Quando, alla morte di Attila, l’orda unna si era disgregata e i popoli vinti che in essa erano confluiti tornarono liberi, gli Ostrogoti chiesero e ottennero da Bisanzio il permesso di stanziarsi in Pannonia, che corrispondeva alla parte occidentale della moderna Ungheria. Il loro Re, Teodemiro, era un uomo inquieto e ambizioso. Nel 458 invase l’Illiria e la devastò. L’imperatore Leone lo fermò in tempo con una grossa somma di denaro prima che traboccasse in Tracia. Greci e Goti fecero la pace, e si scambiarono – come d’uso – gli ostaggi.
Fra costoro c’era anche il figlio del Re. Si chiamava Teodorico – che significava «capo-popolo» –, aveva sette anni, era un bel bambino biondo con due grandi occhi celesti. La madre Erelieva era stata una concubina di Teodemiro che l’aveva conosciuta nell’accampamento di Attila. Il piccolo Teodorico era cresciuto in mezzo ai guerrieri goti. Sapeva cavalcare, aveva imparato a manovrare l’arco ed era un buon cacciatore. La spada era il suo balocco preferito. Dormiva, come il padre, sotto la tenda, accanto al suo cavallo, al centro del Ring. Qui, nelle tiepide notti d’estate, i cantastorie gli narravano le antiche saghe nordiche e gli leggevano la Bibbia, quella tradotta dal saggio Ulfila. Il giorno della partenza per Costantinopoli, Teodemiro gli donò il suo pugnale, e una scorta di Goti l’accompagnò fin sul Bosforo.
Teodorico era sempre vissuto nella prateria tra i carri, le greggi e i cavalli e non aveva mai visto una città. Bisanzio era la più grande metropoli del mondo. Aveva quasi un milione d’abitanti e ospitava una Corte favolosa. Teodorico restò abbagliato dalla profusione di ori e di marmi e dall’abbondanza di tappeti e di arazzi. L’imperatore Leone lo ricevette nella sala della corona, appollaiato su un trono spropositato, sotto un baldacchino di damasco dal quale pendevano due uccelli meccanici. Era un uomo piccolo, calvo, privo d’ingegno, balbuziente, un po’ zoppo e pieno di piccole manie. Viveva nel terrore di essere detronizzato e di notte si chiudeva a chiave in camera da letto per paura che qualcuno lo uccidesse nel sonno. Il principino goto, giunto al suo cospetto, s’inchinò, ma lo fece così maldestramente che scivolò.
Per sostenersi s’aggrappò al piede del sovrano che spenzolava nel vuoto e per poco non tirò Leone giù dal trono. L’Imperatore ne fu divertito e prese a benvolere il ragazzo. Lo alloggiò a Corte e gli assegnò un bell’appartamento al primo piano del palazzo sacro, le cui finestre s’affacciavano sul Bosforo. Poi chiamò due servi e ordinò di preparare un bagno caldo per il piccolo ospite. Teodorico fu calato in una vasca di marmo, schiumante di sapone, e accuratamente lavato. Un parrucchiere gli tagliò i capelli biondi e riccioluti che gli scendevano sulle spalle, e lo cosparse di profumi. Poi, con una tunica azzurra stretta alla vita da una cinturina di marocchino con una fibbia d’oro e un paio di pantofole di porpora, fu condotto a scuola.
A Bisanzio c’erano molti collegi, ma uno eccelleva sugli altri: era qualcosa come Eton o Harrow oggi in Inghilterra. Lo frequentavano i figli dei ricchi e dei nobili, e i rampolli dei satrapi stranieri. Teodorico vi compì tutti i suoi studi, al termine dei quali rimase un analfabeta con qualche nozione di algebra, di astronomia e di galateo. Quando compì quindici anni fece il suo debutto in società. Era un gran bel ragazzo forte, fiero e sicuro di sé. Parlava correntemente il greco, masticava un po’ di latino e non aveva dimenticato il gotico. Era educato e galante, nei salotti le signore se lo contendevano, l’Imperatore lo invitava a pranzo e lo faceva servire per primo. Teodorico era ghiotto di lenticchie, aglio e cinghiale. Gli piaceva il vino ma non si alzava mai da tavola ubriaco. Dopo cena, di solito, andava in qualche locale notturno a fare un po’ di baldoria con gli amici. La domenica assisteva all’ippodromo alle corse dei cocchi. Aveva uno scanno riservato nella tribuna d’onore accanto a quello di Leone, ma preferiva mescolarsi col popolino sugli spalti ed era amico dei fantini. Qualche volta, durante gli allenamenti, scendeva anche lui in lizza. Passava l’estate in allegra compagnia in una villa che aveva preso in affitto sul Bosforo. Era un nuotatore formidabile e di una resistenza a tutta prova.
Nel 470 – ma la data è incerta – tornò in Pannonia. Aveva diciotto anni ed era ormai un uomo fatto. Di statura superiore alla media, aveva una testa grossa e rotonda, una fronte spaziosa, un bel naso aquilino e due sopraccigli folti e cespugliosi che gli coprivano le palpebre, le orecchie spanse e vibratili come radar. La bocca, ai cui angoli spiovevano un paio di poderosi baffi biondi, mostrava una superba dentatura che faceva risaltare le labbra esangui e sottili. Le narici erano così irte di peli che ogni mattina un barbiere, munito di uno speciale rasoio, doveva sfoltirle per facilitargli la respirazione. Un petto villoso e gladiatorio sosteneva il collo taurino. Le gambe, diritte e muscolose, poggiavano su due piedi corti e affusolati. Teodemiro quando lo rivide non lo riconobbe. Teodorico trovò il padre molto invecchiato e un po’ rimbambito. Erano stati lontani dieci anni e non si erano scambiati che pochi messaggi.
La Pannonia era allora minacciata dai Sarmati che avevano invaso la Mesia e premevano sui suoi confini. All’insaputa del padre, Teodorico arruolò seimila uomini, passò il Danubio, si avventò sul nemico e lo sterminò. Tagliò la testa al Re Badai, la conficcò in cima a una picca e con questo trofeo tornò in Pannonia. Poco tempo dopo fu incoronato Re. La Pannonia era diventata troppo stretta per i Goti, i quali avevano continuamente bisogno di spazio. Nomadi e pastori, vivevano di pascoli e di saccheggio e la vita sedentaria li affamava. Bisanzio in quel momento aveva ammassato gli eserciti sui confini orientali lasciando aperte, anzi spalancate, le porte della Macedonia. Attraverso queste porte, con tutto il suo popolo, Teodorico si accinse a passare. Colse di sorpresa le resistenze greche e le travolse. Il nuovo imperatore Zenone, succeduto nel 474 a Leone, chiese la pace; e i Goti, in cambio della Macedonia, dove si stanziarono, deposero le armi. Nel 478 però le ripresero e si trasferirono in Scizia, sulle rive del Mar Nero.
Per Bisanzio, il Re goto era diventato un inquilino scomodo e imprevedibile. Nel 484 l’Imperatore lo nominò Console. S’illudeva con gli onori d’amicarselo. Teodorico indossò la toga, e due anni dopo, per tutto ringraziamento, invase la Tracia e cinse d’assedio – ma senza fortuna – la stessa Bisanzio. La Scizia evidentemente non era stata la terra promessa che egli aveva sperato. Zenone allora l’invitò a occupare l’Italia.
La Penisola era di fatto diventata un Regno indipendente anche se Odoacre la governava in nome di Costantinopoli. Lo storico greco Procopio riferisce che Teodorico accettò con entusiasmo la proposta che in realtà mirava più a liberare i Balcani dai Goti che a riconquistare un Paese sul quale l’Imperatore non esercitava più alcun controllo.
La lunga marcia di Teodorico ebbe inizio nel tardo autunno del 488. Era un intero popolo che migrava: donne, vecchi, bambini, carri, capre, masserizie. Duecentocinquantamila Goti, di cui solo cinquantamila in assetto di guerra e alcune centinaia di mercenari greci in cerca di avventure muovevano verso Occidente lungo l’antica rotta danubiana, attraverso le strade che Roma aveva costruito e gli Unni non avevano fatto in tempo a distruggere. Per i primi cinquecento chilometri non fu che una lunga passeggiata. Poi cominciò l’anabasi, quando i Goti giunsero ai confini della Dacia dove erano acquartierati i loro cugini Gepidi. Teodorico chiese il diritto di passaggio sul loro territorio ma ebbe un rifiuto. I Gepidi furono attaccati nei loro accampamenti e sbaragliati. I Goti arruolarono nell’orda i pochi superstiti dopo aver trucidato i vecchi e gli invalidi, e ripresero il cammino verso Nord-Ovest. Nell’agosto dell’anno successivo valicarono le Alpi Giulie e calarono in Italia.
Odoacre non era rimasto con le mani in mano. Aveva mobilitato l’esercito e l’aveva concentrato sulle rive dell’Isonzo dove aveva scavato trincee ed eretto fortificazioni. Il 28 agosto, i Goti si scontrarono con le bande di Odoacre e le sconfissero. Il 30 settembre i due eserciti si affrontarono di nuovo a Verona. Prima della battaglia Teodorico, ch’era assai superstizioso, volle indossare un mantello di seta che la madre e la sorella gli avevano confezionato durante la lunga marcia. Ancora una volta Odoacre fu battuto e volto in fuga. Cercò scampo a Roma ma i Quiriti, che lo detestavano, gli chiusero la porta in faccia. Allora ripiegò su Ravenna, dopo aver devastato il Lazio e decimato i suoi abitanti.
Il Re goto non l’inseguì, ma puntò su Milano dove le retrovie nemiche avevano cercato riparo, e la occupò. I seguaci di Odoacre furono fatti prigionieri. Il Generale che li comandava, un erulo di nome Tufa, chiese di essere arruolato fra i Goti. Teodorico l’accontentò, lo mise alla testa di un esercito e lo spedì ad assediare Ravenna. Appena vi giunse, divorato dal rimorso – o dalla paura – Tufa si rimise agli ordini di Odoacre. Migliaia di Goti furono catturati e uccisi, e le sorti della guerra minacciarono di rovesciarsi. Teodorico allora abbandonò Milano, e marciò su Ravenna. Poiché la città era praticamente inespugnabile fece scavare un ampio fossato intorno alle mura e vi ammassò le truppe. Quindi partì per Roma, dove fu accolto come un liberatore. Di qui mosse alla conquista del Mezzogiorno che pacificamente gli si sottomise.
Ai primi del 493, stremata da un assedio che durava da oltre due anni e da una carestia che aveva ridotto i suoi abitanti a cibarsi di erba e di carne di cane, Ravenna capitolò. Due giorni dopo fu firmata la pace che il vescovo Giovanni benedisse. Odoacre invocò la clemenza di Teodorico e gli consegnò il proprio figlio Telano in ostaggio. Il 5 marzo il Re goto attraversò a cavallo la città tra le ovazioni del popolo e del Clero. Giovanni ordinò un Te Deum di ringraziamento e gli andò incontro con la croce e un codazzo di preti salmodianti. I festeggiamenti si conclusero con un gran banchetto in onore di Odoacre al termine del quale Teodorico sgozzò il rivale dopo aver fatto sterminare tutti i suoi familiari. Procopio racconta che Odoacre fu ucciso perché aveva osato chiedere al Re goto di poter governare con lui.
La conquista della Penisola era durata in tutto cinque anni: gli eserciti avevano desolato le campagne, spianato le città, trucidato gli abitanti. Ma oltre che dalla guerra la popolazione era stata falciata dalle carestie, dalle pestilenze e dagli immancabili cataclismi naturali. Lo storico Ennodio racconta che la fame uccideva chi sopravviveva alla spada. Odoacre non aveva governato né meglio né peggio dei suoi predecessori. Non aveva costruito nulla e nulla aveva distrutto. Aveva conservato l’Italia come l’aveva trovata: una terra di rapina e di conquista alla mercé di tutti. Con Teodorico molte cose cambiarono e la situazione migliorò.