5.

La prima sensazione fu la coscienza del buio. Un buio che avvolgeva ogni cosa, anche i pensieri. Poi ci fu il battito del cuore e poi il respiro. Entrambi risuonarono nel silenzio e il silenzio, presto, diventò un ronzio meccanico. Sentì la consistenza della lingua nella bocca e fece scorrere la punta lungo i denti. Raccolse un lieve sapore di amaro e acido. Cercò le labbra, oltre il bordo degli incisivi, e nel trovarle si rese conto che era stato immerso a lungo nell’oblio.

Chi sono e dove sono?

Perfino la domanda sembrava non dipendesse dalla sua volontà. Come se si fosse formulata da sola, priva delle parole che la componevano: un suono senza suono, un labile accenno di un concetto che tardava ancora a definirsi.

«Puoi aprire gli occhi?»

Una voce.

«Riesci ad aprire gli occhi?»

Occhi. Occhi e aprire. Lentamente si riappropriò del significato di quelle due parole e, nello stesso tempo, riprese coscienza di sé. Ancora immerso nel buio, cercò di ricordare il modo per ordinare ai suoi occhi di aprirsi. Sentì le palpebre tremare appena, la pressione delle ciglia serrate. Deglutì il vuoto nella bocca, più volte. Poi avvertì un bruciore dietro la spalla destra, la ferita serrata dai punti chirurgici.

«Mi senti, Marco?»

Marco.

Marco era un nome e lui era Marco. Ricordarlo fu come un secondo battesimo, un riconoscersi improvviso. E insieme al suo nome arrivò un ricordo: il mare che esplodeva per venirgli incontro, la lama di scoglio nel silenzio dell’abisso, l’azzurro che si tingeva di rosso... poi il nulla.

«Marco...» insistette la voce, con dolcezza, in un sussurro.

Gli occhi si aprirono lentamente. Ebbe la sensazione che si animassero da soli, incuranti della sua volontà. Vide le sbarre del letto, le lenzuola bianche, la stanza d’ospedale con le pareti di un verde rassicurante, l’armadietto di metallo alla sua destra. Una luce molto tenue che proveniva dalle sue spalle illuminava un volto che non aveva mai visto prima, un uomo anziano che indossava un camice verde.

«Bravo... mi vedi, ora? Riesci a vedermi?»

Non riuscì a rispondere.

«Chiudi due volte le palpebre se riesci a vedermi...»

Chiuse le palpebre, una, due volte.

«Molto bene. Ora ti toccherò il piede destro, dimmi se senti il contatto della mia mano. Sempre le palpebre chiuse due volte, se è un sì...»

Sentì il contatto della mano estranea sul suo piede destro. Chiuse le palpebre per due volte.

«Molto bene, Marco. Riesci a muoverlo, il piede?»

Marco richiamò a sé, come in un appello, tutto ciò che lui era, dalla testa ai piedi.

Il piede si mosse, le dita si contrassero verso l’alto.

«Benissimo. Puoi sollevare la gamba?»

Mentre la sollevava, vide il sorriso dell’uomo, che si faceva largo tra i baffi grigi e la barba bianca.

«E ora muovi anche il piede sinistro e la gamba, per favore...»

Gli arti obbedirono al suo ordine.

«Benissimo, Marco. Ora potresti muovere la mano destra?»

«Sì...» sussurrò Marco. E si sorprese nel sentire la sua voce risuonare senza che lui ci avesse pensato. Anche lei aveva risposto all’appello.

«Oh, che bel sì! Bravissimo, Marco. Hai visto che piano piano riusciamo a fare tutto?»

Il medico lo guardò con aria soddisfatta, mentre lui sollevava la mano destra e muoveva le dita.

«Ora la sinistra. Va bene? Poi abbiamo finito...»

Sentì il calore del sangue che affluiva al cervello, come per uno spavento o un ricordo improvviso: era come se quella mano fosse sfuggita alla sua attenzione sin dal momento del risveglio, come un ospite che manca a una festa e, solo quando qualcuno lo nomina, ci si accorge della sua assenza. Tutti avevano risposto all’appello, tranne quella mano.

Provò a sollevarla e capì dallo sguardo del medico che non ci era riuscito.

«Se la tocco, senti il contatto della mia mano?»

Il medico poggiò le sue dita sulla mano di Marco, praticò una leggera pressione.

«Sì, lo sento...»

«Bene. Il braccio sinistro riesci a sollevarlo?»

Il braccio sinistro si sollevò appena, poi ricadde sul lenzuolo.

Il medico lo sollevò, lo tastò, chiese a Marco di eseguire alcuni movimenti.

«Non riesci a fletterlo... è il tricipite... Anche le funzioni del polso sembrano compromesse...» disse infine.

«Cosa mi è successo?» chiese Marco, teso.

«Oltra alla ferita alla spalla, ti sei procurato una leggera spondilolistesi, più un colpo di frusta al collo abbastanza violento, ma non è nulla di grave. È per questo che la mano e il braccio non rispondono come dovrebbero...»

Marco impallidì. Cominciò a tremare, assalito da un freddo improvviso.

«Stai calmo, Marco... stai calmo...» sussurrò il medico, «è solo una cosa momentanea. Passerà presto.»

Poi prese un piccolo bicchiere di carta, sollevò con delicatezza il collo di Marco e l’aiutò a bere.

«Questo ti allevierà il dolore», aggiunse, «e ti farà riposare.»

Marco deglutì a fatica. Sentì il liquido dolciastro scorrere nella gola e un leggero sollievo.

«Non devi preoccuparti. Dovrai fare un po’ di fisioterapia, ma vedrai che tutto tornerà a posto.»

Marco annuì, mentre la mente si annebbiava di nuovo. Sentì le palpebre chiudersi lentamente per riportarlo al buio che ora gli sembrava rassicurante come un rifugio. Non oppose resistenza e si abbandonò, di nuovo, all’assenza.

Il corpo del tuffatore è un meccanismo perfetto. Richiede doti di rara padronanza motoria, di eccezionale coordinazione neuromuscolare.

«Deve funzionare tutto alla perfezione, per tuffarti come si deve...» gli aveva detto Virginia, la sera che l’aveva scoperto sul trampolino in piscina. Ora lei era lì, in quella stanza d’ospedale, a guardarlo in silenzio, come se fosse un oggetto rovinato per sempre.

Già dal mattino, la ferita aveva smesso di fargli male, ma la mano sinistra non aveva dato cenni di mobilità e anche il braccio aveva difficoltà a flettersi. Il medico anziano era tornato a visitarlo e l’aveva aiutato ad alzarsi dal letto per un controllo più approfondito. Dopo i primi due passi, sorretto dalle braccia del medico, Marco aveva provato un senso di sbandamento e di vertigine. Era stato come se camminasse su una lama sottile, tesa a mezz’altezza tra una parete e l’altra, in balia di un vento forte. Non era riuscito a mantenersi in equilibrio sulle gambe, la testa gli ronzava e sentiva di aver smarrito quella sensazione di controllo delle distanze dal mondo circostante.

«Da quello che ho capito, hai un leggero slittamento di una vertebra in avanti, mi ha detto il medico...» disse d’un tratto Virginia, rompendo il silenzio, «e poi il trauma al collo...»

Marco la guardò, smarrito.

«Ti è andata bene, sai? Passa tutto...» aggiunse lei.

«Dicono così per farmi stare tranquillo...» rispose Marco, con un filo di voce.

«Ma che dici? Basta che t’impegni con la fisioterapia... tutto qui», ribadì lei. E intanto si scoprì a guardare l’orologio al polso, come se fosse impaziente di andare via.

Marco colse quel gesto e pensò che non l’avrebbe mai più rivista, dopo quella visita di cortesia. E neanche avrebbe più rivisto la piattaforma di un trampolino in tutta la sua vita. Il sogno era finito ancora prima di nascere.

«Almeno smettetela di prendermi in giro. Almeno tu. Io il braccio non lo muovo. E nemmeno la mano...»

«Io non ti sto prendendo in giro. Non sono un medico, però mi hanno detto che devi solo avere pazienza, fare gli esercizi di fisioterapia e torni come nuovo. Anzi, fra un po’ arriva Lara e ci pensa lei a rimetterti in sesto.»

«Lara? E chi è ’sta Lara?» chiese Marco, diffidente.

«È una fisioterapista. Bravissima. Anzi, è la mia fisioterapista. Lavora qui, la conosco da anni, è quella che ci rimette in sesto quando abbiamo qualche problema muscolare.»

«Vuoi dire che... è la fisioterapista della piscina?»

«Sì, esatto... Ti ho fatto portare qui apposta», ammise Virginia.

Marco corrugò la fronte, perplesso. Poi si guardò intorno e fu come se solo in quel momento riuscisse a realizzare di trovarsi in una clinica di lusso.

«Guarda che io queste cose non me le posso permettere...» disse. «Clinica privata, fisioterapista sportiva...»

«Tu non ti devi preoccupare, ho sistemato tutto io. Anzi, è stata Lara a farti dare il ricovero, così passa tutto la ASL», lo rassicurò Virginia.

«Sarà...» sussurrò Marco, poco convinto. «E perché hai fatto tutto questo?»

«Perché mi sento responsabile per quello che ti è successo», rispose Virginia.

Poi esitò.

«E anche perché», aggiunse, «dopo che sono arrivati i soccorsi abbiamo cercato i tuoi parenti per avvisarli e...»

«E hai scoperto che non ce li ho, i parenti...» concluse Marco.

Virginia assentì con un sorriso, come a voler minimizzare, e Marco si sentì sprofondare ancora di più nella sensazione sgradevole di essere diventato oggetto di pena e commiserazione.

«Ti serve qualcosa?» gli chiese Virginia.

«No, grazie. Direi che hai già fatto anche troppo per me», rispose, freddo.

Poi non aggiunse altro.

Virginia attese anche qualche minuto, imbarazzata dal silenzio ostinato di Marco, poi si arrese, lo salutò velocemente e andò via.

Marco guardò il suo braccio sinistro e cercò di sollevarlo, senza riuscirci. Si lasciò andare a un’imprecazione appena sussurrata, poi cercò di riaddormentarsi.

Lungo la corsia, una risata improvvisa e cristallina indicò a Virginia dove dirigersi per trovare Lara e le strappò, finalmente, un sorriso. Pensò che solo Lara riusciva a far ridere in quel modo i suoi pazienti, anche quelli più gravi e invidiò il buonumore che riusciva a trasmettere a chiunque in maniera contagiosa.

Si affacciò sulla soglia della stanza proprio mentre Lara osservava una donna anziana che muoveva dei passi stentati aiutata da un deambulatore a rotelle.

«Vai, Annalisa... non solo sei tornata bambina, ma sculetti pure come una modella... Chi vuoi conquistare? Hai messo gli occhi sull’infermiere giovane, eh? Te possino...» le sentì dire, mentre la donna continuava a ridere, divertita.

Poi Lara si voltò verso la porta e la vide.

«Virginia», le disse, sorridendo, «vieni, entra...»

«Se disturbo passo più tardi...» rispose Virginia, esitando sulla porta.

«Abbiamo quasi finito, tranquilla. Annalisa è una macchina da guerra, oltre che una che spezza i cuori ai giovanotti», incalzò Lara, indicando la donna anziana che si schermì con un gesto civettuolo.

Poi fece un cenno alla sua paziente, ammiccando.

«Fai un altro giro, io torno subito. Però non ti allontanare troppo, eh?» aggiunse, ironica.

La donna rise di nuovo, ricominciando a muovere piccoli passi verso la finestra, avvinghiata al deambulatore.

Lara uscì nel corridoio, appartandosi con Virginia

«Quando finisco il giro della mattina vado dal tuo amico...» la rassicurò.

«Grazie. Però... ricordati che non gli devi dire che l’ho fatto ricoverare qui a mie spese. Mi sembra uno orgoglioso, forse anche troppo. Rischiamo che si dimette a forza», le confessò Virginia.

«Per questo ti piace? Perché è capa tosta, come diciamo dalle mie parti?» insinuò Lara, con un tono confidenziale e materno.

«Ma che dici», si difese Virginia, «te l’ho spiegato che...»

«Sì, sì... è orfano, ti senti responsabile... ho capito», la interruppe Lara, «comunque stai tranquilla, gli diciamo come stabilito: paga tutto la ASL e speriamo che creda anche all’Uomo Ragno e ai folletti dei boschi... E poi ci penso io a rimetterlo in sesto. Non è grave come si poteva pensare appena è arrivato, per fortuna.»

«Davvero? Sei sicura?» chiese Virginia, assetata di conferme.

«Ti ho mai mentito?» chiese a sua volta Lara, ammiccando.

Virginia scosse la testa.

«No. Tu non mi ha mai mentito...» confermò.

Poi se ne andò, rassicurata.

Nel cielo, lentamente, le nuvole furono spazzate via dal vento, dileguandosi verso le pianure interne. I raggi del sole pomeridiano penetrarono a taglio nella stanza, filtrando attraverso le tapparelle abbassate. Marco sentì appena l’aria smossa dalla porta che si apriva.

Poi la vide entrare, attraverso le palpebre socchiuse. La seguì con lo sguardo mentre, di spalle, si avvicinava alla finestra e tirava su le tapparelle a metà. Era una donna matura, i capelli neri e mossi le arrivavano all’altezza delle spalle, il camice bianco nascondeva il corpo sinuoso, un po’ appesantito sui fianchi. Quando si voltò, Marco vide il viso rotondo e gli occhi neri. Non l’aveva mai vista prima e sperò che si trattasse della fisioterapista amica di Virginia.

La donna gli sorrise e avanzò verso il letto, poi si mise a sedere sulla sedia accanto al comodino. Prese la cartella clinica di Marco e cominciò a leggerla con attenzione.

«Allora vediamo un po’... Marco Innocenti...»

Esitò per un attimo, come se un pensiero improvviso le attraversasse la mente. Continuò a leggere la cartella, poi, finalmente, lo guardò negli occhi, come a scrutarlo.

«Che dici, Marco? È ora di darsi una mossa? Ci vogliamo rimettere in sesto?»

Marco la guardò, perplesso. Lei gli prese la mano sinistra tra le sue, la tastò a lungo.

«Il contatto lo senti, vero?»

Marco annuì appena, mentre lei passava a tastargli l’avambraccio.

«Vediamo di non perdere la tonicità e mettiamoci subito al lavoro. A proposito, io mi chiamo Lara e sono la tua fisioterapista. Ora tira con forza la mia mano...»

«Non ce la faccio.»

«Prova, poi ti dico io se ce la fai o no...»

Marco sospirò, senza riuscire a nascondere un moto di fastidio. Si sentiva stanco e svogliato. Ma soprattutto non voleva crearsi false illusioni. All’improvviso, era come se il suo stato in qualche modo lo rassicurasse e lo ponesse fuori da ogni tipo di gara con la vita, immerso in una rassegnazione che gli dava pace.

Accennò un timido tentativo di tirare la mano di Lara che stringeva la sua, poi desistette subito.

«Non ce la faccio», disse, evitando il suo sguardo.

«Non ci hai neanche provato, Marco. Non va bene così», disse Lara, fissandolo con severità.

Lui non rispose.

«Riproviamo», lo incitò.

Marco sbuffò.

«Tanto è inutile, la mano non funziona, il braccio non funziona...»

«E noi siamo qui per far rifunzionare tutto.»

Per tutta risposta, Marco chiuse gli occhi. Sentiva una rabbia sorda montargli dentro nei confronti dell’insistenza di Lara, come se provare a farlo guarire fosse un affronto, un dispetto gratuito.

«Perché non mi lascia in pace?» le disse, con gli occhi ancora chiusi.

«Perché questo è il mio lavoro. E perché me l’ha chiesto Virginia», rispose lei, ammiccando in modo buffo.

«Bene, allora avrai altra gente da miracolare. Vai da loro», incalzò Marco, passando sgarbatamente a darle del tu.

«Con gli altri ho già finito e sono tutti già morti di fatica. Mo’ devo tormentare te, mi dispiace. E comunque non c’è nessun miracolo da compiere, ragazzino. Devi solo lavorare per rimetterti in sesto prima possibile. Quindi poche storie e cerchiamo di metterci d’impegno.»

«Non mi va. E non mi puoi costringere.»

Lara sospirò, assunse un tono sincero.

«Guarda che io sono un po’ strega, eh? Le persone le inquadro con una sola guardata. Mo’ ti dico... Tu hai paura di provare perché pensi che non riuscirai a guarire. Non è vero? Hai visto? C’ho azzeccato? Non l’ammetterai mai, ma ci ho azzeccato. Però mi devi credere se ti dico che non è così. Ti sbagli.»

Marco aprì gli occhi e la guardò, colpito, senza riuscire a rispondere. Cosa avrebbe potuto dirle? Che aveva ragione? Che aveva colto nel segno? Che quella voglia di dormire e annullarsi non era altro che il terrore di non tornare più il ragazzo di prima? Sentì il pianto affiorare, cercò di frenarlo, ma alla fine scoppiò in lacrime.

Lara gli accarezzò i capelli, materna.

«Non abbiamo ancora cominciato e già piangi?» sussurrò, cercando di farlo sorridere, mentre gli asciugava le lacrime con le mani. «E allora che farai quanto ti prenderò a sculacciate se non fai come ti dico?»

Marco scosse la testa, tirò su col naso, scostando le mani della donna dal suo viso con la mano destra.

«Tanto lo so che è inutile.»

«Ancora? Ma allora sei proprio capa tosta! Meridionale come me?»

«Non lo so», rispose Marco.

«Come sarebbe? Sei orfano, questo lo so... ma dovresti sapere dove sei nato.»

«Non sono orfano. Non li ho persi, i genitori. Non li ho mai avuti. Cioè, non so neanche se li ho avuti ma non me ne frega niente. Loro non mi hanno voluto, io non voglio loro. E quindi non lo so, dove cazzo sono nato davvero e manco lo voglio sapere.»

Lara lo guardò, in silenzio. Pensò al suo passato, alla ferita al cuore che ancora si trascinava dietro e non accennava a rimarginarsi, tanto da metterla in allerta ogni volta che qualcosa, un gesto o una frase, potesse ricollegarsi al momento più triste della sua vita.

«Sei stato in istituto?»

Marco annuì.

«I primi anni. Poi tre volte in affido...» disse, «e poi sono diventato maggiorenne.»

«E sei rimasto solo...» aggiunse Lara, amareggiata.

«Ho i miei amici, non sono solo», replicò lui, con una punta di orgoglio.

Lara sorrise.

«Bene... allora facciamo vedere a questi amici che sei in grado di rimetterti in piedi e tornare come prima a tempo di record?»

«E se poi non ce la faccio?» chiese lui, smarrito.

Lara lo guardò e gli sorrise.

«Se non ce la fai, riproviamo. E riproviamo ancora. E ancora e ancora. E alla fine ti prendo a calci nel sedere e vedrai che ci riesci. Che ne dici?»

Marco si scoprì a sorridere. Lara non perse tempo, gli afferrò la mano sinistra e la strinse forte.

«Ora stringimi la mano, più forte che puoi.»

Il volto di Marco si contrasse nello sforzo. Ma la sua mano non riuscì a serrare quella di Lara, neanche in maniera impercettibile.

«Non ti scoraggiare è normale. Ora ti afferro il braccio e tu tiri verso di te, va bene?»

Marco emise un lungo sospiro. Lei gli afferrò l’avambraccio, lo strinse tra le sue mani.

«Dai, tira! Tira verso di te...»

Un piccolo movimento impercettibile e il volto di Lara si illuminò.

«Va benissimo così, Marco. Va benissimo...»

«Ma se neanche si è mosso...»

«Si è mosso, l’ho sentito», replicò lei, sicura.

«Mi prendi per il culo...»

Lara lo guardò, severa e Marco abbassò lo sguardo.

«Scusa...» disse in un soffio.

Lara abbozzò un sorriso materno. Quel ragazzo le suscitava un senso di tenerezza e di allarme allo stesso tempo. Nel momento in cui gli aveva afferrato la mano, aveva sentito una strana familiarità, come se quel contatto fosse già avvenuto in precedenza. Aveva avvertito il profumo della propria giovinezza, qualcosa di languido e doloroso, che da tempo non sentiva riaffiorare.

«Devi fidarti di me...» gli disse, guardandolo negli occhi, «e smettila di aver paura di non guarire, perché ti assicuro che hai solo un paio di traumi di poco conto. Ne ho rimesse a posto in poche settimane di persone che avevano la tua stessa spondilolistesi. Però ti farò faticare molto, ti chiederò di sforzarti al massimo delle tue capacità... Proverai dolore, qualche volta. Ma dovrai fidarti, perché voglio solo vederti guarito. È chiaro?»

Marco sospirò, evitò lo sguardo di Lara e poi accennò un «sì» poco convinto. Lei lo vide guardare al di là dei vetri, come se cercasse un luogo lontano, dove nessuno potesse raggiungerlo.

Si alzò e raccolse la cartella clinica.

«Ci vediamo domani...»

Marco non rispose. Lei uscì dalla stanza e sentì il peso di ogni passo che l’allontanava da quel ragazzo.