12.

Sotto il riflesso della luna i limoni nel cortile sembravano mille lanterne gialle. Splendevano tra il verde delle foglie e i rami attorcigliati come nodi difficili da sgrovigliare. Marco, seduto sulla carrozzina, li osservava in silenzio e intanto sentiva l’euforia del vino. Durante la cena, Giuseppe non aveva fatto altro che riempirgli il bicchiere incoraggiandolo a bere e, tra un sorso e l’altro, gli aveva raccontato le storie nascoste nel sapore e nel profumo del vino: i raggi del sole che avevano viaggiato fino a raggiungere la buccia dell’uva per farla maturare, la terra che aveva nutrito le radici dei vitigni con l’acqua rubata alle falde collinari, le mani del contadino che avevano palpato gli acini con cautela, il vento che aveva forgiato i grappoli all’arte della resistenza e dell’appiglio, la luna che aveva stabilito il tempo giusto per la vendemmia, gli occhi che avevano riconosciuto i requisiti di ogni grappolo raccolto, la guerra impietosa della spremitura e il riposo del mosto nel ventre dei tini, il brontolio silenzioso della seconda fermentazione dentro le botti antiche, all’ombra e al fresco delle cantine. Mentre Giuseppe raccontava, Marco si era ritrovato a galleggiare in un senso di pace e di accoglienza che gli aveva riscaldato il cuore. Era affascinato dalle mani del padre di Lara, quel suo modo di afferrare il pane e tenerlo nel palmo mentre lo affettava come se compisse un rituale sacro, quell’innalzare il bicchiere al cielo per ammirarlo in trasparenza prima di ogni sorso. Ma ora la sua attenzione era completamente rivolta verso quel cielo di limoni sostenuto dai tronchi degli alberi e il verde delle piccole piante di malvarosa che punteggiavano i contorni del cortile. Il tutto continuava a dargli un senso di familiarità e, allo stesso tempo, di pericolo. Ne era attratto, tanto da non riuscire a staccare lo sguardo da quell’ampio rettangolo che lo separava dalla casa di fronte, eppure provava il tipico fastidio, mentre si domandava dove avesse già visto tutto ciò, di chi non riesce a ricordare il nome di una persona o di un luogo e continua a tormentarsi invano.

Lara e Giuseppe finirono di sparecchiare, poi lo raggiunsero in cortile insieme a Rosa. Si accomodarono su una panchina di pietra, accanto a lui, nel profluvio di profumi delle piante di basilico.

«Domani cominciamo a lavorare...» disse Lara, poggiando una mano sulla spalla di Marco, e il ragazzo annuì appena. Poi si voltò a guardarla.

«Io questo cortile l’ho già visto...»

Lara e Giuseppe si guardarono, sorpresi e preoccupati.

«Ma sei sicuro?» chiese Lara.

«Non mi ricordo dove e quando... ma ho avuto questa sensazione appena siamo arrivati...»

«Eh, ma questo mi succede pure a me...» intervenne Giuseppe, «certe volte faccio delle cose e mi sembra che già le ho fatte, uguali uguali... e non mi riesco a capacitare... Addirittura mi succede che qualcuno mi dice una cosa e io so già tutto il discorso che mi vuole fare...»

«Sono solo dei déjà-vu...» disse Lara, annuendo.

«Non lo so chi sono... però mi succede veramente...» rispose Giuseppe.

Marco e Lara risero di gusto e Giuseppe li guardò, stranito.

«Cos’ho detto di male?» chiese a Lara.

«Non hai detto nulla di male, papà... non ti preoccupare. È solo che quando uno ha la sensazione di aver visto o sentito qualcosa, si dice che ha avuto un déjà-vu...»

«Ah, ecco... e allora io ne aggio avuto ’nu sacco di questi cosi come dici tu...» aggiunse Giuseppe, sorridendo.

«Quando vuole fare lo gnorri, non lo batte nessuno...» commentò Lara, divertita.

Giuseppe diventò serio, guardò sua figlia con una punta di commozione improvvisa.

«Te lo ricordi ancora? Quando scherzavamo insieme?» le chiese, sorpreso.

Lara gli accarezzò il viso e lesse la nostalgia nei suoi occhi.

«Io ricordo tutto, papà... ogni momento insieme... con te e con mamma... Non c’è un giorno che non ricordi...»

«E non ti è mai venuta voglia di tornare...»

Marco guardò Lara abbassare gli occhi, turbata.

«Mille volte. Non sai quanto. Ma non potevo... non me la sentivo proprio...» ammise Lara. «Ma lasciamo stare questi discorsi... Poi va a finire che Marco si annoia...»

Marco fece un gesto come a rassicurarli del contrario, ma Giuseppe annuì.

«Hai ragione... e poi magari sarà pure stanco, ’stu guaglione... adesso prepariamo il letto e...»

«Cosa si prova quando una figlia se ne va?» lo interruppe Marco, d’improvviso.

Lara e Giuseppe si guardarono, sorpresi.

«Te lo chiedo perché i miei genitori non mi hanno voluto... vorrei sapere cosa si prova...» insistette Marco.

Giuseppe esitò, guardò Lara, poi Rosa che fissava il buio del cortile, assente.

«Che ti devo dire, ragazzo mio... Si provano tante cose che ti puoi immaginare: tristezza, dolore... ti fai tante di quelle domande, cerchi di capire se sei tu che hai sbagliato qualcosa... Ma poi a un certo punto te ne fai una ragione e lo sai perché? Perché l’unica cosa che t’importa è che lei sta bene, che sta facendo quello che vuole... o perlomeno che ci sta provando. E speri che è veramente così, che ha trovato la sua strada. Poi ti attacchi ai ricordi, ci pensi e ci ripensi... e ti metti a immaginare cosa fa, se casomai si decide a tornare... Immagini. Speri, perché ti fa bene. E capisci che a un certo punto, pure la speranza è piena di ricordi. Forse certe speranze sono fatte proprio di ricordi... Se i ricordi sono brutti, la speranza è una speranza amara, che ha un sapore brutto. Ma se i ricordi so’ belli... e allora pure tu ti fai le fantasie più belle... e aspetti. Aspetti domani... aspetti un altro giorno... e trovi la forza di alzarti dal letto ogni mattina...»

Lara aveva chiuso gli occhi, mentre ascoltava suo padre. Li aveva chiusi e poi serrati con le dita, come se il buio potesse farle assorbire meglio le parole.

«E poi ci stanno persone che vanno via... e persone che si perdono», continuò Giuseppe. «E io a mia moglie l’ho persa, anche se sta qua. La vedi? Manco mi riconosce, neanche sa di che parliamo... ci sta, ma è come se non ci stesse più. E questa è la cosa più triste, perché come vedi... mia figlia se n’è andata, ma mo’ è tornata. E chi lo sa, magari ritorna un’altra volta... Quella è Rosa, invece, che non torna più...»

Lara riaprì gli occhi con uno sguardo amaro, mentre Marco annuì, scosso. Insieme guardarono Rosa che osservava le sue mani, in silenzio.

«È vero, Rosa? Che dici, tu, eh?» disse Giuseppe, per stemperare la commozione.

Rosa si voltò a guardarlo.

«Ti ho mandato una lettera e manco mi hai risposto», disse, impassibile.

«E vabbuo’, scusami... Mo’ domani prendo e ti scrivo pure io...» rispose Giuseppe.

Rosa annuì, tranquilla.

«È fissata, con ’sta lettera... ogni tanto dice che ha scritto, ma nessuno sa che vuole dire. Ma forse non vuole dire proprio niente... chi sa quale fantasia tiene dentro la capa...» concluse Giuseppe.

Lara annuì, malinconica, poi, come riallacciando un pensiero, si rivolse a Marco.

«Comunque... ti posso assicurare che chi abbandona un figlio lo fa con dolore... oppure per colpa del dolore...» aggiunse, allusiva. «E in ogni caso, quello che ti è successo non è stato per colpa tua, ne sono sicura...»

In quel momento, una finestra della casa di Antonio si illuminò e la sua figura apparve attraverso il vetro tagliando la stanza con passo lento.

Lara lo vide e non riuscì a mascherare un brivido, strinse le sue spalle tra le mani, come attraversata da un freddo improvviso. Anche Marco e Giuseppe seguirono con lo sguardo il passaggio di Antonio che, d’un tratto, si fermò e guardò verso di loro.

Giuseppe sollevò una mano in segno di saluto e Antonio ricambiò con un gesto secco e frettoloso, poi sparì dalla loro vista.

«Che mi stavi dicendo di quell’uomo? Che si era sposato con una di fuori e poi?» chiese Marco, d’istinto.

Lara guardò suo padre come a supplicarlo di aiutarla a mantenere il «loro» segreto e Giuseppe trasse un sospiro.

«Niente d’importante. È rimasto solo e si è chiuso nel silenzio. Tutto qui. La mattina lavora, torna a casa, non parla con nessuno. E a stento saluta. Pure a me, che gli ho salvato la vita...»

Lara si voltò di scatto a fissare suo padre, allibita.

«Come... come sarebbe?» chiese, con un filo di voce.

Giuseppe si accorse di aver parlato troppo, guardò verso il cielo di limoni e foglie, imbarazzato. Poi raccontò di quella volta che lo aveva visto disteso sul pavimento, i polsi tagliati, la macchia di sangue che si allargava, densa sotto il suo corpo.

«Ho sfondato la porta e l’ho portato al pronto soccorso. L’hanno riacchiappato per un pelo. E quello mo’ ce l’ha pure con me... come se gli avessi fatto ’nu dispetto», concluse, sbrigativo.

Lara volse lo sguardo verso la finestra di fronte, che era rimasta illuminata.

«Perché non me l’hai detto?» domandò a suo padre, ferita.

«E che te lo dicevo a fare, figlia mia? Non ci ho pensato...» mentì Giuseppe.

E Lara capì che aveva solo cercato di evitarle un altro dolore. L’uomo la guardò, come se avesse letto nei suoi pensieri e annuì appena. Poi si rivolse a Marco, per cambiare discorso.

«Comunque... tu pensa a guarire, guaglio’, che sei giovane e hai tutta la vita davanti... e, modestamente, stai in buone mani: quella mia figlia lo sa fare bene, il suo lavoro. Hai capito?»

Marco non rispose: in quel momento, la luce si spense all’interno della casa di Antonio, sentì il rumore improvviso del mare che si infrangeva sulla scogliera lontana e rabbrividì.