CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

I PADRI DELLA CHIESA

Se le eresie di Ario, di Donato e di Nestorio avevano minacciato di scardinare la Chiesa, i suoi Padri – Ambrogio, Girolamo, Agostino – le ridiedero unità e vigore.

Di Ambrogio abbiamo già detto come da governatore diventò Vescovo di Milano e al cospetto di Teodosio proclamò la superiorità del potere spirituale, incarnato dalla Chiesa, su quello temporale, incarnato dall’Imperatore. Fu un grande predicatore e i suoi sermoni erano ascoltati e applauditi da migliaia di fedeli. Compose un’opera di esegesi biblica – l’Hexaemeron – e un commento al Vangelo di San Luca. Rinnegando il suo passato di funzionario romano affermò che il primo dovere di un Cristiano non era l’obbedienza allo Stato ma a Dio, di cui i Vescovi erano i vicari in terra. Fu autore di bellissimi inni fra i quali il celebre «Veni Redemptor Gentium» ne ispirò uno analogo a Martin Lutero.

Quando Girolamo nacque nel 340 a Stridone, un piccolo villaggio al confine tra la Dalmazia e la Pannonia, non erano trascorsi che quindici anni dal Concilio di Nicea che aveva scomunicato Ario, e l’eco di quella drammatica lotta non si era ancora spenta. In Oriente e in Occidente, il Clero non riuscendo a mettersi d’accordo sulla natura, creata o increata, di Cristo, si divideva e si scomunicava. Girolamo andò giovinetto a Roma per compiervi gli studi, frequentò per alcuni anni la scuola del celebre grammatico Elio Donato e ne divenne l’allievo prediletto. Era dotato di una grande intelligenza e possedeva una memoria prodigiosa. Sentiva tutto il fascino della cultura classica e conosceva a memoria Catullo e Lucrezio. A Roma imparò anche il greco, sui testi di Platone, Aristotele e Tucidide.

Conseguito il suo bravo diploma, lasciò la Capitale e si trasferì ad Aquileia dove, con alcuni amici, fondò un monastero. Era un asceta vegetariano, portava il cilicio, si sottoponeva a veglie e digiuni, e passava buona parte della giornata in preghiera. Le sue prediche erano in tono con l’austerità della sua vita ma dispiacevano al Vescovo che in fatto di morale era piuttosto accomodante. Girolamo, quando lo seppe, gli diede dell’eretico, e con alcuni compagni abbandonò Aquileia, la «Sodoma dell’Illiria». Riparò ad Antiochia dove entrò in un convento. Ma il clima della Siria era umido e insalubre. Con una bisaccia a tracolla e una scorta di libri Girolamo si ritirò allora nel deserto e per quattro anni visse come un anacoreta. Pregava e leggeva. Ma più i carmi di Catullo che i Vangeli.

Nel 379 tornò ad Antiochia e fu ordinato prete. Aveva appena trentanove anni ma era già un vecchio, malato, canuto e macilento. Nel 382 papa Damaso, che cercava un segretario, lo chiamò a Roma e gli affidò la traduzione latina del Nuovo Testamento. Girolamo s’istallò in Laterano. Indossava una mantellina di capra e una tunica unta e sbrindellata, camminava scalzo e portava al collo un crocifisso di legno. Mangiava in piedi in una ciotola di creta e dormiva sulla paglia. I prelati della Curia lo guardavano con un miscuglio di disprezzo e d’invidia dall’alto dei loro sontuosi baldacchini. Due dame dell’alta società, Marcella e Paola, note per la loro filantropia ma più ancora per il loro bigottismo, lo nominarono consigliere spirituale. Girolamo frequentava il loro salotto, commentava la Bibbia e faceva propaganda in favore della verginità e del celibato.

Roma, nonostante la Chiesa, o forse proprio per questo, era una città depravata e le vergini si contavano sulla punta delle dita. Non lo erano forse nemmeno Marcella e Paola sebbene fossero tutt’e due nubili. Qualcuno accusò addirittura Girolamo di trescare con loro. Ma era una calunnia alla quale il Santo replicò con una violenta filippica contro le donne che si dipingono, indossano parrucche, vanno scollate, portano il busto e abortiscono. Non risparmiò neppure i preti ai quali rimproverava le vesti troppo ricche e le acconciature ricercate. La piaga dell’umanità – diceva – è il matrimonio. Lo considerava l’ottavo peccato capitale, e si dimenticava che era un sacramento. Era ossessionato dal sesso e proponeva di «abbattere con la scure della verginità l’albero del matrimonio». In una lettera a una fanciulla di nome Eustochio esaltò i piaceri della castità. Forse perché – insinuarono i maligni – non aveva mai gustato quelli della lussuria. Disse che la verginità poteva essere perduta anche con un solo pensiero e raccomandò, per serbarla, il cilicio e il digiuno. Dopo la pubblicazione della lettera fu aggredito da alcuni scalmanati e bastonato. Nel 384 una giovane asceta morì in seguito a una prolungata astinenza. La madre ne tenne responsabile Girolamo, e i Romani proposero di ucciderlo e di buttarlo nel Tevere. Dovette intervenire il Papa ma egli fu costretto a lasciare l’Urbe. Partì per Betlemme conducendo con sé la bella Eustochio. Andò ad abitare in una grotta, dove passò, in letture e in preghiere, il resto della sua vita.

Fu uno degli uomini più dotti del suo tempo. Dall’aramaico e dall’ebraico tradusse in latino la Bibbia, che passò alla Storia sotto il nome di Vulgata. Modello di finezza interpretativa e di stile, essa resta uno dei più alti monumenti letterari del Medio Evo. Girolamo morì in solitudine nel 419. Già da alcuni anni, consunta dalla tisi, era calata nella tomba la vergine Eustochio. La perdita della compagna lo aveva piombato nello sconforto e isolato vieppiù dal mondo. Fu il più bisbetico e il più arcigno dei Padri della Chiesa. Più che un Santo, fu un moralista brillante e battagliero. Paragonò il Patriarca di Gerusalemme Giovanni a Giuda e il povero Ambrogio a un corvo. Litigò con gli amici e perseguitò i nemici, che lo accusarono di essere ipocrita e avaro. A San Girolamo la teologia cristiana è debitrice della sua lingua; la morale, del suo rigore.

Nel momento in cui Girolamo lasciava la nativa Stridone per trasferirsi a Roma a continuarvi gli studi, in una piccola città della Numidia, Tagaste, nasceva nel 354 Sant’Agostino. Il padre Patrizio era assessore comunale e aveva un piccolo fondo. Era un uomo grossolano e scostumato. Amava le donne, il gioco e la buona tavola. La madre, tutta casa e chiesa, si chiamava Monica, e si guadagnò il Paradiso perdonando le numerose infedeltà del marito.

Agostino assomigliava al padre. Era magro, piccolo, bruno, aveva occhi e capelli neri e le gambe leggermente storte. A dodici anni fu mandato a scuola a Madaura e a diciassette a Cartagine. Era un ragazzo turbolento e intelligentissimo. Studiò latino, retorica, matematica, musica e filosofia. Lesse con avidità Platone, ma nella traduzione latina perché conosceva male il greco. A Cartagine conobbe una bella ragazza e ne fece la propria amante. La condusse con sé in casa dell’amico Romaniano, di cui era ospite. Quando Monica ne fu informata, si precipitò a Cartagine per indurre il figlio a regolarizzare la sua posizione e a sposare la concubina. Ma al matrimonio Agostino era allergico. A diciotto anni gli nacque un figlio, cui impose il nome di Adeodato. Nel 385 piantò la compagna e tornò con la madre. Insegnava retorica e grammatica e guadagnava abbastanza per mantenere la famigliola e pagare i debiti del padre.

Cartagine, prima dell’arrivo dei Vandali, era una bella città di provincia, colta e ricca, ma noiosa. A ventinove anni Agostino decise di trasferirsi a Roma. Partì alla chetichella per paura che Monica lo seguisse. Nell’Urbe trovò subito un posto d’insegnante, ma dopo un anno diede le dimissioni perché gli studenti non lo pagavano. Simmaco, il Senatore pagano, gli offrì una cattedra di grammatica a Milano. Agostino emigrò nella città lombarda dove, poco dopo, Monica lo raggiunse. Aveva rinunciato all’idea di ammogliarlo e ora voleva a tutti i costi farlo battezzare.

A Milano Agostino entrò in contatto con le grandi correnti della filosofia classica. Per nove anni fu un seguace del manicheismo che nel 383 rinnegò per il neoplatonismo. Un giorno il vescovo Ambrogio lo invitò ad ascoltare le sue prediche e a leggere le Epistole di San Paolo. L’impenitente peccatore ne rimase fulminato. La domenica di Pasqua del 387 Agostino e Adeodato furono battezzati, e poche settimane dopo ripartirono per l’Africa. A Ostia, al momento d’imbarcarsi, Monica morì. Ma prima di spirare raccomandò ancora una volta al figlio di sposarsi.

Sbarcato a Cartagine, Agostino vendette i pochi beni che possedeva, distribuì il ricavato ai poveri e si trasferì a Tagaste dove fondò un monastero in cui andò ad acquartierarsi col figlio e con l’amico Alipio. Nel 389, Adeodato morì. Due anni dopo il Vescovo di Ippona, che conosceva Agostino e aveva bisogno di un collaboratore, lo ordinò prete e gli mise a disposizione il proprio pulpito. Ippona era una città di quarantamila abitanti, in maggioranza pagani e manichei. C’era solo una chiesa cattolica e uno sparuto gruppo di fedeli. Il Vescovo manicheo era un certo Fortunato, un predicatore efficace e pieno di foga. Agostino lo sfidò a un pubblico dibattito che si svolse al cospetto di un’immensa folla e durò due giorni. Fortunato fu letteralmente sommerso dall’impeto oratorio del rivale. Sceso dal pulpito, tra i lazzi e gli sberleffi degli spettatori, il poveretto fu costretto a fuggire da Ippona.

Nel 396 il vecchio Valerio si ritirò in un monastero e nominò Vescovo Agostino, che per trentaquattro anni resse la diocesi africana, coadiuvato da due diaconi e due monaci. Dormiva su una branda in un’umida cella, indossava una vecchia tonaca, mangiava solo verdura e spesso digiunava.

L’unico comfort era una stufetta a legna che lo riparava dal freddo e dai reumatismi.

Fu un grande Vescovo perché riuscì a cacciare i donatisti da Ippona e a farli condannare nel 411 come eretici da un Concilio, convocato a Cartagine dall’imperatore Onorio. Ma la sua passione era la teologia. Polemista violento e appassionato, scrisse migliaia di lettere e centinaia di trattati, guadagnandosi i galloni di primo Dottore della Chiesa. Il peccato originale, il libero arbitrio, i rapporti tra l’Uomo e Dio furono i grandi temi delle sue ricerche. Nel De libero arbitrio, che fu una delle sue prime opere, dimostrò che Dio lascia all’uomo la libertà di scegliere tra il bene e il male. Pochi sono gli eletti, predestinati al Regno dei Cieli dagli imperscrutabili disegni della Provvidenza. Parecchi secoli più tardi, i calvinisti si riallacciarono ad Agostino elaborando la loro dottrina sulla Grazia. Nel De Trinitate cercò di spiegare la coabitazione di tre Persone – Padre, Figliuolo e Spirito Santo – in una sola: Dio.

Il migliore Agostino è però racchiuso nelle opere filosofiche. Le Confessioni, scritte a quarantasei anni, sono una brillante autobiografia di centomila parole. Contengono la storia della sua vita, dagli «anni ruggenti» di Madaura e Cartagine, al viaggio in Italia, all’incontro con Ambrogio. L’autore ripercorre le tappe della sua Fede, fino alla conversione, al battesimo e alla prima milizia cristiana quando Valerio lo nominò Vescovo d’Ippona. «Le Confessioni» è stato scritto «sono poesia in prosa. La Città di Dio è filosofia in storia.» Scritta dal 413 al 426, è uno zibaldone di milleduecento pagine, in ventidue libri. Agostino la pubblicò a puntate, e quando giunse a metà sì dimenticò l’inizio. È una superba apologia del Cristianesimo e un atto d’accusa al Paganesimo. I filosofi romani avevano attribuito la decadenza dell’Impero ai Cristiani e alla loro nuova religione che aveva liquidato quella antica di Augusto e di Marco Aurelio. Agostino replicò che furono i pagani col loro politeismo a provocare il crollo dell’Impero. I barbari, quando invasero l’Italia, abbatterono i templi di Giove e di Minerva, ma risparmiarono le chiese di Cristo. La Città di Dio, di cui la Chiesa custodisce in terra le chiavi, fu costruita dagli angeli. A essa si contrappone la Città degli uomini, edificata dal Demonio. Nella Città di Dio affondò le sue radici la teocrazia medievale, la dottrina cioè della supremazia del potere spirituale su quello temporale, del Papa consacrato da Dio sui Re incoronati dagli uomini.

Gli ultimi anni di Agostino furono drammatici e tribolati. I Vandali di Genserico assediavano Ippona, dove il vecchio Vescovo moriva lentamente di arteriosclerosi, di emorroidi e d’inquietudine davanti ai grandi problemi di dottrina che lo tormentavano. La donna conserverà in cielo il sesso che aveva sulla terra? Cosa accadrà il giorno del Giudizio di coloro che furono divorati dai cannibali? Morì a settantasei anni, povero com’era vissuto, senza lasciare testamenti né ricchezze, e senza aver trovato una risposta a queste domande. Sant’Agostino dominò il pensiero occidentale fino a San Tommaso e a lui si ricollegarono i riformatori protestanti. Asservì l’intelletto al sentimento religioso e fondò la filosofia medievale.

È difficile calcolare la portata dell’influenza esercitata dai Padri della Chiesa. Voltaire, a chi gli chiedeva un giorno se li avesse letti, rispose: «Sì, ma me la pagheranno».