I primi scrittori romani che ebbero qualche dimestichezza coi barbari, li descrissero, con un misto di stupore, di ammirazione e d’ironia, come dei ragazzoni troppo cresciuti, d’occhi chiari e di capelli biondi, che mangiavano insieme, bevevano insieme, dormivano insieme davanti ai fuochi del bivacco, s’intenerivano per un nonnulla, e per un innocente scherzo impegnavano duelli dai quali era manna se uno dei due contendenti usciva vivo, perché di solito ci morivano entrambi.
Il loro punto di partenza, ricostruito attraverso incerte leggende tramandate oralmente, sembra che siano stati la Scandinavia e i territori fra l’Elba e l’Oder. Lì, sulle vette delle colline e nelle radure delle foreste, avevano impiantato dei villaggi di capanne effimeri come accampamenti. Non ci restavano mai a lungo perché, siccome vivevano quasi esclusivamente di caccia, una volta esaurita la selvaggina in una zona, emigravano. La loro organizzazione era primitiva, e basata su esigenze soprattutto militari. Il nucleo fondamentale era il gau, che Hitler ritirò fuori duemil’anni dopo, gruppo di famiglie che forniva da mille a millecinquecento guerrieri, soprattutto a cavallo. I gau erano molto indipendenti l’uno dall’altro. Solo in circostanze eccezionali si riunivano nel thing o mallus, specie di assemblea plenaria, per decidere per esempio l’elezione di un nuovo Re, la pace o la guerra.
A differenza del Romano, ch’era sempre un «cittadino», e in qualunque occasione si sentiva parte di qualcosa, la società o lo Stato, il barbaro era soltanto un «individuo» gelosissimo della propria assoluta indipendenza. Egli non riconosceva altro vincolo che quello della parola liberamente data. Il suo patriottismo era la fedeltà giurata al Signore liberamente eletto e a cui si sentiva legato da un vincolo puramente personale. Di qui l’incomprensione fra loro e i Latini, che avevano della lealtà un concetto tutto diverso. A parte Cesare e Tacito, dotati di un fiuto troppo fino per fraintendere e sottovalutare il senso dell’onore germanico, tutti gli storici e i memorialisti romani non fanno che denunziare la perfidia e la propensione al tradimento dei barbari. È vero, nei rapporti da Stato a Stato. Ma è falsissimo, nei rapporti da persona a persona.
Non si muovevano a masse numerose e compatte. Le cosiddette «alluvioni barbariche» di cui si è tanto farneticato erano carovane composte fino ai centoventimila individui, ma più spesso di trenta o quarantamila, di cui i guerrieri costituivano appena un quinto. Era un mondo fluido ed equestre. A cavallo, gli uomini precedevano e seguivano i carri, dentro cui si ammassavano le donne, i vecchi e i bambini. Questi carri, la notte e durante le battaglie, venivano disposti in un cerchio, al riparo del quale si dormiva e ci si difendeva.
Il trattamento dei popoli che, in questi continui spostamenti, venivano sottomessi, variava secondo la resistenza ch’essi opponevano. C’erano dei casi di totale sterminio. Ce n’erano altri di pacifica fusione. Teodorico, Re degli Ostrogoti, quando giunse in Italia di Ostrogoti ne avrà avuti sì e no cinque o seimila. Il resto erano Gepidi, Alani, Rugi, Sciri, resti di tribù vinte e poi integratesi col vincitore. E nell’esercito di Attila, alla battaglia dei Campi Catalaunici, gli Unni quanti saranno stati? Non si sa con esattezza. Ma tutto lascia credere che si trattasse di una minoranza rispetto agli alleati e federati germanici che ne avevano accettato o dovuto subire la supremazia. I vinti non venivano ridotti in schiavitù perché la schiavitù non era compatibile col nomadismo, e infatti si sviluppò solo dopo la conversione alla sedentarietà e all’agricoltura. Venivano arruolati.
In questo quadro d’insieme, c’erano poi le differenze fra popolo e popolo. I Longobardi non derivavano il loro nome dal fatto di portare la barba ma la barda, una lunga ascia, ch’era la loro arma di combattimento. I Franchi, ch’erano corbellati da tutti gli altri perché si radevano accuratamente il volto, avevano invece come arma la «francesca». E Sidonio Apollinare riconosceva i Burgundi dalla loro smisurata statura, dalla forza tonitruante della voce e dal puzzo del burro rancido con cui s’ingrassavano i capelli.
Ostrogoti e Visigoti, che furono i primi a dar la spallata all’Italia, all’inizio formavano un popolo solo, il popolo Goto, originario della Svezia, una delle cui province, il Götheland, ne porta ancora il nome. Non avevano una lingua scritta. E soltanto nel sesto secolo dopo Cristo, uno di loro, Giordane, incivilito dalla cultura latina, raccolse il racconto che i suoi connazionali si erano tramandati oralmente del loro passato.
Mescolando storia e leggenda, essi dicevano che, circa quattro secoli prima di Cristo, mentre Roma era occupata a unificare l’Italia, il loro Re Berig li aveva condotti attraverso il Baltico dalla Scandinavia in Germania. Per fare questo traghetto, non avevano che tre barche, le quali dovettero compiere la traversata chissà quante volte. Una di esse restava regolarmente indietro. I rematori delle altre due la chiamarono per dileggio gepanta, che nel loro linguaggio voleva dire «la sfaticata», e gepidi, cioè «bighelloni», soprannominarono i passeggeri.
Rimasero nelle regioni della Prussia Orientale per alcune generazioni, a ridosso dei Vandali, coi quali occasionalmente guerreggiavano. Poi ripresero la marcia verso Sud-Est. Una metà dei loro effettivi fu inghiottita dalle paludi della Lituania. Fu un disastro. Giordane assicura che ancora ai suoi tempi, cioè una diecina di secoli dopo, chi passava da quelle parti incontrava gli spettri dei morti e udiva il lamento del bestiame agonizzante.
Viaggiarono anni, forse decenni, perché erano spostamenti pesanti e lenti, intramezzati da soste, combattimenti, deviazioni. Dalle espressioni che i cantastorie si son tramandati, si capisce che la loro gioia, nel vedere finalmente il mare, non fu minore di quella dei Greci di Senofonte al termine dell’Anabasi. Non gridarono «Thalatta! Thalatta!» perché non sapevano il greco; ma per generazioni preservarono nei loro poemi il ricordo di quel gran giorno.
Quel mare era il Mar Nero. Ed essi si acquartierarono sulle sue coste settentrionali in quella parte meridionale della Russia che allora si chiamava Scizia. Dalle zone che le varie tribù occupavano, presero tre nomi diversi: gli Ostrogoti guardavano a Est, i Visigoti a Ovest, e i Gepidi, che seguitavano a essere considerati i fannulloni della famiglia, a Nord. Ma non ci stavano mai fermi. E siccome dalla parte d’Oriente c’era il deserto, il loro uzzolo di saccheggio si sfogava verso Occidente, dove si stendeva il limes romano.
I rapporti con le dirimpettaie autorità imperiali variavano come in tutte le altre zone di confine dall’amicizia, all’ostilità, alla guerra fredda, alla guerra calda. Ma molti Goti andavano, come al solito, ad arruolarsi nelle milizie romane, salvo a crearvi ribellioni e ammutinamenti se la cinquina non veniva pagata. Verso la metà del terzo secolo dopo Cristo queste disfunzioni amministrative si verificarono di frequente per via del disordine che regnò dopo la morte di Settimio Severo.
La prima vera e propria azione di guerra dei Goti contro i Romani avvenne nel 250 quando sul trono di Roma c’era Decio, un Imperatore di pochi scrupoli specialmente verso i Cristiani, ma in cui rivivevano le virtù guerriere dell’antica Urbe. I Goti erano condotti da Cniva che alla testa di settantamila uomini attraversò il Danubio, penetrò in Serbia, e mise assedio a Filippopoli. Decio accorse con un forte esercito, e la battaglia fu terribile. Gli storici romani dicono che i Goti lasciarono sul terreno trentamila cadaveri. Ma hanno dimenticato di aggiungere quanti ne lasciarono i Romani, che dovettero perderne parecchi di più, visto che si riconobbero battuti. La città cadde nelle mani dei barbari, che trucidarono centomila persone, ma trascurarono nella voluttà del saccheggio di prendere precauzioni contro i ritorni offensivi di Decio, il quale non era uomo da darsi per vinto. A un certo punto si trovarono irretiti da lui, e cercarono di comprare un armistizio che consentisse loro di ritirarsi senza combattere. Decio, che aveva già appostato il suo miglior Generale, Gallo, alle loro spalle, rifiutò. Ma, dice lo storico Zosimo, Gallo tradì, e in seguito alla sua defezione fu Decio a trovarsi imbottigliato dentro gli acquitrini. Nella battaglia, suo figlio cadde. «Uno di meno» disse l’Imperatore seguitando a combattere. Poi cadde anche lui con quasi tutto il suo Stato Maggiore. Il traditore Gallo che gli succedette comprò dai Goti quella pace che Decio non aveva voluto vender loro, impegnandosi a pagare una somma che i Romani poi chiamarono sussidio e i Goti tributo.
Cniva tornò nelle sue terre con molto bottino, ma soprattutto con la prova in tasca delle debolezze di un Impero, che sino a quel momento si era retto sul mito della sua invincibilità. Da allora in poi i Goti non gli dettero più pace e sfogarono il loro istinto di saccheggio soprattutto sull’Asia Minore e la Grecia. Troia, Bisanzio, Efeso subirono le loro saltuarie incursioni. Poi fu la volta di Corinto, Sparta, Argo, e alla fine, nel 267, di Atene.
Le incursioni gotiche durarono fino al 268, quando sul trono dell’Impero salì finalmente Claudio II, che volle porvi riparo in maniera definitiva. Era un buon soldato che aveva imparato la lezione di Filippopoli, cioè aveva capito l’importanza decisiva della cavalleria, e in questo senso aveva riformato l’esercito. A Nisch, in Serbia, egli non riportò una completa vittoria, ma cinquantamila Goti rimasero sul terreno e gli altri furono sospinti dalla sua superiorità di manovra in un intrico di montagne e di paludi senza sbocco, dove cominciarono a morire lentamente di fame nei loro pesanti carri sprofondati nella melma. Dei pochi superstiti, alcuni tornarono sbandati alle loro case, altri rimasero come federati al servizio del vincitore. Ma i morti si vendicarono del loro carnefice sviluppando coi loro cadaveri insepolti una pestilenza che lo contagiò e lo uccise.
Il successore Aureliano trascinò dietro il suo carro di trionfatore a Roma i condottieri goti prigionieri. Ma non rifiutò la pace al loro Re, concedendogli la Dacia che, tradotta in termini di geografia moderna, significa Ungheria e Romania. Qui, dentro i confini dell’Impero, per un secolo rimasero abbastanza tranquilli, qui diventarono qualcosa di simile a una Nazione, trasformandosi almeno parzialmente in agricoltori e mescolandosi con la popolazione locale già mezzo romanizzata. E qui, in questi cento anni di relativa tranquillità, si arricchirono dei due fondamentali strumenti di civiltà: la lingua scritta e la religione cristiana.
A fargliene dono fu un uomo solo.
Ulfila non era un goto di razza pura. Era figlio di un orientale della Cappadocia preso prigioniero dai Goti dopo una delle loro tante incursioni laggiù, e sposatosi probabilmente in Dacia con una donna del posto. Così il figlio Ulfila crebbe fra i Goti, e goto si sentiva fino alla midolla.
In Dacia la popolazione indigena era, come ho detto, romanizzata, parlava un dialetto latino (i romeni lo parlano ancora), e coltivava il grano e la vite. La maggioranza era pagana. Ma c’erano già anche dei Cristiani, che svolgevano opera di proselitismo. Certamente Ulfila, ch’era nato nel 311, venne in contatto con qualcuno di loro, perché quando, ancora giovinetto, fu mandato a Costantinopoli, fu subito ordinato prete, e a trent’anni fu consacrato Vescovo da Eusebio di Nicomedia.
In quel momento la Chiesa non era unita. Era anzi gravemente divisa dall’eresia di Ario, che negava la divinità di Gesù Cristo. Era il più pericoloso di tutti i conflitti che fossero mai scoppiati in seno alla nuova religione. E l’Imperatore Costantino, che di questa nuova religione si atteggiava a protettore, ma con la pretesa di farne uno strumento di governo e quindi riservandosi il diritto d’intervenirvi, aveva convocato il Concilio di Nicea, per ristabilire l’unità. Ario si difese con molto coraggio ma fu battuto specialmente per opera dei Vescovi dell’Occidente, e dichiarato eretico. Aveva però molti seguaci, e fra costoro c’era appunto Eusebio, alla scuola del quale Ulfila diventò ariano anche lui.
Gli affidarono una delle imprese più ardue: quella di tornare in patria e di convertire i suoi compatrioti, tuttora fedeli ai loro dèi pagani, Odino e Thor. Il re Ermanrico era fra i più tradizionalisti e bigotti, e le persecuzioni cominciarono subito contro chi si lasciava conquistare dalla predicazione del missionario. Goti minori si chiamarono con disprezzo questi conversi che si raccolsero in piccole comunità nelle zone di frontiera per essere pronti ad attraversarla in caso di pericolo e a cercare rifugio nei territori dell’Impero. Essi si attenevano alla resistenza passiva e a una dieta sobria, in cui la carne era quasi abolita e il vino sostituito dal latte.
Ulfila, che aveva su di loro un ascendente profondo (e meritato, a quanto pare, per la santità della sua vita), per facilitare la propria opera missionaria, si diede a tradurre in gotico la Bibbia. E, siccome una lingua gotica scritta non c’era, la inventò lui, disegnando quei famosi caratteri dell’alfabeto, che d’allora in poi furono chiamati appunto «gotici», e mettendo accanto a ognuno di essi l’equivalente greco. Naturalmente grammatica e sintassi erano sommarie. E lo sforzo per abituare quella rozza gente a dare una forma grafica al loro gutturale balbettamento e una consecutio più o meno razionale al loro pensiero, dovette essere immenso. Ma Ulfila ci riuscì. Egli tradusse nella lingua da lui inventata tutto il Nuovo Testamento e la maggior parte di quello Vecchio, e in tal modo diede alle popolazioni germaniche i due strumenti per diventare le protagoniste della storia europea.
Tutti i popoli tedeschi, meno i Franchi e i Sassoni, che si convertirono molto dopo a Gesù e all’alfabeto, impararono a scrivere e a credere secondo l’alfabeto e la fede di Ulfila. Purtroppo, questa fede non era quella cattolica, ma quella ariana: e la cosa doveva avere conseguenze assai gravi specie per l’Occidente, e soprattutto per l’Italia, dove alla fine i Goti vennero ad acquartierarsi (e a seppellirsi). Ma questo lo vedremo in seguito.
Giordane ci ha lasciato testimonianza di come i Goti videro gli Unni quando questi apparvero nei loro territori: «Quando il Re Filimer» egli scrive «ebbe condotto il nostro popolo dalla Svezia in Scizia, trovò in mezzo alla popolazione del luogo certe streghe, ch’egli scacciò per via dei loro malefizi. Esse si persero nel deserto dove incontrarono gli Spiriti del Male che errano in quei paraggi e che se le presero come concubine. Dalla loro unione nacquero gli Unni, creature giallognole di odio, piccole, ferocissime, e incapaci perfino di articolare i loro pensieri».
Giordane, da buon goto, aveva ragione di fornire un ritratto così malevolo degli Unni: i suoi antenati erano stati, dopo gli Alani, le loro prime vittime in Europa. Ermanrico, in quel momento, regnava ancora su di essi, ma aveva superato i cento anni, e purtroppo era reduce da un grave incidente. Tradizionalista e austero com’era, aveva condannato a morte e fatto squartare una giovane Principessa, Saniel, rea di adulterio. E i fratelli di costei se n’erano vendicati tentando di ucciderlo. L’avevano soltanto ferito, ma in modo tale da indebolire gravemente la fibra di quell’irriducibile vegliardo. Giordane ce lo lascia soltanto capire; ma Ammiano Marcellino dice esplicitamente che un po’ per questo attentato, un po’ per la disperazione che gli procurava il flagello unno, cui non si sentiva in grado di resistere, Ermanrico si suicidò. Comunque, una cosa è certa: che con o senza resistenza, gli Ostrogoti furono sottomessi dagli Unni e lo rimasero per ottant’anni. Solo una frazione seguitò a combattere sotto la guida di Withimir che fu sconfitto e ucciso. I superstiti cercarono scampo in Valacchia.
Quanto ai Visigoti, essi si ammassarono sulla riva sinistra del Danubio, pressappoco dove oggi corre il confine fra la Bulgaria e la Romania. Era il limes. «Agitando le braccia e piangendo» racconta lo storico Eunapio «supplicavano che un ponte di barche fosse gettato per lasciarli passare.» Le autorità imperiali del posto risposero che non potevano prendersi quella responsabilità senza chiederne all’imperatore Valente che impose le seguenti condizioni: consegna delle armi, il che era logico; rinunzia ai bambini, che sarebbero stati trasferiti in altre regioni dell’Impero, il che era mostruoso.
I Goti dovettero accettare: non avevano altro scampo. E in realtà le due imposizioni rimasero sulla carta, perché sia le armi che i bambini furono nella maggior parte lasciati ai legittimi proprietari. In compenso, gerarchi e gerarchetti imperiali fecero a gara nello spogliare di tutti i loro averi quei poveri fuggiaschi tallonati dal terrore unno e nell’accaparrarsi i più solidi giovanotti come schiavi e le più belle ragazze come concubine. Gli altri furono abbandonati alla fame e al freddo dell’inverno. E lo spettacolo che l’Impero diede in quell’occasione di ladrocinio, indisciplina e disorganizzazione fu tale che, fra quei poveri internati, invece della gratitudine, incubò l’odio e la rivolta. Testardo e male informato, l’imperatore Valente decise di accorrere personalmente a infliggere un esemplare castigo ai ribelli, e per prima cosa, sapendo che costoro si erano incamminati su Adrianopoli, ordinò ai suoi luogotenenti in quella città di allontanare le milizie gotiche che militavano sotto le sue bandiere. Erano Goti minori, cristianizzati da Ulfila, fedelissimi all’Impero. I loro capi si dichiararono tuttavia pronti a obbedire purché si desse loro la cinquina e i rifornimenti per la lunga marcia che dovevano affrontare. Gli si rispose con minacce. E il risultato fu che quei reparti andarono ad accrescere le falangi degl’insorti, che si disponevano in assedio intorno alla città.
L’assedio non riuscì: i barbari non furono mai capaci di espugnare una fortezza romana. Il loro capo Fridigern, nel togliere il campo, disse: «Noi siamo abituati a combattere contro gli uomini, non contro mura di pietra». Ma il suo esercito era enormemente cresciuto per l’afflusso degli schiavi goti che accorrevano da tutti i distretti della Tracia. Fu un’annata terribile, quella fra il 377 e il 378, per le province bulgare e romene. I ribelli le misero a sacco scannando e rubando a più non posso. Valente tardava, trattenuto dalle difficoltà di una pace con la Persia. Alla fine venne, dando appuntamento ad Adrianopoli a suo nipote Graziano, che governava l’Occidente. I loro due eserciti avrebbero stretto in una morsa e stritolato i ribelli.
Il piano poteva benissimo riuscire, date le alte capacità di comando di Graziano, giovane e brillante Generale. Ma appunto perciò Valente, geloso di lui, invece di aspettarlo, commise la follia di attaccare da solo. Sembra che fosse stato male informato dai suoi esploratori che, mandati in avanscoperta, gli avevano riferito che il nemico non aveva più di diecimila uomini. Prima d’impartire l’ordine di attacco, egli ricevette una lettera di Fridigern che, in un supremo sforzo per evitare il conflitto, gli chiedeva per i suoi uomini la Tracia impegnandosi solennemente alla fedeltà all’Impero. Ma Ammiano dice che, insieme a questa lettera ufficiale, Fridigern ne aveva mandata un’altra confidenziale in cui suggeriva a Valente di rifiutare la proposta e di stringere più dappresso i ribelli in modo da impaurire gli estremisti e far trionfare il partito suo, quello dei moderati.
Ciò convinse ancora di più Valente della propria superiorità. Ammiano dice che sbagliò lo schieramento e non azzeccò una manovra. Comunque, quella di Adrianopoli (378) fu la più catastrofica disfatta che l’Impero avesse subìto da Canne in poi. L’Imperatore, ferito, si rifugiò in una capanna dove una pattuglia nemica lo bruciò vivo, pare senza sapere chi fosse. I due terzi dell’esercito imperiale, i più esperti veterani, trentasette Generali, rimasero sul campo.
Gli storici cristiani dissero che Valente era caduto in espiazione del peccato commesso consentendo ai Goti, quando li ammise al di qua del Danubio, di restare ariani. Fra non molto avrebbero rimpianto anch’essi quel divino castigo, che lì per lì ebbero l’aria di salutare con soddisfazione.