CAPITOLO NONO

ATTILA

Diciassette anni prima che Placidia morisse, e precisamente nel 433, era scomparso Rua, il Re che aveva guidato le orde unne fin nel cuore dell’Ungheria. E sul trono sedevano ora i suoi nipoti, Attila e Bleda.

Questa divisione del potere non era un’eccezione, ma il ritorno al vecchio costume di quel popolo equestre ed errabondo, nella cui tradizione i primi Re, Basi e Kursik, s’incontrano appunto in coppia. Lo stesso Rua dapprincipio aveva regnato insieme a suo fratello Oktar, e soltanto dopo la morte di costui aveva potuto accentrare nelle proprie mani il comando. Forse fu proprio questa la ragione per cui riuscì a imporre alle sue orde un alt così lungo e così contrario alla loro vocazione, lì sulle rive del Danubio. Il trono bipartito era sempre stato causa di gran debolezza e di anarchia.

Gli Unni erano ancora un popolo nomade. Ma da quando avevano varcato il Volga una settantina di anni prima, la loro marcia si era alquanto rallentata, per due motivi: prima di tutto perché per la prima volta erano venuti in contatto col limes dell’Impero, con le sue fortificazioni e i suoi sbarramenti, per quanto deteriorati; eppoi perché la massa unna aveva convogliato nella sua avanzata i detriti e i brandelli dei popoli germanici ch’essa aveva sottomessi e che ora forse costituivano il grosso del suo esercito. Alemanni, Sciri, Rugi, Gepidi, Goti erano ormai più numerosi degli stessi Unni, e non ne condividevano che parzialmente il nomade istinto. Essi avevano qualche nozione di agricoltura, e preferivano la casa, o almeno la capanna, alla tenda e alla groppa del cavallo.

Uno scrittore greco, Prisco, che fece parte di un’ambasceria di Costantinopoli, ci fornisce infatti degli Unni un ritratto assai diverso da quello lasciatoci da Ammiano Marcellino. Essi avevano una capitale, ora, sia pure di effimere catapecchie, ma che denunziava una certa vocazione alla stabilità. Si chiamava Aetzelburg, sorgeva vicino alla moderna Budapest, e doveva essere un ben curioso villaggio, policromo e poliglotta, dove si mescolavano i capitribù mongoli dalla pelle gialla, dagli occhi a mandorla, dagli zigomi in rilievo e dal corpo basso e tozzo, con i Re e i Generali tedeschi dal fusto alto, dagli occhi azzurri e dalla pelle rosea. Non c’era nulla, s’intende, che somigliasse a un’organizzazione statale e nemmeno cittadina. Non c’era una lingua scritta, non c’erano leggi, non c’era una burocrazia. Le ambascerie straniere che vi giungevano da ogni parte del mondo si acquartieravano sotto tende ch’esse stesse portavano al seguito, e lì restavano talvolta per mesi in attesa che il Re le ricevesse.

Attila e Bleda, quando salirono al trono, non avevano in comune che la giovane età e l’origine dinastica. Per tutto il resto differivano profondamente. L’unico ricordo che Bleda ha lasciato di sé è il suo affetto per un nano negro, Zercone, chissà da chi regalatogli, che lo divertiva come un giocattolo può divertire un ragazzo grossolano, ignorante e capriccioso. Trascorreva le sue giornate con lui, a ridere delle sue smorfie e pagliacciate. E un giorno che Zercone fuggì insieme ad alcuni prigionieri, Bleda mobilitò mezzo esercito per catturarlo. Quando glielo riportarono ammanettato e in catene, invece di punirlo, gli chiese premurosamente perché era scappato. Zercone rispose che lo aveva fatto per andare a cercarsi una moglie, visto che fra gli Unni non ne trovava. La cosa divertì enormemente Bleda che, dopo averne riso fino alle lacrime, mandò a chiamare una damigella di Corte, di nobile lignaggio, e le impose d’impalmare il mostriciattolo. Questi, dopo la morte del suo padrone, venne mandato da Attila in regalo a Ezio. Ma un bel giorno tornò ad Aetzelburg a chiedere che gli fosse restituita la moglie, la quale non lo aveva seguito. Attila non volle saperne, e il nano rimase lì anche lui di propria volontà, a fare il buffone durante le feste e i banchetti.

Erano stati i Goti, che ormai costituivano il nerbo del suo esercito, a coniare quel nome di Attila, che nella loro lingua voleva dire «piccolo padre». Ma si trattava di un padre un po’ a modo suo. Di statura piuttosto corta, largo di spalle, con una grossa testa sul collo taurino, naso piatto, una rada barbetta, zigomi sporgenti e occhi a spillo, solo a vederlo questo mongolo metteva i brividi addosso. La sua voce e i suoi gesti erano imperiosi. Camminava, come tutti i piccoli, a petto in fuori, conscio della propria potenza e importanza. Il suo orgoglio era pari soltanto alla sua avarizia, ch’era immensa. Il suo potere era basato unicamente sulla paura ch’egli ispirava. Non c’erano intorno a lui né entusiasmi né affetti, ma soltanto il terrore. Se fosse un genio come qualcuno ha detto, non sappiamo, e invano ne chiediamo conferma agli avvenimenti. Anche in campo militare, dove lo si vuol paragonare ad Annibale e a Napoleone, a conti fatti bisogna riconoscere che l’unica grande battaglia in cui si trovò impegnato la perse, o per lo meno non la vinse. In compenso, era scaltrissimo, rotto a tutti i raggiri, paziente e crudele. Francamente poligamo, era però molto sobrio nella dieta. Quando i suoi luogotenenti e dignitari, a contatto della civiltà romana, cominciarono a corrompersi, a ricercare il vasellame d’argento e le vesti di seta, egli seguitò ad andare vestito di pelli, a scaldare la carne cruda fra la propria coscia e la groppa del cavallo, e a mangiarla in rozze scodelle di legno.

Non abbiamo nessun elemento per affermare che Attila soppresse Bleda, come dice Prisco. Ma ne possediamo quanti bastano a ritenerlo capace di averlo fatto. Comunque, dopo una decina di anni di regno a due, e cioè nel 444, si trovò solo sul trono e con tutto il potere nelle mani.

Sino a quel momento, egli aveva svolto verso l’Impero una politica in cui la guerra fredda e la distensione si erano alternate. Abbiamo visto Ezio venir da Rua a chiedergli un corpo di spedizione per sostenere l’usurpatore Giovanni contro Placidia e Valentiniano. Altri distaccamenti di mercenari unni combattevano sotto le bandiere di Costantinopoli. Ogni tanto c’erano rivolte, incursioni e saccheggi; ma questo avveniva anche con le truppe tedesche. L’Impero pagava uno stipendio a Rua, che lo considerava un tributo: ma anche questo avveniva pure con gli altri barbari, e non si trattava di una forte somma.

Il fatto è che, sebbene confinanti, Rua e l’Impero avevano ancora un nemico comune che faceva da ammortizzatore fra loro: tutte quelle popolazioni barbare che si aggrovigliavano specie nei grandi spazi settentrionali fra l’Austria e il Baltico. Ma ora, con l’avvento di Attila al trono, i barbari del Nord o si erano sottomessi, com’era capitato ai loro confratelli più a Sud; o, rotto il limes, avevano fatto irruzione in Francia e Spagna, com’era stato il caso dei Franchi, dei Vandali, dei Burgundi (ed era stato appunto questo a far naufragare il sogno della pacifica e graduale integrazione accarezzato da Teodosio e da Placidia). Con la fine di questo «isolante», Unni e Romani si trovavano direttamente di fronte.

Morendo, Rua aveva lasciato in sospeso una «grana» diplomatica con Costantinopoli, cui aveva ingiunto di raddoppiare il tributo e di restituire non solo i disertori unni rifugiatisi dentro le terre dell’Impero, ma anche quei prigionieri romani che, catturati dagli Unni, erano riusciti a evadere, o di riscattarli con otto pezzi d’oro a testa.

A trattare coi successori, cioè praticamente con Attila, perché Bleda si occupava solo di Zercone, vennero da Costantinopoli due diplomatici, Plinta ed Epigene, che non conclusero nulla anche per mancanza d’interlocutori. Attila abitava in cima a una collinetta in una baracca di legno che si distingueva dalle altre per le proporzioni e per l’elegante palizzata che la circondava, con torri di guardia. Accanto, c’erano delle rudimentali terme. L’idea di costruirle era stata suggerita da un architetto romano, catturato in una scaramuccia. Con infinita difficoltà si era fatto venire del materiale dall’Italia, e il costruttore aveva sperato di ottenere in ricompensa la libertà. Attila invece, per premio, lo aveva nominato bagnino.

Plinta ed Epigene invano cercarono ciò che oggi si chiamerebbe una «Cancelleria» o «Segreteria di Stato» con cui mettersi in rapporto e trattare. Ad Aetzelburg non c’era nulla di tutto questo. Bisognava vedersela direttamente col Re, il quale non era abituato ad avanzar proposte, ma solo a impartire degli ordini. Ai due messi non restò che subirli pur con la ferma intenzione di evaderli.

Alcuni anni trascorsero tranquilli. Poi d’improvviso, nel 447, Attila si mise alla testa delle sue orde e, di saccheggio in saccheggio, le condusse fin sotto Costantinopoli. La città si salvò grazie alle sue mura. Ma l’imperatore Teodosio ebbe una tale paura, che si affrettò a triplicare il tributo che già pagava e coprì d’oro gli ambasciatori unni ch’erano venuti a esigerlo.

L’anno dipoi un’altra ambasciata giunse da Aetzelburg, capeggiata da Edecone e da Oreste. Li citiamo perché sono due personaggi, di cui udremo riparlare. Edecone era un barbaro, probabilmente uno sciro, che aveva fatto carriera sotto Attila fino a diventarne uno dei più importanti consiglieri. Ora era già padre di un marmocchio che si chiamava Odoacre. Oreste era di sangue barbaro anche lui, ma apparteneva a una famiglia della Pannonia che già da almeno un paio di generazioni aveva la cittadinanza romana. Parlava il latino, aveva una certa cultura, conosceva i classici, sapeva cosa fossero le Leggi e lo Stato, e dalla figlia di un certo conte Romolo di Passau aveva avuto a sua volta un figlio che si chiamava, come il nonno materno, Romolo.

Il più potente Ministro di Costantinopoli era a quei tempi l’eunuco Crisafio, ambiguo personaggio, che credette di poter giuocare d’astuzia inducendo Edecone a tradire Attila e a ucciderlo al suo ritorno. Edecone intascò il denaro, ma raccontò tutto al suo padrone che non se ne meravigliò affatto, e solo ne prese pretesto per mortificare gli ambasciatori romani e avanzare nuove richieste di denaro. Da quanto racconta lo storico Prisco che faceva parte di quelle ambascerie, non era mai su grandi problemi politici e di Stato che Attila s’intestardiva, ma sempre su miserabili questioni di «precedenze» e di quattrini. Una volta minacciò la rottura delle relazioni diplomatiche se non gli mandavano come ambasciatori delle personalità di grado almeno consolare, e pretendeva di designarne egli stesso i nomi. Quando poi essi giungevano, ostentava di non riceverli per settimane, talvolta per mesi, per invitarli alla fine a un banchetto in cui li confinava agli ultimi posti della tavola, facendoli servire dopo i più insignificanti dei suoi dignitari. Si addolciva soltanto quando dalle due capitali dell’Impero gli giungevano doni di gran valore. Allora andava di persona fino ai confini del suo Reame incontro ai messi che glieli portavano, e a tavola li faceva sedere al proprio fianco. Ezio, che lo conosceva bene, non lesinava.

L’avarizia e l’orgoglio erano insomma le due principali componenti del carattere di Attila. Una volta egli mandò alla Corte di Costantinopoli un ambasciatore, Esla, incaricato di leggere a Teodosio il seguente discorsino di saluto, dettato personalmente dal suo padrone: «Il mio signore, Attila, ha ereditato da suo padre Mundzuk il rango di Re, ma lo ha conservato. Non altrettanto hai fatto tu, Teodosio, che sei decaduto al livello di schiavo di Attila, rassegnandoti a pagargli un tributo…». Ma poi si scoprì che questa bella apostrofe era stata compilata solo per indurre Teodosio a largire a Esla una lauta mancia per addolcirlo. Il taccagno Attila, per arricchire i suoi funzionari senza rimetterci di tasca propria, li mandava come ambasciatori a Costantinopoli per procurarsi, con le minacce, qualche sostanziosa «bustarella». E il giuoco gli riuscì finché sul trono ci fu il gentile ma remissivo Teodosio II, l’Imperatore antimilitarista che preferiva alle guerre la miniatura delle pergamene.

Ma nel 450, l’anno in cui moriva Placidia, morì anche Teodosio, senza lasciare eredi maschi, e a prenderne il posto fu sua sorella Pulcheria, che per ragioni di stato si associò come marito un onesto e coraggioso soldato di nome Marciano. Uno dei primi gesti del nuovo sovrano fu l’invio ad Attila di un ambasciatore, Apollonio. Quando Attila seppe che costui era arrivato ad Aetzelburg senza il solito tributo e con modesti doni, gli mandò a dire che, se voleva aver salva la pelle, i doni li lasciasse a un segretario e se ne tornasse pure a casa. Apollonio rispose che gli Unni potevano anche ammazzarlo, ma che i doni lui li avrebbe consegnati personalmente ad Attila, o altrimenti li avrebbe riportati con sé a Costantinopoli. E così fece senza che Attila osasse mandare a effetto le sue minacce.

Il capo unno aveva capito che le cose a Costantinopoli erano cambiate, che con Marciano i ricatti avevano poche probabilità di successo. E forse fu per questo che, dopo essersi per tanti anni occupato quasi esclusivamente dei rapporti con l’Impero d’Oriente, volse d’improvviso la sua attenzione verso quello d’Occidente.

La scusa per attaccar briga con Roma già da un pezzo ad Attila era stata fornita da Onoria, la figlia di Galla Placidia e la sorella di Valentiniano. Questa ragazza scervellata, che doveva aver ereditato da suo padre Costanzo una buona dose di sensualità, aveva dato scandalo nella puritana Corte di Ravenna facendone con tutti di tutti i colori. Finché sua madre l’aveva esiliata a Costantinopoli, mettendola sotto la guardia di sua nipote Pulcheria, donna di carattere duro e severo. Onoria fu messa a una stretta dieta di studio e di preghiere. Finché un giorno, non potendone più, trovò il mezzo di mandare ad Attila un anello come pegno di fidanzamento, dicendosi pronta a sposarlo se lui la liberava da quella vita di collegio.

Attila di mogli ne aveva già in abbondanza, e poteva rinnovare l’harem quando e quanto voleva. Ma l’anello se lo mise in tasca, e ogni tanto lo tirava fuori con la pretesa d’impalmare la Principessa e soprattutto d’incamerarne la dote ch’egli stesso di volta in volta fissava in una o in più province dell’Impero. Ma si trattava soltanto di uno dei soliti ricatti per estorcere un aumento del tributo e qualche dono in aggiunta alle mance abituali.

Nel ’50 Onoria, ormai più che trentenne, era stata restituita a suo fratello Valentiniano, quando a costui fu recato un nuovo messaggio di Attila che gl’ingiungeva di trattarla con tutti i riguardi: egli la considerava la sua fidanzata e la proprietaria di una metà dell’Occidente. Valentiniano rispose che Onoria era già sposata (ma forse era una bugia) e che le successioni nell’Impero erano regolate per via maschile, non femminile.

Ma Attila ormai aveva deciso la guerra, e guerra doveva essere. Per mesi e mesi egli preparò il suo esercito, che in realtà non era un esercito, ma tutta la nazione in armi, secondo il costume barbarico dell’orda. Sicché quando si dice ch’egli si mosse con settecentomila uomini, non s’intende settecentomila soldati, ma forse settanta o ottantamila. Di questa massa, gli Unni erano una minoranza e ne formavano la cavalleria. Il grosso delle fanterie era costituito dalle tribù germaniche soggiogate: i Rugi, gli Sciri, quei brandelli di Franchi, di Turingi e di Burgundi che non avevano fatto in tempo a varcare insieme ai loro confratelli il Reno, e soprattutto le due grandi famiglie gotiche, gli Ostrogoti e i Gepidi, che Attila aveva interamente asservito. Gli Ostrogoti si erano particolarmente distinti nell’esercito unno, e il loro re Arderico godeva di una posizione di favore nello stato maggiore di Aetzelburg.

La ragione per cui questa policroma e poliglotta armata, appesantita dai carri che trasportavano le famiglie dei guerrieri e da una inverosimile sussistenza, cominciò dalla Francia l’assalto all’Occidente, non la si conosce con esattezza, ma forse va ricercata nella guerriglia che v’infieriva tra i barbari che vi avevano preso stanza. Il predominio dei Franchi non si era ancora affermato. Glielo contendevano i Visigoti che dopo la morte di Wallia avevano fondato un reame abbastanza solido di cui Tolosa era la capitale. I Sassoni si erano acquartierati sulle coste della Manica, gli erculei Burgundi erano in Savoia, e i pochi Alani scampati ad Attila e trascinati verso Ovest dai Vandali formavano un’isola a sé in Provenza.

Cosa restasse di autorità romana in questo Paese alluvionato dai barbari, non è dato sapere con certezza. Però ce n’era ancora un briciolo, rappresentato da qualche Prefetto, da qualche Questore e da alcuni presidi sparpagliati qua e là, a Lione, ad Arles, a Narbona, che cercavano di destreggiarsi approfittando delle rivalità altrui. Ogni tanto i rappresentanti imperiali si alleavano coi Visigoti contro i Sassoni o coi Sassoni contro i Burgundi, e vittorie effimere si alternavano con provvisori insuccessi. In realtà l’unica missione che i Romani ancora assolvevano in queste province occidentali era la conversione dei barbari a un certo rispetto della cultura latina, della lingua e dell’ordinamento legislativo e amministrativo. Ma come influenza politica ne esercitavano ben poca.

Attila evidentemente pensò di volgere a proprio favore tutti questi contrasti. E infatti mandò due ambascerie: una a Valentiniano, invitandolo a unirsi a lui per ridurre definitivamente alla ragione il vecchio nemico visigoto contro cui, al servizio di Roma, anche dei contingenti unni avevano combattuto; l’altra a Teodorico, il Re dei Visigoti, invitandolo a unirsi a lui per estromettere definitivamente Roma dalla Francia.

Ma Ezio, che conosceva bene il suo uomo per essere stato a lungo ostaggio ad Aetzelburg, ne sventò abilmente i piani. E Teodorico, sebbene fosse stato con lui ai ferri corti sino a poco tempo prima, ebbe abbastanza cervello per capire che, fra i due pericoli, quello unno era infinitamente più grosso di quello romano. Così, fra Ravenna e Tolosa, fu saldata un’alleanza che salvò la Francia da quello che fin d’allora si chiamava «il pericolo giallo».

Attila iniziò l’invasione dal Belgio, e fu la solita mareggiata devastatrice. Purtroppo i memorialisti della Chiesa, invece di darci la cronaca degli avvenimenti, la ridussero come al solito a una filastrocca di miracoli come quello di Servazio, Vescovo di Tongres, che in una visione fu avvertito da San Pietro della imminente catastrofe, o quello di Aniano, Vescovo di Orléans, che poi fu fatto Santo per essere riuscito a convincere Ezio della necessità di difendere la sua città. Tutto questo non impedì ad Attila di distruggere una dopo l’altra Reims, Cambrai, Treviri, Metz, Arras, Colonia, Amiens, Parigi (tuttora piccolo villaggio) e di discendere la valle della Loira lasciandosi dietro solo cumuli di fumanti macerie, fino a Troyes, la cui salvezza sembra che sia da attribuire a un altro mezzo miracolo.

Anche qui fu il Vescovo, Lupo, che si presentò ad Attila supplicandolo di risparmiare la sua città. E Attila accettò, ma a condizione che il sant’uomo pregasse per lui e per la vittoria del suo esercito. Il che Lupo fece, guadagnandosi certamente la gratitudine dei suoi concittadini, ma lasciando noi posteri un po’ perplessi non solo sul patriottismo, ma anche sulla fede religiosa di questo prelato che durante la battaglia si trovava nel campo dell’Unno pagano e idolatra a scongiurare il Cielo che lo facesse trionfare dei Cristiani impegnati con lui in una lotta mortale. Ma forse, siccome pregava in latino, ne approfittò per impetrare il contrario di ciò che aveva promesso.

La battaglia, comunemente chiamata «dei Campi Catalaunici», ebbe luogo nella piana di Mauriac, e fu sanguinosissima. Centosessantaduemila cadaveri stando a Giordane, rimasero sul terreno; ma il risultato rimane tutt’oggi un mistero. Teodorico cadde, alla testa dei suoi. E Attila dovette ripiegare. Ma lo fece ordinatamente senza che l’esercito romano-visigoto lo incalzasse. Qualcosa, in questo successo di Ezio, ricorda quelli di Stilicone contro Alarico. Ebbe egli il sospetto che, se annientava l’orda unna, Valentiniano e l’Impero non avrebbero avuto più bisogno di lui? Torismondo, ch’era stato acclamato sul campo Re dai Visigoti dopo la morte di suo padre, aveva anche lui qualche ragione a non insistere. La sua successione poteva essere contrastata dai suoi fratelli rimasti a Tolosa, dove non voleva tornare con un esercito a brandelli. Sono supposizioni, intendiamoci; ma purtroppo non abbiamo di meglio per spiegare lo strano episodio.

Comunque, nella piana di Mauriac si decisero le sorti dell’Europa. Essa doveva restare nelle mani dei Tedeschi e dei Latini.