucida che riflettevano alcuni deboli raggi di sole, rifrangendone la luce in una festa irreale di colori.
Al centro della sala, sopra una sedia dorata a spalliera altissima, avvolto in coperte scozzesi, stava seduto il patriarca. “Oh, Chitellina mia, come stai? Avvicinati, lasciati abbracciare!” esclamò affettuosamente il vegliardo: poi salutò, ma solo con un gesto, le nipotine e Clé, quasi si fosse del tutto esaurito nel breve slancio iniziale. “Mamma mia, quant’è diventato piccolo!” pensò quasi involontariamente Clé, che ricordava il patriarca come l’aveva conosciuto prima della guerra: alto, prestante, vigoroso, una presenza d’ortòmo solare, come raramente se ne incontrano per le spiagge del mondo. La malattia, una malaria trascurata finita in cirrosi epatica, lo aveva rattrappito, quasi mummificato. Soltanto gli occhi avevano ancora, a momenti, una straordinaria vivezza; per il resto faceva pateticamente pensare a un uccellino sperduto e ferito, incapace ormai di volare.
Una piccola porta quasi celata dalle pitture si aprì e comparve Yvonne, la madre di Malachite, accompagnata da una sorridente cameriera-infermiera di mezz’età, vestita in una sorta d’uniforme del caso, che teneva tra le mani un vassoio con varie medicine e dell’acqua in una brocca di cristallo. “Oh là, là,” fece Yvonne guardando la figlia, “stai proprio bene! Si vede che le sventure ti giovano, eh?” Poi le due donne si abbracciarono, ma solo per poco e formalmente.
Intanto Yvonne s’era rivolta a Clé prendendo un’espressione teatrale di rimprovero, scuotendo la destra per aria quasi a simbolo di scapaccioni: “Alors Clé, je vois que ca va bien, eh?... Mais il faut que tu lise les oeuvres d’Ogino-Knaus, voilà!... Siamo già troppi nel mondo, se continuate così sarà un disastro di sovrappopolamento. È pericoloso! Basta, basta, miei cari ragazzi!” Aggiunse poi che erano state messe a punto per i nuovi arrivati due stanze nella barchessa di levante. “Sono un po’ bruttine e disadorne, confessiamolo, ma ciò v’incoraggerà a cercare presto una soluzione migliore, eh, che ne dite?” Yvonne, a metà dei suoi cinquant’anni, più che grassa era sfasciata, ma non rinunciava per nulla a decorarsi vistosamente. Dagli orecchi le pendevano due gocce allungate di giada, intorno al collo sfoggiava un filo di grossi coralli a sfera di color rosa, i polsi erano nascosti da bracciali d’oro, e le dita ornate da vari anelli del medesimo metallo. Il tutto insieme a un vestito in seta viola. I piedi infine erano calzati da sandali in lucida pelle, con tacchi notevoli.
Clé non poté fare a meno dal guardarsi più volte intorno. La stanza spaziosa, altissima di soffitto, gli era famigliare da anni. A parte le circostanze dolorose del momento, ancora una volta: che meraviglia! Che squisitissimo incanto! Alle origini doveva essere stata concepita come sala da ballo; e questo spiegava gli scherzosi affreschi in stile pompeiano, in cui fiori divenivano ninfe o satiri, tornando poi più in alto a sbocciare in fontane di gioielli e di frutti multicolori. Alcune alte specchiere dall’argento ormai parzialmente ossidato in curiose maculazioni, contenute in cornici lignee d’un oro sfiorito, parevano ancora attendere l’occasione di poter riflettere coppie elegantemente vestite nei frivoli giri delle loro danze e dei loro amori. Da lungo tempo però la stanza era stata adibita a usi più intimi, domestici e tranquilli. Da una parte troneggiava un lettone biposto in legno lavorato alla barocca, verniciato di bianco con filettatura d’oro, ai cui lati erano stati situati due comò non dissimili. Per il resto la stanza era rimasta pressoché vuota, sottolineando con ciò lo smisurato lusso di spazi di cui si godeva là dentro. Senza contare che, dalle finestre, s’indovinavano panorami sconfinati su cieli, monti lontani e marine prodigiose.
Clé non voleva, non voleva, gli sembrava sconveniente, irrispettoso. Eppure gli occhi riconducevano di continuo l’attenzione al biposto talamo barocco lì dinanzi a lui, a loro tutti. Già, era stato dieci anni prima, al suo ritorno dal suo viaggio in Tibet. I suoceri erano assenti, e Marina, la maga ispano-sicula di casa, aveva subito suggerito alla giovane coppia, appena ritrovatasi dopo sei mesi di separazione: “Ma sì, festeggiatevi il ritorno sul duepiazze ducale! Non lo saprà mai nessuno, ve lo prometto, ve lo giuro!” E i due infatti lì si festeggiarono: una fiumana di orgasmi durante una notte intera e nella mezza giornata successiva, tra abbracci, baci, dormiveglia, sonni, fantasie di paradiso. Ogni tanto arrivava la maga Marina, alta, niura (nera), con i suoi occhi foschi ed enormi da invasata, tenendo in mano un vassoio d’argento colmo di zabaioni e pasticci afrodisiaci segreti (diceva lei) atti a ristorare corpi e spiriti. “Siate felici,” incoraggiava la maga, “simili feste capitano poche volte nella vita!” Malachite e Clé ridevano da matti e quasi pubblicamente riprendevano la cavalcata dei loro coiti prodigiosi.
Adesso erano veli sottili ed evanescenti di ricordi. La sala da ballo e l’alcova fatata d’una volta, si stavano trasformando in mesta e marmorea sala di morte.
* * *
Pochi giorni dopo Clé e Malachite si misero in cerca d’un posticino dove poter trascorrere almeno alcuni mesi in pace, sperando di riuscire a recuperare la serenità dopo le tante traversie degli anni passati. Clé sperava inoltre di poter scrivere, aveva molti progetti per il capo.
Al solito (come a Sàpporo, a Kyoto e altrove) i due furono fortunatissimi. Dopo una prima sommaria ricerca tra gli amici locali, risultò essere libera, almeno per l’inverno e la primavera, una casetta costruita per uso estivo, ma tutto sommato abbastanza solida, situata a Porticello, un villaggio di pescatori sulla costa, a tre o quattro chilometri da Villa Valginevra. La casetta, un cubo bianco a tetto piano secondo lo stile mediterraneo, il cui unico sfizio, diciamo balneare, era una piccola loggia racchiusa sotto un paio d’archi, sorgeva addirittura sugli scogli in riva al mare, anzi in sfida al mare. La località si trovava al fondo d’una baia abbastanza ben protetta dal mare aperto, però quando tiravano venti forti, specie di maestrale, gli spruzzi delle onde che s’infrangevano contro gli scogli, arrivavano fino in casa.
Come Clé, nella casetta di Sàpporo, era rimasto incantato da un’intimità specialissima con la neve, così a Porticello scoprì con indicibile gioia una nuova intimità di natura, quella con il mare. Quanto gli piaceva, durante le notti di tempesta invernali, avvolto nelle sue coperte che facevano dolce cuccetta, ascoltare il fragore ritmico e continuo insieme delle onde che si avventavano furibonde contro gli scogli di casa! Già possedere degli “scogli di casa” era cosa stupenda. Finora gli scogli erano sempre stati luoghi d’incanto, sì, ma di visite brevi a scappa e fuggi, di campeggi, di notti in barca ancorata presso la riva e simili. Ora invece quelle rocce potevi frequentarle a tutte le ore, conoscerle una a una, fartele amiche amorose sasso per sasso, grotta per grotta. Inoltre il fatto d’abitarvi a ridosso aboliva l’idea assurda del mare come esclusiva frequentazione estiva. Adesso ti teneva compagnia anche nell’inverno più profondo e inospitale. Malachite sembrava abbastanza contenta della nuova dimora. Certo, riguardo al mare, i suoi pareri divergevano da quelli di Clé. “Gli siamo troppo a ridosso,” diceva spesso, “non vedi che tutti i metalli di casa arrugginiscono, si ossidano? Eh già, con il tuo gusto fanatico delle finestre aperte per ‘respirare il salmastro’ si capisce che sia così.”
Per la prima volta dopo anni, dal settembre del 1943, dai tempi addirittura di Kyoto, dopo campi di concentramento, templi buddisti, numerosi alberghi, navi, ville di parenti e amici, la famiglia Raimondi si trovava a possedere una vera casa dove potersi rilassare, nella quale poter riordinare un poco le idee e i sentimenti.
Un problema assai temuto, quello della lingua, per le bambine si rivelò di soluzione molto più facile del previsto. Alla partenza dall’Asia orientale le piccole parlavano solo, e benissimo, il giapponese; sei mesi dopo avevano già dimenticato la lingua dell’infanzia e si destreggiavano ottimamente con l’italiano. La capacità dei bambini d’imparare (e di dimenticare) le lingue è fatto prodigioso. Dafni si trovava giusto al confine tra l’età di tinegista iniziale, quando l’apprendimento comincia a passare attraverso la razionalità ed è quindi molto più difficile, e la fanciullezza con le sue straordinarie capacità d’assorbimento intuitivo e globale. Clé ricordava molto bene l’ultima parola giapponese pronunciata dalla figlia. Fu durante una gita con Malachite e le ragazzine al vicino e amatissimo capo Zafferano. Dafni voleva mostrare ai genitori un lungo e dolce pendio erboso tra le rocce, ma la parola italiana evidentemente non le veniva, allora disse: “Guardate là che bel suberidai!” Ora suberidai significa “scivolo” e si riferisce in particolare a certi piani inclinati che si trovano, per il divertimento dei piccoli, nei cortili delle scuole nipponiche che lei aveva frequentato, e che quindi conosceva alla perfezione. Dopo il famoso suberidai, Clé non sentì più le figlie esprimersi in giapponese. Peccato, certo, perdere del tutto una lingua difficile e importante, ma bisognava arrendersi all’evidenza: mantenere viva una lingua straniera in casa, e in stato d’assoluto isolamento, era cosa impossibile. Senza considerare che bisognava ormai cominciare a pensare all’inglese.
La pace e la serenità riacquistate a Porticello rivelavano però a Malachite e a Clé, attraverso tanti piccoli segni, quanto fossero stati pesanti gli effetti negativi degli anni di fame, di paure d’ogni genere, d’umiliazioni continue sofferti dal ’43 al ’45. Forse le donne sono più resilienti degli uomini, e in effetti Malachite sembrava meno colpita di Clé. Inoltre, a parte questioni di sesso, più o meno dibattibili, occorreva anche tener conto dell’impasto diverso delle due personalità individuali. Malachite esclamava spesso: “Ah, io ho sofferto abbastanza. Da ora in poi la vita voglio godermela!” Saggio proposito, indubbiamente, ma proposito che implicava un certo abbandono al destino.
Clé manteneva invece, più ostinato e aggressivo, un senso di ambizioni da perseguire. Ambizioni? Si fa presto a pronunciare la bella parola! In realtà Clé, rispetto al passato, era infinitamente meno sicuro di se stesso. Di fronte a qualsiasi progetto s’insinuava un dubbio sottile e crudele: “Ce la farò? Non sarò ormai inesorabilmente bacato?” In realtà stava benissimo, ma non lo sapeva; e forse non osava, e magari non voleva, saperlo. Che sciocco!
La vera liberazione venne solo molto più tardi, nel 1958, quando gli capitò di prender parte a una importante spedizione sulle montagne più alte del mondo (Karakorum) e volle mettersi duramente alla prova. Tutto andò benissimo. Clé raggiunse e superò i settemiladuecento metri di quota, fece ripetute marce di venti e più ore, spalleggiò pesi spropositati, insomma capì finalmente davvero che la prigionia non gli aveva lasciato addosso delle gravi tracce negative nel fisico.
Nel morale le cose erano più subdole e perigliose. Clé, ormai vicino ai quaranta, si sentiva inesorabilmente sbandato, incapace d’inserirsi nella vita normale, d’imprigionarsi in un qualsiasi lavoro stabile. E per di più aveva (come spesso succede) preso gusto a una simile libertà da corsaro, si era abituato al piacere di trovarsi perennemente disponibile per qualsiasi prossima avventura.
E la “prossima avventura”, non si sa per quale destino benefico o beffardo, si presentava quasi sempre prestissimo all’appuntamento. Un bel giorno venne infatti a cercare di Clé a Porticello un certo professor Norbert Rominger, di schietta origine tedesca, ma ormai americano di passaporto e d’endocosmo. Rominger era alto, magro, biondo, occhialuto, sulla trentina, sposato con un’inglesina del tutto jolly. (Come si traduce il termine? Ah, la povertà lessicale dell’italiano! Il dizionario dice “gioviale, spensierato, allegro”, ma siamo solo alla periferia semantica dell’aggettivo.) L’inglesina jolly doveva essere prima di tutto sana, poi sorridente, poi amichevole, nonché prosperosa, solare e positiva. Rominger poteva dirsi per certi aspetti l’opposto assoluto di Clé: fin da ragazzino era stato preso dalla passione per l’arte bizantina e, scovato il suo sentiero, lo stava seguendo con quelle due forze, la diligenza e l’intelligenza, le quali unite conducono alle massime vette quasi senza che uno se n’accorga. Adesso lavorava per una prestigiosa istituzione culturale americana di cui godeva piena e illimitata fiducia. Parlando con Rominger, Clé pensava spesso a Maurizio, l’amico botanico fiorentino, e li invidiava entrambi da morire.
Come si è già avuto occasione di apprendere, Clé, fin dall’età di tredici o quattordici anni, aveva preso una febbrile (ma questa volta continuata) passione per la fotografia. Tutto era nato da una piccola Kodak con il soffietto di pelle rosa, regalatagli da zia Violet in Inghilterra. “Be’ non potrò mai fare il pittore,” si diceva un po’ sconsolato Clé, per la carenza di quelle doti naturali che invece il babbo Roberto aveva in cospicua abbondanza, “ma la fotografia sarà un gradito sostituto, almeno speriamo.”
Clé aveva diligentemente studiato i problemi ottici della fotografia, acquisendo i dati essenziali riguardanti aperture e lunghezze focali degli obiettivi, nonché i diaframmi e i tempi d’esposizione; si era anche interessato degli aspetti chimici dell’arte, apprendendo molte cose riguardo agli sviluppi, alla stampa, agli ingrandimenti e via dicendo. Aveva perfino trasformato, ai tempi fiorentini, parte della sua stanza in camera oscura. Per di più aveva pubblicato molte foto su varie riviste, e aveva perfino scritto articoli di teoria in materia, sostenendo, quand’era ancora eresia affermarlo, che la fotografia va considerata una vera arte, come le altre.
Non si sa bene come, il professor Rominger – anzi diciamo Norbert, perché i due uomini avevano legato subito tra di loro tramite l’inglese, seconda lingua per entrambi – avesse avuto notizia delle capacità fotografiche di Clé e avesse deciso di offrirgli un importante lavoro: il rilievo sistematico dei mosaici bizantini siciliani d’epoca normanna che ornano alcuni dei principali edifici religiosi e civili a Palermo, a Monreale e a Cefalù. Il lavoro era sostenuto e patrocinato da una prestigiosa istituzione di là dall’Atlantico. Si prevedeva inoltre nel futuro una degna pubblicazione del materiale raccolto – la quale infatti ebbe poi luogo, ma solo quarant’anni più tardi! Clé naturalmente disse di sì, anche perché la fatica veniva compensata con benvenuta larghezza, in termini più transatlantici che italiani.
Ecco dunque lo sbandato messo a posto per un buon anno e mezzo, e forse più. Con il primo anticipo sul lavoro Clé acquistò una Giardinetta Fiat di seconda mano, dalla carrozzeria, come usava allora, di legno; inoltre scovò per quattro soldi, in un deposito di residuati bellici, una motocicletta Norton da trecentocinquanta centimetri cubici, brutta ma assolutamente indistruttibile e adattissima a percorsi fuori strada. Infine, come abbiamo visto, aveva acquistato lo Scopamare. Con tale modesto parco veicoli a disposizione Clé si sentì rinascere: quasi d’un colpo aveva acquisito insperate mobilità e libertà su strade, su sentieri di montagna, nonché sulle onde del mare.
Non erano però tempi da smodate allegrie.
Ogni tanto Clé e Malachite, magari conducendo Dafni con loro, si recavano fino alla “metropoli”, cioè a Palermo. Quante distruzioni, rovine, miserie si vedevano ancora in giro! Poi ormai avanzava l’inverno, fatto che richiede qualche parola a sé. I settentrionali e i centrali d’Italia, quando pensano al Sud, lo vedono come un insieme di terre dove regna quasi perenne il sole, con monti calcarei dalle forme bizzarre, splendidamente addobbati di verde, o coronati da villaggi e castelli di robusta fantasia, ai cui piedi si distendono aranceti e limoneti in frutto, ulivi giganteschi in fiore, nonché quegli scherzi vegetali surrealisti che sono i fichi d’India. L’immagine non è (o non era) poi troppo lontana dal vero, ma ciò valeva per nove mesi dell’anno, non per l’inverno, il quale anche se dura poco (dicembre, gennaio, febbraio e magari parte di marzo) può mordere duro e cattivo. Per di più manca (o mancava allora) quasi ogni forma di riscaldamento e nelle case le giornate trascorrevano miserabilmente tra brividastri lungo la schiena e gelo ai piedi.
La Sicilia invernale può essere paurosamente grama e repulsiva e Clé stava sperimentando per la prima volta questo volto poco propagandato del Sud. Le strade di Palermo erano sporche, fangose, e la gente vi circolava con certi musi lunghi da mettere subito la malinconia addosso. Per di più si vedevano molti mendicanti in giro, alcuni lo si capiva chiaramente erano degli imbroglioni, altri certamente no. Una donna abbastanza anziana accompagnata da una bambina sui dodici anni si avvicinò a Clé con la mano tesa, e lui le dette una manciata di monetine: la bambina prese la mano della mamma e l’aprì ansiosamente per vedere quanto aveva ricevuto dai “signori”. La scena colpì Clé all’improvviso con vivezza commovente e terribile. Si ricordò di quella volta che il poliziotto in capo, Kasuya, preso forse da qualche rimorso per le ruberie sui cibi che spettavano ai suoi custoditi, aveva chiamato Malachite facendole dono di una rapa e una carota avvolti in un foglio di giornale: e Dafni aveva subito frugato tra le mani della madre per capire in cosa fosse consistito il misterioso regalo.
Be’, non tutto il male viene per nuocere. Clé e Malachite avvertivano ogni giorno d’avere acquisito tastiere intere dell’animo, riguardanti dolori e miserie degli esseri umani prima troppo baldanzosamente ignorate.
* * *
Da Villa Valginevra intanto giungevano notizie sempre più tristi. Il patriarca era ormai allo stremo. Malachite e Clé percorrevano il breve tragitto tra Porticello e Bagheria più volte al giorno. “Non credo che ce la farò ad arrivare a Natale,” aveva detto il malato ai primi di dicembre. E infatti non ce la fece.
A metà del mese “restituì la bell’anima a Dio”. Clé rimase profondamente ammirato da come Silvestro di Caltavuturo fosse morto in piena lucidità senza il minimo tentennamento nella sua luminosa fede laica professata da decenni. Restare fedeli a se stessi in un paese pesantemente cattolico come la Sicilia non dev’essere stato facile.
Del resto, Sicilia o no, quante conversioni all’ultima ora Clé avrebbe visto poi nei suoi anni più maturi! Uomini e donne che avevano trascorso praticamente un’intera vita in aperto dissidio intellettuale, emotivo, talvolta etico o addirittura religioso con la Chiesa, arrivati al dunque cadevano come pere cotte nelle reti maliarde delle sue magie. Illustri personaggi proclamatisi comunisti per decenni giustificavano certe loro scelte finali dicendo che avevano professato solo una fede politica la quale non richiedeva l’adesione a una totale visione del mondo ben diversa da quella cattolica. Il fatto è – rimuginava Clé nei suoi pensieri a proposito di queste cose – che i cattolici, specialmente i professionisti dell’imponente organizzazione, si ritengono e si sentono padroni di Dio, suoi concessionari esclusivi e patentati. O adori e avvicini Dio secondo i loro dettami e programmi, o vieni considerato un ateo, un bruto materialista, un miope metafisico, un paralitico dello spirito. Contro queste assurdità è necessario reagire. E Clé vide nel patriarca, e nella sua morte così pulita, una forte e sicura bandiera da rispettare per sempre.
Il 14 dicembre era una di quelle giornate tipiche d’una Sicilia invernale imbronciata, addirittura scostante. Un cielo plumbeo, basso e continuo, si estendeva da un orizzonte all’altro; ogni tanto pioviscolava; non c’era vento ma faceva decisamente freddo. Un autocarro disadorno della ditta vinicola di famiglia comparve nel cortile delle Cinque Principesse, e alcuni uomini addetti alle vigne vi caricarono sopra la bara del duca. Unico ornamento, quattro o cinque mazzi di fiori campestri raccolti dagli intimi di casa. Il mezzo, seguito da alcune macchine con i parenti più stretti dell’estinto, oltrepassò il cancellone della villa, dirigendosi poi verso Solanto e la strada nazionale per Cefalù. In capo a una dozzina di chilometri il corteo raggiunse Casteldaccia, penetrando, attraverso la porta ad arco di un’antica torre, nel vasto cortile dell’azienda vinicola. Qui si erano riunite un duecento, forse trecento persone; molti erano dirigenti e operai della ditta vinicola, ma molti erano abitanti del paese. Il vecchio duca era amatissimo da tutti perché giusto, generoso, semplice, modesto, gran lavoratore, scherzoso al momento opportuno, severo, se necessario. Come spesso succede ovunque il corto circuito nobili-agricoltori aveva funzionato a meraviglia per una vita intera. Tra l’altro Silvestro di Caltavuturo parlava quasi sempre in dialetto locale stretto, conosceva (anche se non praticava) tutte le superstizioni, fino alle più assurde del paese, e ricordava (cosa da non trascurarsi) i soprannomi più reconditi e segreti d’ognuno.
Dato che si trattava, fatto del tutto insolito da quelle parti, d’un funerale laico, nessuno sapeva bene cosa fare. Purtroppo, é vero, i funerali laici mancano quasi sempre di cuore, di festa per gli animi, di gioia per i sensi e l’immaginazione. Anche quelli di personaggi famosi, accompagnati da discorsi importanti, magari alati e sinceri, fanno la medesima fine. “Avete voluto la razionalità, il rigore euclideo, la linearità intellettuale? Ora teneteveli!” sembrano dire i cattolici affacciati da lontani immaginari balconi sorridendo soddisfatti. Un vero funerale laico è ancora tutto da inventare: un rito ricco e caldo di ampie concessioni all’irrazionale, con musica, lettura di liriche, canti, fiori, magari danze, una festa per i sentimenti e le emozioni, intonata al ricordo, alla rievocazione del defunto, e al richiamo della presenza eterna, tra gli esseri umani, del grande mistero.
Qualcuno ebbe un’idea un po’ balzana, ma simbolicamente efficace. Al centro dell’ampia corte fu posto un alto e grosso tino da vini, ormai fuori uso; e su di esso venne issata la bara. Seguì un momento, ma solo un momento, di stupefatto imbarazzo e silenzio. Clé, per balenio di pensieri improvvisi, pensò che forse toccava a lui, come genero maggiore, sciogliere il disagio generale dicendo alla gente qualche parola di commemorazione del patriarca, e stava addirittura per farsi avanti, vincendo un forte turbamento, quando s’intese un urlo impressionante. Era Sisidda, la figlia dei guardiani della torre, una ragazzina isterica di tredici o quattordici anni, magrissima, con una grande chioma disordinata di capelli neri, vestita alla meglio di scuro; dalla gonna uscivano due lunghe magre gambe pelose che finivano in sandaletti grigi da quattro soldi.
“Aahh!” gridò Sisidda, quasi fuori di sé. “U’dduca è muortoo!” poi s’accasciò tra le braccia della madre come disfatta.
Chissà quale istinto arcaico d’antenate prefiche, di lamenti funebri preistorici l’aveva mossa. Ma fu soluzione meravigliosa, decapitazione d’ogni incertezza! Il funerale laico si era magicamente ricollegato a fili sconosciuti nell’animo di ciascuno dei presenti, fili che li riconducevano alle radici assolute delle cose, a mondi precristiani, all’alba dell’uomo e dei suoi più santi dolori.
La cassa venne risollevata dal tino, posta di nuovo sull’autocarro, che partì sotto una pioggerella sottile, verso un minuscolo cimitero di paese, ai piedi dei monti di Calamigna.
Clé si sentiva profondamente commosso. “Tutto ciò che nasce dovrà perire, tutto ciò che s’unisce dovrà infine separarsi”: la saggezza buddista gli tornava irresistibilmente alle labbra, e il giovane si guardava intorno sapendo di capire, capendo di sapere, sull’orlo di quelle lacrime sante che sgorgano in certi momenti in cui l’esistenza ha il potere terribile di svelarsi a nudo.