Quella notte anche il mare sul soffitto sembrava agitato. Perfino le pareti della stanza vibravano di una strana inquietudine. L’uomo guardò le stelle marine, sopra il suo capo, che luccicavano in maniera diversa dal solito.
Le asteroidee.
Era stata Milena a rivelargli quel nome così difficile. Gli aveva anche raccontato che, secondo un’antica leggenda, le stelle marine non erano altro che astri caduti nel mare dal cielo. Una stella caduta, per ogni felicità non afferrata. La leggenda raccontava anche che un giorno sarebbero tornate a risplendere in alto, ma solo quando qualcuno fosse riuscito ad afferrare tra le mani una felicità perduta. E a sentire la sua consistenza.
Milena sapeva usare le parole, leggeva libri su libri. E tutto ciò intimidiva l’uomo perché lui, invece, era solo un pescatore e conosceva a stento il linguaggio del mare, le promesse o le minacce contenute nel fruscio delle onde che sussurravano sui fianchi della barca e lo avvertivano se c’era una tempesta in arrivo oppure lo rassicuravano sulla clemenza del tempo. Le stelle marine, per lui, prima di conoscere Milena erano solo piccoli esseri da rigettare in acqua se rimanevano impigliati nelle reti.
Si sposarono in riva al mare, sotto le stelle, quelle non cadute. L’altare ancorato sulla battigia era illuminato dai riflessi della luna e delle candele. E lei era bella come una musica che ogni volta lo coglieva di sorpresa.
«Tu sei una melodia che conosco a memoria, ma che sento sempre per la prima volta», le aveva detto, infatti, mentre le infilava l’anello al dito. E tutti avevano sentito e si erano stupiti, perché quelle non erano le parole di un pescatore, ma di un poeta, di qualcuno che aveva studiato. Non sapevano che fare l’amore con Milena era come leggere tutti i libri del mondo, per lui.
Così, quando Milena gli rivelò di essere incinta, lui non disse nulla. Si limitò a guardarla negli occhi che avevano lo stesso colore del miele, poi si voltò e uscì di casa. Andò a comprare una stoffa che aveva visto qualche giorno prima nella merceria del paese. Era fatta apposta per risplendere al buio, come le stelle: intrisa di una tintura fluorescente, concepita per rivestire giubbotti e giacche di chi lavorava in strada di notte e fare in modo che non venisse investito dalle auto di passaggio. Lui, invece, la ritagliò in mille pezzetti a forma di stella marina. E li incollò al soffitto della stanza che avrebbe ospitato il loro bambino o la loro bambina. Perché la felicità l’aveva già afferrata con le mani. E quindi era giusto che tutte le stelle del mare tornassero in alto.
Si voltò a guardare proprio quel soffitto, quella sera. E quelle stelle gli sembrarono meno luminose del solito.
Quando la porta alle sue spalle si aprì, si voltò e cancellò in un attimo ogni altro pensiero. Vide la giovane levatrice che gli veniva incontro, con un fagottino bianco tra le braccia.
«È maschio…» le sentì dire, con il tono di voce basso e furtivo di chi rivela un segreto.
Lo prese fra le sue braccia e vide subito gli occhi del neonato, quel colore indefinito dell’iride, profondo e imperscrutabile come il mare di notte.
«Angelo…» sussurrò. Era il nome che avevano deciso per lui. O per lei, se fosse nata una bambina.
Poi gli accarezzò il viso, scostò il lenzuolo che lo avvolgeva e vide, sulla spalla del bambino, una piccola macchia rossastra a forma di stella.
«Una voglia…» sussurrò la levatrice.
Lui annuì e sorrise. Ricordò i lunghi mesi della gravidanza di Milena. La stanchezza che leggeva sul suo viso. Le premure nei confronti della moglie: «Cosa vuoi mangiare? Vuoi che ti cucini qualcosa? Di cosa hai voglia?». E lei che sorrideva e guardava in alto, il fondale del mare che luccicava sul soffitto, le stelle marine che erano la loro felicità afferrata a piene mani. «Mi basta guardare le nostre stelle…» rispondeva.
«È una voglia di stella marina», confermò l’uomo e baciò la fronte di Angelo.
Solo allora si accorse che lo sguardo della levatrice era intriso di buio. E sentì il rumore dell’onda provenire dal mare. Si infrangeva sugli scogli e annunciava il dolore.
«Milena non ce l’ha fatta.»
Non capì mai se a dirlo fu la levatrice o il mare.
Capì solo il perché, quella sera, le stelle sul soffitto fossero opache.
Restituì il bambino, come qualcosa che non gli apparteneva già più.
Senza Milena, non gli sarebbe appartenuto più nulla.
Né il cielo, né le stelle, né il mare.
Soprattutto il bambino, che già non aveva più un nome.