6.

Il tempo cambiò l’indomani. Le nuvole presero a sostare nel cielo e per due giorni di seguito piovve a dirotto. La vita sembrò fermarsi, a Sarcola. I turisti passeggiavano armati di ombrelli e maglioni di cotone, con l’aria un po’ afflitta e incredula di chi vede interrompersi la vacanza all’improvviso. L’odore del basilico, rinvigorito dalla pioggia, si spandeva nell’aria e il mare aveva assunto riflessi metallici, ondeggiando minaccioso.

Anche le uscite di Marco e Antonio furono sospese e il cortile sembrò un territorio di tregua dopo l’attività frenetica dei giorni precedenti.

Durante la mattinata, Lara impegnava Marco in esercizi di fisioterapia e ascoltava i suoi racconti. Marco era sempre più entusiasta di Antonio e non nascondeva quanto gli mancassero le loro uscite in barca.

«Tu lo sapevi che c’erano delle tribù sulle coste del Pacifico che facevano il potlach?» le aveva chiesto Marco, mentre esercitava il braccio in flessioni e torsioni.

«E che cos’è questo potlach?» gli aveva domandato a sua volta Lara.

«Cioè... loro dovevano eleggere il capo tribù, no? E allora tutti quelli della tribù che volevano diventare capo facevano il potlach. In pratica dovevano regalare le cose più preziose che avevano. Oppure le distruggevano davanti a tutti. Insomma chi regalava o distruggeva più cose diventava capo tribù. Antonio dice che questa cosa era molto bella, perché in pratica vinceva il più generoso... oppure quello che era meno attaccato al possesso delle cose. A lui piace l’idea che uno deve diventare quasi povero, per poter comandare. Fico, no? Secondo me ha ragione...»

Lara leggeva l’entusiasmo negli occhi di Marco e sperava che i due si stessero legando abbastanza da reggere il colpo della verità, quando sarebbe arrivato. E, nello stesso tempo, aveva la sensazione di scoprire, attraverso i racconti del ragazzo, un po’ del mondo interiore di Antonio, quel mondo al quale non aveva mai avuto accesso, ma che aveva solo intuito quando viveva a Sarcola.

Si era accorta che il braccio e la mano di Marco avevano fatto lenti ma costanti progressi grazie alla fisioterapia, ma cominciava a sospettare, però, che anche le mattinate trascorse a remare potessero aver sortito un effetto positivo, molto più di quanto sperasse. Marco riusciva già a stringere in pugno un bicchiere vuoto e a sollevarlo leggermente, prima che la presa cedesse di schianto.

Di notte, Lara era andata a controllarlo mentre dormiva e aveva notato che il suo sonno si era fatto più regolare, senza quelle interruzioni improvvise e frequenti dei primi giorni in paese. E, oltre a questo, vedeva Giuseppe felice di averla con sé. Era come se la sua vita avesse riacquistato un senso dopo il ritorno della figlia. Aveva ripreso anche a curare il suo aspetto, si radeva ogni giorno, indossava le camicie migliori che da molto tempo erano rimaste sepolte sul fondo dei cassetti dell’armadio, in camera da letto. Rosa, invece, continuava a vivere nella sua assenza. Sembrava non essersi accorta del ritorno di sua figlia, né della presenza di Marco in casa. Era come se ogni persona presente fosse per lei un’unica entità alla quale attribuiva il nome di Giuseppe. Nel suo stato straniato, tutto il mondo era suo marito, come una dichiarazione d’amore inconsapevole e continua.

Ma il pomeriggio del venerdì, convinta dalle richieste scherzose di Giuseppe, Rosa si era improvvisamente messa ai fornelli e aveva cucinato come faceva un tempo. Aveva messo ad arrostire alcuni peperoni sul fuoco, poi aveva tagliuzzato delle melanzane a tocchetti e le aveva fatte soffriggere in padella. Poi, sotto lo sguardo sorpreso ed emozionato di Giuseppe, Lara e Marco, aveva aggiunto alle melanzane della provola tagliuzzata a quadretti, dadini di pancetta e basilico fresco, che poi aveva amalgamato con un paio di uova sbattute e salate, irrorando il tutto con parmigiano grattugiato. Nell’aria si era espanso un profumo antico, pieno e inebriante. Giuseppe, nel frattempo, aveva spellato i peperoni arrostiti. E Rosa li farcì, uno per uno, con le melanzane, la provola e tutto il resto. Accompagnata dal crescente entusiasmo dei presenti, l’anziana donna aveva fatto cuocere in padella i peperoni ripieni, cospargendoli di pangrattato e altre foglie di basilico.

Il risultato era strabiliante. Marco assaggiò i peperoni e mugolò di piacere. Poi il suo pensiero si rivolse ad Antonio.

«Che dici, gliene portiamo un paio?» disse a Lara, masticando con gusto.

Attraversarono il cortile riparati da un ombrello, un piatto tra le mani, ancora caldo.

Bussarono, senza avere risposta. Marco sembrò deluso, si chiese dove potesse essere andato Antonio con quel tempaccio. Poi, risoluto, spinse la porta che si aprì lentamente.

«Ma che fai?» disse Lara, preoccupata.

«Non credo che si arrabbi, se gli lasciamo i peperoni, no?» rispose Marco.

Entrarono in cucina e poggiarono il piatto sul tavolo, coperto da un secondo piatto per proteggere i peperoni. Lara guardò Marco mentre, anche stavolta, si guardava intorno come se volesse leggere, in quelle pareti ormai scolorite, la vita di Antonio e i suoi misteri, ma stavolta, oltre alla curiosità, vi lesse un affetto che stava crescendo giorno dopo giorno. E, per la prima volta, sperò davvero che tutto si sarebbe risolto per il meglio.

In quel momento, anche la darsena era sommersa sotto il temporale estivo. Antonio vi arrivò a capo scoperto, incurante della pioggia. I pescatori erano tutti sulla terraferma, i pescherecci attraccati al molo. Molti avevano approfittato della giornata senza lavoro per sistemare le barche e le reti, controllare i vecchi motori, lucidare e oliare gli interni delle stive. Antonio si avvicinò lentamente al suo vecchio peschereccio e si guardò intorno, assaporando di nuovo un’atmosfera che gli era stata familiare. Sollevò il telone che ricopriva la barca e vi saltò dentro. Ispezionò gli interni, il vecchio motore diesel, fermo da tempo. Accarezzò appena il timone, ricoperto di ragnatele. Nella mente gli riecheggiava la richiesta di Marco, quella voglia di andare a pesca insieme. Aveva combattuto contro quell’idea durante tutta la notte e continuava ancora a farlo, deciso comunque a non assecondare il ragazzo. Ma non poteva negare quel sottile richiamo del mare che si era insinuato nei suoi pensieri e che rischiava di renderlo vulnerabile dopo anni e anni di arroccamento nella solitudine e in un lavoro che non gli piaceva. Scaricare le casse al porto era la punizione che si era inferto volontariamente, per essere sopravvissuto a Milena, per non averla saputa difendere fino al suo ultimo respiro, per esserle stato lontano, nella stanza delle stelle, ad attendere una nascita, mentre lei veniva ghermita dal buio eterno. Eppure, la richiesta di Marco aveva scavato qualcosa nella sua corazza impenetrabile, come un piccolo tarlo nel legno della palizzata che aveva eretto tra sé e la vita.

Scese dalla barca, turbato, e incontrò gli sguardi degli altri pescatori.

Pasquale, proprio l’uomo che pochi giorni prima lui aveva aiutato, avvisandolo del pericolo che la rete si impigliasse nell’elica, gli andò incontro e gli sorrise.

«Ma che è, Anto’... t’è turnat’a voglia ’e pesca’?» gli chiese a metà tra il serio e l’ironico.

Antonio scosse la testa e sollevò le spalle, come a minimizzare la sua visita alla vecchia barca.

«Ero solo passato da qui... mo’ torno a casa», rispose, sbrigativo.

Poi, mentre si avviava verso il ritorno, esitò. Si voltò verso Pasquale e gli gettò una voce.

«Non è che per caso tieni uno iacco da prestarmi?» gli chiese.

«’Nu iacc’?» replicò l’altro pescatore, perplesso. «E che te ne devi fare? Con questa pioggia?»

Antonio sorrise.

«Tu non ti preoccupare, tanto oggi pomeriggio torna il sole...» replicò Antonio. «Ce l’hai o no? Un paio di giorni e te lo restituisco...»

Pasquale annuì, sempre più perplesso.

«Quando ti serve, sta nel gabbiotto mio...» rispose, «vai e te lo prendi...»

Antonio ringraziò a mezza bocca, poi si allontanò, seguito dagli sguardi indagatori dei pescatori.

Quando rientrò in casa, scoperchiò il piatto che era al centro del tavolo e assaporò il profumo dei peperoni ripieni. Riconobbe subito la sapienza di Rosa nel prepararli e accennò un sorriso. Ne assaggiò un pezzo e chiuse gli occhi, estasiato da quel sapore antico. Guardò verso la finestra di fronte e sospirò: era come se tutto congiurasse per costringerlo a tornare indietro nel tempo in cui era felice, quel tempo che aveva ormai cancellato dalla memoria. Vide la sagoma di Rosa attraverso i vetri, il suo sguardo assente, e fu assalito dalla tenerezza. Si sedette, continuando a mangiare e ripensò alla gratitudine che provava nei confronti di quella donna. Quando Milena morì e dopo la partenza improvvisa di Lara, fu Rosa ad accudirlo per qualche giorno, a vegliare sul suo dolore, a cercare di convincerlo, invano, ad andare a riprendere il bambino che aveva fatto affidare ai servizi sociali. Lui le chiese, semplicemente, di eliminare da quella casa tutto ciò che potesse ricordarle la felicità che aveva perso. Conservò solo una foto di Milena, una piccola foto da tenere per sé. Rosa obbedì, come una tata affettuosa. Con dolore, svuotò gli armadi dai vestiti di Milena e la casa da tutto ciò che potesse richiamare la sua presenza. Poi fece sparire tutto, regalando i vestiti e gli oggetti alla parrocchia di un paesino lontano da Sarcola, così da evitare che quei vestiti e quegli oggetti potessero ripresentarsi davanti agli occhi di Antonio, indossati da altre persone. Ora Rosa viveva nell’oblio, la malattia aveva sostituito la donna energica e generosa che era stata un tempo con un fantasma silenzioso e assente. Antonio si era ritrovato molte volte a invidiare il suo stato catatonico, quell’assenza di ricordi che si leggeva nel suo sguardo. Avrebbe voluto essere come lei, magari al suo posto, scambiando il dolore che continuava a sentire con l’inconsapevolezza perenne che si era impossessata di Rosa. Da molti anni, la sua vicina era l’unica persona che Antonio riuscisse a guardare negli occhi senza il timore di essere giudicato o compatito. Si rifugiava spesso nel suo sguardo, quando la incontrava in cortile, e a volte desiderava immergersi nella stessa assenza dalla realtà che leggeva in quegli occhi. Terminò i peperoni lentamente, accompagnandoli con un bicchiere di vino bianco e fresco. Poi chiuse gli occhi, aspettando l’indomani.

Quel pomeriggio, il cielo si aprì tra le nuvole e il sole tornò a risplendere su Sarcola. Marco lo accolse con gioia, pregustando il ritorno in mare insieme ad Antonio già dall’indomani.

Dopo la fisioterapia, uscì da solo e arrivò in piazzetta, dove fu accolto da una strana atmosfera sospesa. Nonostante il tempo fosse splendido, le strade erano quasi deserte. Agnese era seduta al tavolino del bar, da sola. Quando lo vide arrivare, accennò un sorriso e spostò una sedia per farlo accomodare.

«Come mai sei sola?» le chiese Marco, mentre si sedeva.

«Perché? Ti dispiace di stare solo con me?» rispose lei, con un sorriso sfrontato.

Marco sorrise a sua volta, imbarazzato.

«Vuoi un caffè?»

«Già l’ho preso, però magari me lo riprendo decaffeinato, così ti faccio compagnia...» rispose lei.

Marco catturò lo sguardo del cameriere e ordinò due decaffeinati.

«E Galiano?» domandò guardandosi intorno come se potesse trovarlo nascosto in qualche angolo della piazza.

«Fra un po’ lo vedi arrivare...» rispose Agnese, con un tono enigmatico che Marco colse senza decifrarlo.

In quel momento, alcune persone arrivarono in silenzio. Provenivano, con aria raccolta e pensierosa, dalla salita che portava alla chiesa, mentre le campane scandivano rintocchi lenti e solenni. Poi si disposero ai lati della piazzetta e, poco dopo, un corteo funebre passò davanti agli occhi di Marco. L’auto nera con la bara e i fiori all’interno precedeva i parenti del defunto e il chiacchierio mesto di chi seguiva il feretro.

In un lampo, come in una visione improvvisa, Marco riconobbe Galiano alla guida dell’auto. Si scambiarono appena uno sguardo e a Marco sembrò che il suo amico gli sorridesse, furtivo, per nascondere l’imbarazzo. Quando il corteo si allontanò in direzione del cimitero, la piazzetta sembrò rianimarsi. I primi avventori affluirono verso i tavolini del bar, le stradine circostanti iniziarono a riempirsi di passanti.

«L’hai visto?»

Marco si voltò verso Agnese, che ora lo guardava con un velo di tristezza negli occhi.

«Dico... Galiano, l’hai visto, no? Mo’ sei contento?» incalzò Agnese.

«Non capisco... contento di che? Che vuoi dire?» replicò Marco, guardingo.

«State sempre pappa e ciccia, voi due. Potrei pure essere gelosa...»

«Senti, parliamoci chiaro...» le disse d’un tratto. «Tra te e me non ci potrà mai essere niente.»

Agnese spalancò gli occhi, sorpresa.

«Cioè...» continuò Marco, «tu sei carina, non mi fraintendere... però...»

«Però?» lo incitò lei, dopo una piccola esitazione di lui.

«Lascia perdere...» disse Marco, già pentito di aver iniziato quel discorso e di essere entrato in una sorta di campo minato.

«Quindi te ne sei accorto che ti guardo in un certo modo?» gli chiese Agnese, con un sorriso divertito.

«E me ne sono accorto sì, che cazzo», replicò Marco, come a liberarsi di un peso. «Mica so’ cieco, che ti credi?»

«E che dici... se n’è accorto pure Galiano?» incalzò lei, ironica.

Marco assunse un’espressione sorpresa.

«E direi proprio di sì...» rispose, secco.

«Meno male... io pensavo che invece non si era accorto nemmeno di questo...» disse Agnese. E il suo volto si coprì di un velo di amarezza.

Marco si sistemò sulla sedia, guardingo.

«Aspe’... ma che vuoi dire?» le chiese.

Agnese trasse un sospiro, imbarazzata.

«Ma che... lo stai facendo apposta?» chiese Marco, colto da illuminazione improvvisa. «Mi stai usando per ingelosire Galiano?»

Agnese esitò, poi assentì, sollevando lo sguardo verso di lui.

«Sì. Ma a quanto pare, non funziona...» ammise, in un soffio.

«Ma allora ti piace?» le domandò Marco, sorpreso e risollevato allo stesso tempo.

Agnese fu colta alla sprovvista da un accenno di lacrima che si affrettò a spazzare via con una mano.

«Ti sembra così strano?» gli chiese.

«No, che c’entra, solo che...»

«Lo so... non è bello, Galiano. Anzi... è bruttariello... un poco grasso, tiene i brufoli e suda. Fa un mestiere che nessuno vorrebbe fare e se ne vergogna come un ladro... è pure timidissimo, tanto che quando parla chiude gli occhi che sembra che vuole sparire...» sussurrò Agnese, sincera, «e tu mi chiedi se mi piace?»

Marco la guardò, perplesso.

«E allora ti chiedo... io come faccio a non amarlo, a uno così?» concluse Agnese, lasciando, finalmente, che piccole lacrime le solcassero il viso.

Marco le porse un fazzolettino di carta, premuroso,

«Ma guarda che pure lui...» accennò.

«Lo so», lo interruppe Agnese, prima di soffiarsi il naso.

«Lo sai? Ma allora perché non glielo dici, scusa? Quello se ne sta a mori’...» esclamò Marco.

«Perché è lui che si deve muovere per primo...» rispose Agnese. «Adda fa’ l’omm’! Se mi vuole veramente, deve tirare fuori le palle e me lo deve dire.»

«Cazzo, glielo dico io!» disse Marco, di slancio.

«No, tu non ti devi permettere. Si deve decidere lui, senza che gli dici niente. Se non lo capisce da solo, vuol dire che neanche a me, mi capisce... E allora è tutto inutile», sentenziò Agnese. «Giurami che non glielo dici...»

«Te lo giuro...» disse Marco, dopo aver riflettuto un po’.

«Comunque... se non ero già innamorata di Galiano, un pensierino su di te lo facevo davvero...» disse Agnese, all’improvviso, in uno slancio di sincerità mista all’esigenza di voler compensare il leggero senso di colpa per aver usato Marco.

Marco le sorrise e tacque, evitando di risponderle che, se non ci fosse stato Galiano di mezzo, oltre che Virginia, un pensierino su Agnese l’avrebbe fatto certamente anche lui.

«Lo so...» rispose comunque lei, come se gli avesse letto nel pensiero.

Poi, le loro risate portarono via lontano l’eco dei rintocchi tristi della campana.