I Goti prima, i Longobardi poi sottrassero l’Italia all’Impero. Nella Penisola Bisanzio conservò a lungo un caposaldo: Ravenna, e un interlocutore: il Papa. A Ravenna risiedeva l’Esarca, ch’era diventato una specie di Viceré in esilio. Ufficialmente era il rappresentante dell’Imperatore ma, in pratica, non rappresentava che la sua impotenza. Era in relazione col Pontefice. Faceva la spola tra Ravenna, Roma e Costantinopoli. Riceveva ordini dal Basileus e li trasmetteva al Papa che regolarmente li trasgrediva.
Roma ribadiva la propria obbedienza a Bisanzio ma con accenti sempre più polemici. L’Impero d’Oriente aveva scatenato contro quello d’Occidente, di cui l’Urbe continuava a rivendicare il titolo di capitale morale, l’alluvione gotica e non aveva saputo arginare quella longobarda. I rapporti del Papa col Patriarca di Costantinopoli erano tesi. Il secondo non riconosceva la supremazia del primo e reclamava per sé un primato che i grandi Concili ecumenici gli avevano rifiutato. Era fatale che il cordone ombelicale che univa Roma a Bisanzio finisse col lacerarsi. Due eventi precipitarono la crisi: l’editto contro le dispute religiose – o Tipo – e quello contro il culto delle immagini – o Iconoclasmo.
Il Tipo fu bandito nel 648 dall’imperatore Costante II. Era un uomo scettico, prepotente e bizzarro. Gli piaceva comandare. Non andava mai in chiesa e detestava i monaci che infestavano l’Impero e lo corrompevano. Solo a Bisanzio ce n’erano circa diecimila. Vivevano di elemosine e custodivano nei conventi le reliquie dei Santi e dei Martiri che il popolino credulone venerava come talismani miracolosi. Erano rissosi, intriganti e depravati. Fomentavano disordini e ordivano congiure. Erano ricevuti a Corte con tutti gli onori, soprattutto dalle Imperatrici di cui talvolta erano i confessori e spesso gli amanti. Il Basileus li proteggeva e il Patriarca li temeva. Col Tipo Costante s’illuse di restituirli alla cura delle anime e di porre fine alle interminabili diatribe che essi scatenavano e che avevano finito col contagiare anche il Clero secolare. Il Tipo conteneva le sanzioni contro coloro che non si fossero uniformati. Il trasgressore, se Vescovo, veniva deposto; se laico, licenziato in tronco; se nobile, punito con la confisca di tutti i beni, che lo Stato incamerava. Il Patriarca ratificò il decreto e lo rese esecutivo.
In Italia esso scatenò tuoni e fulmini. Il papa Martino convocò in Laterano un Concilio di duecento Vescovi che scomunicò il Patriarca. Non osò scomunicare Costante, ma con quel gesto ne sottintese la condanna. Risoluto a imporre il Tipo anche in Italia, l’Imperatore ordinò all’Esarca Olimpio di recarsi a Roma e di assassinare il Pontefice. Olimpio partì con una piccola scorta di soldati. I Romani l’accolsero con ostilità. Il sicario incaricato di pugnalare Martino mentre sull’altare della basilica di Santa Maria Maggiore celebrava la messa, nell’atto di colpire il Papa, fu accecato. Così almeno riferiscono le fonti ecclesiastiche che hanno sempre costruito la storia sui miracoli. Olimpio lasciò Roma e partì per la Sicilia dove, alcuni anni dopo, morì combattendo contro i Saraceni.
Nel giugno del 653 Costante affidò al nuovo Esarca Calliopa la stessa missione in cui era fallito il suo predecessore. Martino si rifugiò nella basilica del Laterano e si barricò in un baldacchino che aveva fatto istallare ai piedi dell’altare. Ciò non impedì ai soldati bizantini di entrare nel tempio e trascinarne fuori il Papa. Il popolino tumultuò contro l’Imperatore e il sangue corse. La mattina del 19 giugno, all’alba, il Pontefice, vecchio e malato, fu caricato su una nave con sei accoliti e un cuoco. Trasportato a Nasso fu rinchiuso in una specie d’osteria dove trascorse più d’un anno, sottoposto a continue angherie e a ogni sorta di disagi. Gli sbirri gli proibivano persino di radersi e di tagliarsi i capelli. Due volte sole gli diedero il permesso di fare il bagno.
Nel settembre dell’anno successivo fu condotto a Costantinopoli. Durante la traversata fu colto da un attacco di dissenteria, e quando sbarcò i Bizantini l’accolsero a sberleffi. Tre mesi dopo fu processato. In tribunale i giudici gli impedirono di sedersi. Quando le forze gli venivano meno due soldati lo sorreggevano. Un interprete lo interrogava: Martino non conosceva il greco, e i suoi accusatori ignoravano il latino. Fu riconosciuto colpevole d’intelligenza coi nemici di Cristo, di scarsa devozione alla Vergine, e condannato a morte. La pena gli fu poi commutata in quella del confino che scontò a Cherso, sul Ponto Eusino, dove nel settembre del 655 morì di gotta, dimenticato da tutti e ridotto a comprare il pane alla borsa nera. La Chiesa lo fece Santo.
Durante il suo esilio, a Roma era stato eletto Papa un prete di nome Eugenio che regnò tre anni infischiandosi del Tipo e di Bisanzio. Gli successe un certo Vitaliano che con Costante dovette invece fare i conti. Il giovane Basileus aveva deciso di ritrasportare la Capitale a Roma e di restaurare l’Impero d’Occidente. L’assurdo progetto non era ispirato da nobili propositi di gloriosa riconquista. Era solo sollecitato da una vergognosa paura. I Musulmani sfidavano da Est la Grecia e minacciavano di sommergerla. Sullo scorcio del 662, quasi alla chetichella, Costante salpò dalla nuova Roma alla volta di quella vecchia. Quando la nave levò l’ancora si portò a poppa e rivolto ai concittadini che gremivano la banchina sputò ripetutamente al loro indirizzo. Non aveva mai amato i Bizantini i quali lo avevano sempre detestato. Al principio del 663 sbarcò a Taranto. Invase il Ducato di Benevento, ma fu volto in fuga dai Longobardi accorsi in sua difesa. Allora risalì a Nord e puntò su Roma. Il 5 luglio ne varcò le mura. Il Papa lo benedisse e il popolo lo portò in trionfo fin dentro la basilica di San Pietro sul cui altare egli depose ricchi doni.
Costante restò a Roma dodici giorni, il tempo per demolire la cupola del Pantheon e trafugare le tegole di rame che la ricoprivano. Il tredicesimo caricò i coppi sulle navi e partì per Siracusa. Morì nel 668 in Sicilia, assassinato da un servo che lo colpì con un portasapone mentre si trovava nella vasca da bagno. Con lui fu sepolto l’ultimo tentativo di riportare l’Italia sotto l’Impero bizantino.
L’Iconoclasmo ribadì e inasprì la crisi che il Tipo aveva aperto e che nemmeno la morte del suo autore aveva sopito. L’editto contro il culto delle immagini fu promulgato nel 726 dall’Imperatore Leone III. Era nato in Cilicia da genitori armeni, e il padre era un ricco allevatore di pecore. Quando Giustiniano II fu coronato Imperatore, Leone gliene portò personalmente cinquecento in regalo a Costantinopoli. Il Basileus ricambiò il dono nominandolo guardia di palazzo e poi comandante delle legioni anatoliche. Quando Giustiniano II morì, a Bisanzio scoppiarono gravi disordini. Leone, che comandava l’esercito, li soffocò e riuscì a farsi proclamare Imperatore. Era un uomo caparbio e ambizioso e un magnifico soldato. Nel 717 liberò Costantinopoli dalla flotta saracena che incrociava al largo del Bosforo. Gli storici ecclesiastici attribuirono lo scampato pericolo all’intercessione della Vergine.
Regnava da nove anni quando, nel 726, forse sotto l’influsso del giudaismo e dell’Islam, proibì il culto delle immagini sacre – o icone – e ne ordinò la distruzione. Il Vecchio Testamento interdiceva la riproduzione degli animali terrestri, compreso l’uomo. Le chiese primitive infatti erano disadorne, e la divinità non vi era rappresentata. Le immagini furono una contaminazione pubblicitaria: un veicolo di propaganda imposto soprattutto dal fatto che le popolazioni da convertire, primitive e analfabete, erano più sensibili alla figura che alla parola. Ma se n’era abusato, e la moltiplicazione delle immagini aveva dato luogo a uno scandaloso commercio.
I Santi più in voga erano naturalmente gli Apostoli e i Padri della Chiesa. Ognuno di essi aveva i propri fan. San Paolo era l’idolo delle donne che ne custodivano l’immagine nella borsetta o sotto il cuscino. I ricchi non si accontentavano della semplice icona. Pretendevano addirittura la statua, e la volevano di grandezza naturale. Quella delle immagini sacre era così diventata in tutto l’Impero un’industria assai fiorente. Impresari ne erano i monaci che in essa avevano investito un immenso capitale di menzogne e d’imbrogli. In Oriente non c’era casa, non c’era bottega, non c’era cantone senza l’effigie di un santo o di un martire. A Bisanzio esistevano persino club intitolati a questo o a quello. I membri ne appiccicavano l’immagine sugli abiti come un distintivo e un portafortuna. L’iconolatria diede origine a manifestazioni di fanatismo che spesso degenerarono in tafferugli e in vere e proprie scene d’isterismo collettivo. Quando scoppiava un’epidemia, il popolino scendeva in piazza brandendo croci, sventolando santini e moltiplicando il panico.
Per Leone il culto delle immagini era un elemento di instabilità e una superstizione. Nel 730, davanti al Senato, proclamò traditore della Patria chiunque lo praticasse. L’alto Clero appoggiò l’editto, quello basso e i monaci gli si rivoltarono contro, il popolo inorridì. Nella Capitale scoppiarono sanguinosi tumulti. Nelle Cicladi i ribelli deposero Leone e armarono una flotta contro Bisanzio. In Italia il papa Gregorio convocò un Concilio che scomunicò l’Imperatore e dispensò i Romani dal pagargli le tasse.
E fu un’altra tappa sulla strada della rottura fra Roma e Bisanzio, che doveva consumarsi trecent’anni dopo.