14.

Arrancando, Marco e Lara arrivarono al centro del paese e si diressero verso un bar. Lara aveva sospinto la carrozzina lungo tutta la salita e Marco aveva cercato di aiutarla accompagnando in avanti la sola ruota destra, visto che l’altro braccio non aveva forza. Ma in questo modo la carrozzina sterzava a sinistra e ogni volta dovevano rimetterla in carreggiata. Alla fine, Marco aveva rinunciato a spingere la ruota e Lara si era sobbarcata tutta la fatica del tragitto, fermandosi di tanto in tanto a riprendere fiato e a bere un sorso d’acqua.

Lungo la strada, erano passati accanto al porto, assaporando la brezza marina e il languido sciabordio delle barche ormeggiate. D’un tratto, Lara aveva rallentato il passo e si era fermata accanto a un rimessaggio, fissando un punto davanti a sé come se avesse avuto una visione. Marco si era accorto che la donna stava guardando un vecchio peschereccio rosso e blu, la vernice ormai stinta, ricoperto da un telone. Nei suoi occhi si leggeva una forte emozione, a stento celata.

«Perché guardi quella barca?» le aveva chiesto.

«Niente... mi ricorda quand’ero giovane. Tanti anni fa...» aveva risposto Lara.

«Era di tuo padre?»

«Mio padre ha sempre fatto il contadino.»

Marco l’aveva guardata con aria interrogativa e Lara aveva scrollato le spalle, come a voler cambiare discorso.

«Ci beviamo un caffè, ti va?» gli aveva chiesto, riprendendo il cammino dopo aver accarezzato i fianchi rotondi del peschereccio con lo sguardo. O con la memoria.

Quando raggiunsero il bar, scelsero un tavolino all’ombra. Lara si lasciò andare su una sedia, stremata, dopo averne spostata un’altra per far posto a Marco con la carrozzina. Arrivò un cameriere e ordinarono due caffè. Poi, insieme al profumo della malvarosa e al vento leggero che veniva dal mare, Marco sentì uno sguardo su di sé. Si voltò e vide Agnese, seduta a un altro tavolino del bar. Accanto a lei c’era un ragazzo grassottello, il viso punteggiato di foruncoli, gli occhi rotondi e neri appena coperti da una frangetta di capelli bruni, lisci e sottili. Le granite al limone, ormai consumate, avevano reso ancora più evidente il silenzio che aleggiava tra i due ragazzi. Agnese fissò Marco con insistenza e lui si rese conto che il tizio grassottello si era adombrato, forse chiedendosi chi diavolo fosse quel tizio in carrozzina. Sul volto della ragazza spuntò un sorriso, quindi si alzò e si diresse di corsa verso di lui.

Il ragazzo la seguì con lo sguardo mentre lei si chinava su Marco e lo baciava su una guancia con un trasporto quasi ostentato. L’espressione di lui tradì una morsa di gelosia, attese un paio di minuti, mandò giù in un sorso l’ultimo rimasuglio della granita ormai liquefatta, poi si alzò a sua volta e raggiunse Agnese a passi lenti, come violentando la propria timidezza.

«...E insomma ci dobbiamo provare e riprovare, finché le gambe non cominciano a reggere come si deve», concluse Lara, proprio mentre il ragazzo li aveva raggiunti al tavolino e si era fermato a un passo da Agnese, non osando farsi avanti.

«E questa paura del mare?» incalzò Agnese, ignorando il suo amico che rimaneva fermo dov’era, senza sapere se farsi definitivamente avanti o aspettare un invito. La sua ombra si stagliava sul tavolino come a indicarlo nonostante il suo silenzio timoroso.

«Secondo me non mi passerà mai», rispose Marco, fissando l’amico di Agnese che subito deviò il suo sguardo verso l’entrata del bar.

«Seee vabbuo’...» rispose Agnese e fece un gesto come a significare “non dire sciocchezze”.

«Secondo me ti devi solo abituare a starci vicino, poi vedrai che addirittura ti farai i bagni. Anzi, uno di questi giorni ce lo facciamo insieme un bel bagno...»

«Ecco, brava. Fai venire pure un becchino, così facciamo prima», incalzò Marco e, mentre Agnese e Lara ridevano, notò che l’amico si era voltato di scatto a fissarlo con aria indignata.

Marco ricambiò lo sguardo con aria interrogativa.

«Ti puoi sedere, se vuoi. Io sono Marco...»

«Ah già, sì, lui è Galiano...» disse Agnese, come se dimenticarsi della presenza di quel ragazzo fosse la cosa più naturale del mondo.

Galiano accennò un saluto sollevando appena una mano, in un gesto frettoloso e impacciato, poi si mosse e si lasciò andare sulla sedia accanto alla carrozzina, chiudendo gli occhi mentre sussurrava un labile «grazie» che sembrò una preghiera.

«Marco è un campione di tuffi e si è fatto male mentre si tuffava a mare. Ha preso uno scoglio e si è stroppiato un po’», specificò Agnese, a beneficio di Galiano, come se volesse vantarsi del suo nuovo amico.

Galiano assentì appena e guardò Marco con un malcelato timore reverenziale, intriso di ammirazione e invidia. Marco colse quello sguardo e decise di non contraddire Agnese. Forse la ragazza aveva mentito per pavoneggiarsi di un’amicizia importante, forse aveva frainteso il racconto che, evidentemente, le aveva fatto Lara quando le aveva viste parlottare il giorno precedente, prima che Agnese andasse via per tornare a casa sua. In ogni caso, gli piaceva l’idea che qualcuno pensasse che fosse davvero un campione di tuffi, la sensazione di apparire agli occhi di quel ragazzo ciò che avrebbe voluto diventare e che, ormai gli appariva solo come un miraggio lontano. Quindi si aprì in un sorriso accogliente che in quel momento gli sembrò adatto a un campione di tuffi e voltò la testa per mostrare la ferita dietro la spalla, ancora coperta da una leggera fasciatura.

«E... i medici che dicono... che si riprende?» chiese Galiano, chiudendo di nuovo gli occhi mentre formulava la domanda.

Marco capì che quello era il modo di parlare di quel ragazzo grassoccio: chiudere gli occhi come se volesse nascondersi al mondo mentre la sua voce risuonava, flebile e roca, una timidezza esasperata ma, in qualche modo, intrisa di dolcezza.

«Quello che dicono dicono, qua Marco si deve riprendere», rispose Agnese, anticipando la risposta di Marco. «Perché poi deve andare alle Olimpiadi e vincere la medaglia, non è vero?»

Quel «non è vero?» era rivolto a Marco.

«Non è una cosa grave, questo è poco ma sicuro...» replicò Lara. «Si deve solo mettere sotto a fare gli esercizi, poi potrà fare tutto quello che vuole, anche meglio di prima.»

Marco emise una sorta di ghigno strozzato e, stavolta, decise di essere sincero.

«Ormai i tuffi me li scordo, altroché... ci vorrebbe un miracolo», ammise, afferrando la tazzina del caffè che, nel frattempo, era stato servito al tavolo e sorseggiandolo appena.

«E noi i miracoli ’e facimm’», esclamò Agnese.

Poi gli accarezzò una guancia e il sorriso che dedicò a Marco fece calare un’altra ombra sul viso di Galiano.

Marco, invece, rabbrividì. Quella mano morbida e fresca, nell’attimo in cui aveva percorso la sua pelle e aveva sfiorato le sue labbra, aveva fatto riaffiorare in lui il ricordo delle labbra di Virginia posate sulle sue in quel bacio improvviso e fugace nella clinica, lo sguardo micidiale dei suoi occhi. Rivide la sagoma dei trampolini, risentì il profumo dei bagnoschiuma che si mescolava al cloro e all’azzurro artificiale dell’acqua, la voglia di librarsi in volo, la sensazione di controllo sulle leggi della fisica durante una capriola nel vuoto. E gli sembrò che tutto ciò fosse legato all’esistenza di Virginia, come il sapore dolce dei sogni che viene invaso dal fiele della disillusione.

Chiuse gli occhi per spegnere tutto quel tormento e pensò che, forse, anche Galiano li chiudeva, mentre parlava, per lo stesso motivo.

Nel pomeriggio, dopo pranzo, Marco si addormentò. Non gli era mai successo di appisolarsi con la luce del giorno, tranne che in ospedale per via dei sedativi e di quella voglia di annullarsi che lo spingeva a chiudere i contatti con il mondo. Nel salotto di Lara, invece, si avvicinò al sonno dolcemente e fu come abbandonarsi al tepore familiare in una casa che gli sembrava già meno estranea. Seduto sul divano, aveva ascoltato il rumore sommesso delle faccende in cucina, quello sparecchiare e rassettare che sapeva di vita quotidiana. La voce profonda di Giuseppe che chiacchierava con Lara progettando già la cena, come se si trattasse di un argomento di importanza fondamentale, l’aveva cullato e trasportato in un territorio protetto, in una condizione di vita che aveva sempre immaginato e mai vissuto davvero. Cirmolo era saltato sul divano e si era acciambellato accanto a lui, vibrando in un borbottio di fusa ininterrotte. Poi, gli occhi di Marco si erano chiusi all’improvviso e il respiro si era fatto regolare.

Lara lo trovò così, addormentato accanto al gatto. Rimase a osservarlo per qualche istante, pensierosa.

«Gli assomiglia, eh?» sussurrò a bassa voce Giuseppe, alle sue spalle.

Lara si voltò verso suo padre e annuì con un lieve cenno, facendogli cenno di tacere. Pensò che era vero: la somiglianza tra Marco e Antonio era evidente, anche se si intuiva solo dopo una attenta osservazione. Tremò al pensiero che Antonio potesse cogliere quell’impronta genetica dei lineamenti prima di sapere la verità. Ma come avrebbe fatto a rivelargli che quel ragazzo era suo figlio? E come e quando avrebbe potuto dirlo allo stesso Marco? Nello stesso istante? In due momenti diversi? E chi avrebbe dovuto saperlo prima dell’altro?

«L’unica cosa che so...» disse a Giuseppe dopo averlo trascinato in cucina, «è che ora proprio non me la sento. Devo prendere tempo... devo fare in modo che si conoscano almeno un po’...»

«Sì, ma stai attenta...» l’avvisò Giuseppe. «Più tempo passa e più va a finire che poi se la prendono con te che hai aspettato troppo. Perché più ti stai zitta, più sembra che li stai prendendo in giro... a tutti e due. Che stai giocando con loro. Le cose serie si dicono subito...»

Lara non rispose. Sapeva che suo padre aveva ragione. Nascose, un’altra volta, la sua paura e le sue incertezze aggrappandosi alla speranza che una possibile frequentazione tra Marco e Antonio li avrebbe legati in qualche modo fino a rendere la verità sul loro legame di sangue quasi un regalo della vita o, almeno, qualcosa di più facilmente sopportabile per entrambi, qualcosa che avrebbe cancellato tutto il dolore passato, i torti e le ragioni.

Approfittò del sonno di Marco per scendere in paese, da sola. Passeggiare lungo le strade della sua infanzia l’avrebbe aiutata a sentirsi più serena e più forte. Nel silenzio della controra, provò l’ebbrezza del ritorno, quella strana nostalgia mista a stupore, l’aspettativa di qualcosa di indefinito. Ma poi fu come se il ripercorrere quelle strade che un tempo le erano abituali la illuminasse di un fascio di luce diversa, che tutti potevano vedere, e la ponesse al centro dell’attenzione. Si scoprì a evitare gli sguardi dei passanti nel timore di essere riconosciuta, con l’imbarazzo di sentirsi chiedere «sei tornata?» e dover rispondere e spiegare i motivi del suo rientro o, addirittura, della sua fuga di tanti anni prima.

Si ritrovò, così, a camminare a testa bassa, in silenzio, fino a raggiungere i confini di Sarcola. Passo dopo passo, cominciò a sentirsi di nuovo, come avveniva in città, un piccolo tratto di matita indefinito nel groviglio dei segni che imbrattavano la vita. Per uno strano effetto, le piccole case e le strade che si proiettavano verso il mare, le antiche botteghe, lo slargo del belvedere, la scuola che aveva frequentato, la piazzetta degli incontri, il palazzo del municipio, dove aveva sostenuto gli esami di abilitazione per diventare ostetrica… tutto le sembrò più piccolo di quanto ricordasse. Il paese era cambiato moltissimo, non c’era più traccia di molti dei negozi che ricordava, le antenne paraboliche brulicavano sui tetti segnando in maniera evidente e violenta il trascorrere del tempo. Incrociò volti di persone mai viste prima, ascoltò sussurri e voci provenire dall’interno delle case senza riconoscerle. Capì che, come lei, molti dei suoi coetanei erano partiti per cercare fortuna o lavoro altrove e che, degli anziani che ricordava, non c’era quasi più traccia. Forse perfino i bambini e le bambine che aveva aiutato a nascere, tanti anni prima, avevano lasciato Sarcola. Il pensiero, allora, la riportò ai suoi genitori, al tempo che aveva ancora a disposizione per stare con loro e la malinconia l’assalì sulla via del ritorno a casa.

Poi il suo cellulare squillò. Lara guardò il display e rispose, tesa.

«Virginia... dimmi...»

«Scusami, ma non ho resistito. Sei sola? Puoi parlare?»

«Sì, sono sola...»

«Bene... allora? Come va?»

«Ci stiamo ambientando...» disse Lara, vaga.

«Ma gliel’hai già detto? Ha conosciuto suo padre?»

Lara si guardò intorno, come se qualcuno potesse ascoltare la voce di Virginia.

«Si sono appena intravisti, ma non si sono presentati... e non gli ho detto ancora niente...»

«Ho capito... e immagino quanto sia difficile... Ma... hai già pensato a quando farlo?»

«Non lo so... ho bisogno di un po’ di tempo. Insomma, credo che, prima di tutto, Marco si debba rimettere in sesto...»

«Stai prendendo tempo, vero?»

Lara sbuffò infastidita.

«Senti, Virginia... mettiti in testa che non è una cosa facile, capito? Devo trovare il modo per risolvere questa situazione. E tu non mi devi mettere fretta, che già sto in crisi per conto mio. Ti ho detto che lo farò, sono venuta qui per questo, ma non fare il carabiniere con me. È chiaro? Altrimenti vieni qua e te la risolvi tu, la situazione, se proprio ci tieni.»

Seguì un silenzio da parte di Virginia. Lara la sentiva respirare, inquieta.

«Dimmi una cosa... ma tu ci tieni proprio tanto a Marco?» chiese alla ragazza.

«Certo che ci tengo... mi... mi sento responsabile di quello che gli è successo, ecco.»

«Solo questo... o c’è dell’altro?»

«Lara... io sto con Luca, lo sai bene. Perché mi fai queste domande? È da quando mi hai vista insieme a Marco che insisti... che fai battutine...»

«Te lo chiedo perché credo proprio che a lui farebbe piacere, se ci fosse anche altro. E l’aiuterebbe a superare questo momento. E anche il resto... quando saprà tutto.»

Lara sentì un flebile accenno di risata da parte di Virginia.

«Perché ridi? Ho detto qualcosa che non va?»

«È che parli come se fossi sua madre...» rispose la ragazza.

Lara arrossì e ringraziò il cielo di essere al telefono.

«Un po’ mi ci sento...» ammise, infine.

«Ti capisco... tu conosci bene la sua storia... l’hai visto nascere...»

«Sì, forse è per questo...» disse Lara, sbrigativa.

«Comunque... fammi sapere, okay?»

Si salutarono in fretta. Lara ripose il cellulare nella borsa, si passò una mano tra i capelli e sentì la tensione salire, come se il tempo corresse troppo velocemente e lei non riuscisse più a controllarlo.

Antonio vide il gatto guadagnare agilmente il davanzale della sua finestra. Poi, Cirmolo atterrò sul pavimento e si diresse a passo felpato verso il tavolo della cucina. Vi salì in un lampo, attratto dal piatto che conteneva alcune alici marinate. Antonio lo raggiunse alle spalle e lo afferrò per la collottola, sollevandolo a mezz’aria. Il gatto miagolò, poi soffiò sibilando, le unghie in mostra sulle zampe allargate.

«Stai buono... buono...» gli sussurrò Antonio, fissandolo negli occhi. Poi lo prese tra le braccia e lo accarezzò con delicatezza. Cirmolo si quietò, rispondendo con un accenno di fusa. E Antonio si stupì del suo primo gesto di tenerezza dopo anni e anni di gelo e solitudine. Provò uno strano disagio, come un senso di debolezza improvvisa a cui si era disabituato. Esitò, poi decise che quel gatto poteva essere una buona scusa per soddisfare la curiosità e il tormento che lo avevano assalito sin da quando aveva visto Lara arrivare insieme a quel ragazzo in sedia a rotelle. Quindi si diresse verso la porta e uscì nel cortile, con il gatto in grembo. Si avvicinò all’ingresso della casa di Giuseppe e suonò il campanello sul portoncino. Poco dopo, si trovò di fronte a Giuseppe che lo guardava, sorpreso.

«È vostro il gatto, vero?»

«È di mia figlia...» rispose Giuseppe, riprendendo il micio che Antonio gli porgeva.

«Mi è entrato in casa dalla finestra...»

«Uh, allora scusa...»

«Nessun problema...»

Cirmolo saltò giù e si avviò verso l’interno della casa. In quel momento, Antonio vide Marco spuntare sulla soglia della porta del salotto, sulla carrozzina. Si guardarono, in silenzio. Marco accennò un saluto con un gesto della mano che Antonio ricambiò con un lieve movimento del capo. Giuseppe osservò entrambi, teso.

Antonio esitò, poi fece un cenno, come a invitare l’uomo a seguirlo.

Giuseppe lo raggiunse nel cortile, socchiudendo la porta alle sue spalle.

«Chi è quel ragazzo?» gli chiese Antonio, brusco.

«È un paziente di Lara...» rispose Giuseppe superando un attimo di imbarazzo. «L’ha portato qua per curarlo meglio, dice.»

«E che ha fatto? Perché sta in carrozzina?»

«Una brutta caduta a mare, pare... ha preso uno scoglio e mo’ si deve rimettere in sesto.»

«Uhm...» commentò Antonio e sembrò quasi rassicurato. «E da dove viene?»

«E io che ne so...» replicò Giuseppe, sulla difensiva. «Se vuoi glielo chiedo, chi c’ha pensato a tutte queste cose? A me mi basta che Lara sta qua con noi, non ce le ho fatte tutte queste domande sul ragazzo. Se vuoi, glielo chiedo...»

«Lascia perdere...» disse Antonio, già pentito di essersi sbilanciato troppo.

«A posto, allora?» chiese Giuseppe, come a sfidarlo.

«A posto», replicò l’uomo, poi si diresse verso casa.

Giuseppe lo vide rientrare nella sua tana, in silenzio, e presagì tempi molto duri per tutti.