Scese la sera e, lungo la strada, Lara avvertì la prepotenza dell’estate che alitava il suo calore in ogni angolo della città. Il sorriso che in ospedale mostrava come un vessillo era sparito, insieme all’allegria ostentata e all’ottimismo da regalare a chi le stava intorno. La busta della spesa era un carico leggero e, proprio per questo, testimoniava la pesantezza del vivere da sola. Aprì lo sportello dell’auto, posò la busta sul sedile posteriore e, prima di sedersi al posto di guida, catturò con lo sguardo l’insegna luminosa di una tavola calda. Alcuni tavoli erano già occupati da ragazzini che chiacchieravano tra loro, con la spensieratezza stampata sui volti; al tavolo accanto alla vetrina, due genitori osservavano i figli alle prese con cartocci di patatine fritte e bibite ghiacciate. Lara decise di aver bisogno di sentirsi immersa nella vita degli altri, almeno per quella sera, almeno per una volta non più sola con i suoi pensieri e il silenzio scomposto delle parole che provenivano dal televisore.
Entrò nel locale e prese posto a un tavolino libero. Si guardò intorno, un po’ spaesata: da quanto tempo non cenava fuori casa? E che impressione avrebbe fatto agli altri una donna sola, dall’aria stanca, seduta accanto alla propria nostalgia?
Due ragazzi, poco distanti da lei, si baciarono senza pudore, come se intorno nessuno potesse vederli. Lara si scoprì a guardarli con insistenza, di sottecchi, come se non volesse disturbarli con la sua attenzione.
Le venne in mente il mese di settembre di alcuni anni prima. Una trattoria appena fuori porta, lo sguardo di Domenico mentre le teneva la mano, il vino bianco freddo che imperlava i bicchieri e loro due che si guardavano come aspiranti soci in una trattativa complicata. L’aveva conosciuto per caso, nella corsia dell’ospedale. Aveva la sua stessa età ed era solo come lei. Lara aveva rimesso in sesto la spalla destra della sorella di Domenico e lui, per ringraziarla, l’aveva invitata a cena. Era una scusa, lei lo sapeva bene, così come sapeva che i lunghi sguardi silenziosi dei giorni precedenti, tra una risata e l’altra, avevano creato tutti i presupposti per provare a dare un taglio alle rispettive solitudini.
Quella sera, Lara si era ascoltata ridere come non le accadeva da tempo. Rideva per sé stessa, per ciò che stava accadendo e non più solo per risollevare l’umore dei pazienti, le guance avvampate dal vino e da un desiderio nuovo. Finita la cena, Domenico l’aveva accompagnata a casa e lei, prendendo tra le mani tutto il coraggio che aveva, l’aveva invitato a salire per un ultimo bicchiere.
Il primo bacio, le spalle poggiate alla porta d’ingresso appena chiusa, era stato dolce e pastoso. Lara aveva assaporato tra le labbra la promessa di giornate diverse, di un percorso da affrontare insieme. Poi l’aveva condotto verso il divano e si era distesa sopra un velo di euforia e di speranza. Domenico si era inginocchiato davanti a lei e l’aveva guardata come si guarda la luce alla fine della galleria. Le mani avevano cercato i suoi seni, li avevano stretti come a volerli proteggere da qualunque dolore. I primi bottoni della camicetta si erano aperti come se fosse la cosa più naturale al mondo.
Poi.
Poi lei aveva sentito il vento che profumava di mare. E le mani di Lui sovrapporsi alle mani di Domenico. Gli occhi di Lui oscurare quelli di Domenico. La Sua voce sovrastare quella di Domenico. Le Sue spalle allargarsi sulle spalle di Domenico fino a diventare le ali di un volo che, in un solo attimo, l’aveva portata via da quel divano, da quella stanza, da quel presente, da qualunque promessa. Capì che Lui, pur non avendola mai sfiorata, l’aveva già posseduta per sempre, sin da quando era una ragazzina, condannandola a provare, senza di Lui, nient’altro che piaceri imperfetti. E allora il suo sguardo si era riempito di una tale disperazione che Domenico se n’era accorto e aveva staccato la mani dai suoi seni.
Lei non era riuscita a fare altro che scuotere la testa, come a negarsi per sempre.
«So aspettare...» aveva sussurrato Domenico.
«Sarebbe inutile. Non voglio crearti illusioni», aveva risposto lei, sincera e disperata.
Allora lui si era rialzato ed era uscito di casa senza dire una parola.
«Ha già scelto?»
La voce della cameriera distolse Lara dai suoi pensieri. La fissò, smarrita, come se solo in quel momento si fosse resa conto di trovarsi seduta al tavolo, tra tanta gente estranea. La cameriera le sorrise, come se avesse capito. Aveva, forse, la sua stessa età, forse lo stesso dolore, quel dolore che le donne sentono in silenzio, che accolgono come un passeggero del loro stesso viaggio, a cui si appoggiano, spesso, come a un sostegno per andare avanti e non fermarsi nel guado della rassegnazione. E lo stesso buonumore di facciata, quello da usare al servizio degli altri, come un lavoro, come una pena da espiare.
«Le crocchette di gamberi sono squisite...» disse la cameriera sottovoce, come se suggerisse la risposta giusta durante un esame.
Lara assentì. E ricambiò il sorriso.
Nel buio, Marco cercava di dimenticare il braccio e la mano, immobili. Implorava il sonno che non arrivava, nonostante i sedativi. Accese la luce sul comodino e fissò in silenzio l’arto che sembrava non appartenergli più. Si domandò come fosse possibile che rifiutasse di obbedire a quegli stessi ordini che, fino a pochi giorni prima, venivano eseguiti con naturalezza, senza il bisogno di pensarci. Si sforzò di chiudere la mano, di imprimerle almeno un piccolo movimento. Ma la sua immobilità assoluta lo sorprese ancora una volta. La tastò con la destra e la sensazione tattile che scorreva dall’una all’altra mano gli regalò un piacere e una speranza.
“Almeno il contatto lo sento”, pensò, “almeno quello...”
Fece scorrere le dita della mano sana lungo l’avambraccio sinistro, fino all’incavo del gomito, poi proseguì, fino alla spalla. Tentò di sollevare il braccio e, nonostante lo sforzo, si rese conto che era un tentativo inutile. Rabbrividì nel capire che, fino a quel momento, si era temprato a mille forme di dolore, dal tradimento all’abbandono, dalla solitudine alla paura. Perfino all’assenza dei genitori e allo straniamento del non sapere chi fossero, si era abituato. Ma al tradimento e all’abbandono di una parte del suo corpo non era affatto pronto e forse non lo sarebbe mai stato.
“La tua mano è la tua mano, il tuo braccio è il tuo braccio”, pensò, “com’è possibile che se ne vadano da un’altra parte? Allora è meglio perderli del tutto, un taglio e via, almeno ti rassegni...”
Quell’ultimo pensiero lo atterrì: la rassegnazione non gli era mai appartenuta, nemmeno nei momenti più difficili. Ora, invece, si stava davvero insinuando dentro di lui, aveva trovato la sua tana in quella mano e in quel braccio che sembravano sordi alla vita.
Cercò il suo cellulare sul comodino e chiamò Aldo.
«Ho bisogno di una canna... ma una canna seria», sussurrò appena sentì la voce del suo amico.
Al terzo tiro di marijuana, la vita smise di arrotolarsi e aggrovigliarsi in modo strano e si spianò davanti agli occhi, languida e luccicante come un tappeto srotolato in discesa.
La finestra spalancata lasciava entrare il vento leggero della notte e la vodka da discount faceva il suo dovere precipitando ruvida lungo la gola.
Aldo era entrato di soppiatto nell’ospedale, dopo una lunga attesa e un lungo appostamento nella corsia, approfittando dell’uscita di due infermieri che avevano lasciato la porta del reparto socchiusa. Anche il timore di essere sorpresi mentre fumavano si era tramutato in una strana ebbrezza disperata, dopo il secondo spinello.
Aldo aveva un’espressione stralunata e felice, le pupille dilatate sembravano saettare nella penombra, mentre fissava Marco come se volesse metterlo a fuoco.
«Ma lo sai che io ho sempre voluto essere come te?» disse d’un tratto, strascicando le parole.
Marco lo guardò, sorpreso.
«Eh?»
«Sì, proprio così... però mi sa che non ci riesco, non ci riuscirò mai...» incalzò Aldo, dopo aver tracannato un altro sorso di vodka.
«Ma che dici?» disse Marco, con un sorriso ironico.
Aldo annuì, facendogli cenno di attendere, come per darsi il tempo di riordinare le idee.
«A parte il fatto che mi taglio i capelli come fai tu... cioè, tu cambi taglio, no? E allora lo faccio pure io... certe volte mi accorgo che provo perfino a parlare, come fai tu...»
«Piantala, Aldo... lo so che mo’ mi vuoi consolare, però mi pare una dichiarazione d’amore...» lo interruppe Marco, in imbarazzo.
«No, no, aspetta, mica ho finito... Lorena, per esempio... m’è sempre piaciuta, no? E con chi si mette? Con te...»
«Seee, e poi m’ha mollato...»
«Ecco, a me invece m’ha dato direttamente picche, così manco la soddisfazione di farmi lasciare...» ammise Aldo, con un sorriso amaro.
«Ma davvero?»
«E che scherzo? Siamo usciti un paio di volte e sai che ha fatto? Mi parlava di te... che fa... con chi esce... sta con qualcuna... secondo me c’ha pure ripensato...»
«Non credo...»
«E vabbè, intanto appena mi so’ fatto avanti m’ha stoppato...»
«Capita...»
«Non ho finito...» aggiunse Aldo e deglutì, come a cercare il coraggio di continuare.
«Be’?» lo incalzò Marco, incuriosito.
«Tre giorni fa... sono andato alla piscina, quella... quella dove lavori tu...»
Marco strabuzzò gli occhi, sorpreso.
«Lavoravo, vuoi dire...» aggiunse, amaro.
«Appunto...» disse Aldo, «visto che mo’ devi stare a riposo... insomma, ho pensato che magari mi prendevano al posto tuo... sai com’è, un lavoretto mi farebbe comodo...»
«E...?»
«E m’hanno preso in prova», ammise Aldo, con qualche difficoltà.
«Be’... mi fa piacere...» sussurrò Marco, perplesso.
«Mi sa che ho visto pure quella che ti piace... Virginia si chiama, no? Ammazza... altro che bona, quella è uno sballo che cammina. Avevi ragione...»
«Sì, ma stai buono... mo’ non c’è bisogno che mi imiti pure con lei.»
«Non c’è problema... visto che solo dopo due giorni già m’hanno cacciato.»
«E come mai?»
«Ma niente... c’era un accappatoio appeso, no? Ce n’erano tanti... però quello era proprio fico... verde chiaro, una bella spugna, pesante...»
«Non me di’ che te lo sei fregato...»
«C’ho provato... ma lo zaino era troppo piccolo... è uscita una manica... penzolava come un pendolo... io non me ne so’ accorto e il pelato m’ha cioccato...»
Marco non riuscì a trattenere una risata. Aldo lo seguì a ruota. Entrambi risero di un riso liberatorio e disperato allo stesso tempo.
«Sei proprio stronzo...» commentò Marco, le lacrime agli occhi.
«Pure a ruba’ sei più bravo tu...» replicò Aldo, aspirando un altro tiro di spinello, «e comunque fatto sta che la prossima settimana parto.»
Marco lo guardò, sorpreso.
«Me ne vado a Monaco, da mio fratello... pare che m’ha trovato un lavoretto al ristorante dove sta lui...»
Marco non riuscì a mascherare il suo smarrimento.
«Eh? E con la casa come si fa? Io mica posso pagare tutto l’affitto da solo...»
«Lo so, mi dispiace. Troverai qualcun altro... una soluzione si trova...»
«Una soluzione un paio di palle! Io ho finito i soldi e al lavoro chi lo sa quando ci posso andare...» esclamò Marco, alterato.
«Ho capito... che ti devo dire? Mica posso perdere quest’occasione, mio fratello mi aspetta, mi ha trovato un posto, che faccio? Gli dico che non posso perché prima devo trova’ un sostituto che paga mezzo affitto? Oh, e comunque grazie per la considerazione, eh? Ti dispiace che parto solo per l’affitto, mica per me», disse Aldo, risentito.
«Hai ragione, scusa... e comunque mi dispiace davvero che te ne vai...» sussurrò Marco, conciliante, «cioè, però sono contento per te, te la meriti un’occasione, anche se mi lasci nella merda... e da solo.»
«Seee... mo’ non mi dire che ti mancherò, che tanto non ci credo...»
«Sì che mi mancherai... e che cazzo, sei l’unico amico che c’ho...» ammise Marco.
«Se il pelato mi ha denunciato, c’ho la recidiva, Marco... la volta che mi beccarono alla Conad col trancio di prosciutto e il Brunello sotto il piumone, ti ricordi?... Ecco, insomma, va a finire che stavolta mi schiaffano in galera. Devo partire per forza...»
«Ma figurati se il pelato ti denuncia per un accappatoio. Sembra sempre incazzato, ma è una brava persona. E poi l’hai restituito, no? Ti ha licenziato, storia chiusa.»
Aldo accennò una smorfia ironica e amara.
«Se resto qua, prima o poi in galera ci finisco... lo sai tu e lo so io... e io non m’accontenterò mai di questa vita di merda...»
Marco annuì, pensieroso.
«Neanche tu ti devi accontentare...» disse Aldo, serio.
Marco lo guardò a lungo e sentì l’euforia da spinello e vodka dileguarsi nel verde sbiadito delle pareti.
«Guarda come so’ ridotto e dimmi se vorresti essere ancora come me...» gli chiese, infine, con un filo di voce.
«Certo che sì...» rispose Aldo, dopo una breve esitazione, «anche perché al massimo un mese e starai come prima...»
«Le bugie da un amico io non me le merito», replicò Marco, duro.
«Mica ti ho detto una bugia... è quello che dicono i medici.»
«Vatti a fida’ di quelli...»
Aldo abbassò lo sguardo.
«Meglio se vado... con la iella che mi ritrovo, va a finire che ci scoprono e sono guai per tutti e due...»
Poi raccolse le sue cose in silenzio.
«Io a te non ti saluto, ok? Non mi so’ mai piaciuti gli addii...» disse avviandosi verso l’uscita.
Marco annuì, come se Aldo potesse ancora vederlo.