CAPITOLO VENTOTTESIMO

PIPINO IN ITALIA

Quando nel 744 Liutprando morì, sul trono di Pavia salì il nipote Ildebrando che fu spodestato dopo sei mesi. Gli successe il Duca del Friuli, Rachis. Anche il suo regno fu breve. Poco dopo essere stato eletto, stipulò un trattato di pace col Papa, di cui ignoriamo i termini. Nel 749 fu costretto ad abdicare, sotto l’accusa di aver sposato una donna romana invece che longobarda. Ma il vero motivo della sua estromissione era che Rachis faceva una politica clericale, e ciò era bastato a renderlo impopolare. Finì i suoi giorni nel monastero di Montecassino in compagnia di Carlomanno che vi si era ritirato due anni prima.

La corona di ferro passò sul capo del fratello Astolfo, l’ultimo grande Re longobardo. Astolfo sognò l’unità d’Italia, ma non riuscì a realizzarla. Nel 751 strappò Ravenna ai Bizantini. Fu questo un evento di incalcolabile portata storica, non solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa. Con la caduta della città adriatica nelle mani di Pavia, crollò il principale avamposto greco nella Penisola. I Bizantini evacuarono Ravenna, e Roma fu privata dei suoi naturali difensori. Sull’Urbe incombeva ora la minaccia longobarda: la sfida tra il nuovo Pontefice Stefano II e Astolfo era aperta. Dopo Ravenna, capitolarono la Pentapoli e l’Esarcato.

A chi appartenevano questi territori, ora che il rappresentante dell’Imperatore d’Oriente, l’Esarca, ne era stato scacciato? A questa domanda rispose il Papa: «La Chiesa» proclamò «è l’erede naturale dell’Impero Romano. Se il Basileus è impotente a difendere l’Italia, il Pontefice deve prenderne il posto. Coloro che vi si oppongono saranno dannati».

Astolfo s’oppose, fu scomunicato, e bandì la persecuzione dei cattolici. Essa infierì non solo nel Regno longobardo, ma colpì anche il Ducato Romano dove, negli ultimi tempi, s’era costituito un forte partito antipapale sovvenzionato da Pavia. Stefano fu costretto a chiedere la pace. Fu firmata una tregua di quarant’anni.

Dopo quattro mesi – scrive un cronista ecclesiastico dell’epoca – Astolfo, istigato dal Demonio, la violò. Ripresero le persecuzioni, e Roma fu sottoposta a un oneroso balzello. Il Pontefice ordinò allora una processione alla quale intervennero il Clero e il popolo. Un imponente corteo di uomini scalzi attraversò le vie dell’Urbe. Li guidava il Papa che stringeva una pesante croce sulla quale aveva fatto affiggere il trattato di pace stipulato con Astolfo. Levava alti lamenti e invocava la maledizione divina sul nemico che lo aveva spogliato di un territorio che non gli apparteneva.

La processione non operò lo sperato miracolo. Stefano allora scrisse a Pipino, scongiurandolo di prendere le armi e di marciare, in difesa di Roma, contro Pavia. In cambio gli promise, a nome di San Pietro, il Paradiso. Il Re gli rispose a stretto giro di posta invitandolo in Francia. Nel frattempo Astolfo invase la Ciociaria, e conquistò Ceccano sul confine del Ducato Romano, tagliando le comunicazioni tra l’Urbe e Napoli dove tuttavia stanziava una guarnigione bizantina.

Il 13 ottobre del 753, il Pontefice partì. Dopo quattordici miglia – racconta il Libro pontificale – nei pressi di Vetralla sulla Via Cassia, vide una palla di fuoco cadere dal cielo e precipitare a nord sul territorio longobardo. Il prodigio sembrò di buon auspicio. Nella palla di fuoco, Stefano riconobbe Pipino. Varcati i confini della Lombardia, il Papa fece tappa a Pavia, per tentare ancora una volta di indurre Astolfo a «restituire» alla Chiesa la Pentapoli e l’Esarcato. La richiesta fu accompagnata da copiose lacrime e da cospicui doni. Il Re longobardo respinse la richiesta, ma accettò i doni, e in cambio autorizzò Stefano a passare in Francia.

Sulla fine di novembre, accompagnato da due Vescovi, quattro presbiteri e due diaconi, il Pontefice attraversò le Alpi, al valico del Gran San Bernardo. Le cime dei monti erano coperte di neve e le piste gelate. Ai primi di dicembre il corteo entrò nella valle del Rodano, e fece sosta al monastero di San Maurizio, dove il Papa trascorse alcune settimane. Pipino gli venne incontro a pochi chilometri da Ponthion, ch’era una delle sue residenze ufficiali. Il Re franco, accompagnato dal figlio Carlo, giunto al cospetto del Papa, scese da cavallo e si prostrò ai suoi piedi. Era il 6 gennaio 754, festa dell’Epifania. Quindi Pipino e Stefano fecero il loro ingresso nel palazzo reale, ch’era poco più di una spelonca. Nella cappella privata del sovrano, il Papa indossò il saio benedettino e si sparse il capo di cenere. Poi si chinò ad abbracciare le ginocchia di Pipino, e con la voce rotta dai singhiozzi lo supplicò di indurre Astolfo a «rendergli» l’Esarcato e la Pentapoli. Pipino promise, e Stefano lo incoronò per la seconda volta «Re dei Franchi». Alla cerimonia intervennero anche la moglie di Pipino, Bertrada, nota alla storia per avere avuto un piede più lungo dell’altro, e i due figli, Carlo e Carlomanno, il primo di quattordici, il secondo di tre anni. Anche loro furono incoronati. Dopodiché il Pontefice scomunicò i nemici del Re franco, includendo fra costoro Astolfo. Infine conferì a Pipino e ai figli il titolo di Patrizio, che significava «difensore di Roma».

Lo scopo della missione di Stefano era quello di promuovere, attraverso una campagna militare franca contro i Longobardi, la «restaurazione» dei territori ex bizantini a beneficio del Ducato Romano. Astolfo fiutò il complotto, e persuase il fratello di Pipino, Carlomanno, ad abbandonare il suo eremo e a recarsi in Francia a perorare la sua causa. Ma a Ponthion Pipino lo fece arrestare. Carlomanno fu rinchiuso in un convento, dove morì l’anno successivo in circostanze misteriose.

Il Re era favorevole all’impresa, ma alcuni suoi Generali erano contrari. I rapporti con Pavia erano buoni e una guerra comportava grossi rischi. Prima di tentare la sorte delle armi, Pipino volle sperimentare i metodi diplomatici. Spedì un’ambasciata ad Astolfo e l’accompagnò con ricchi doni, chiedendo in cambio l’Esarcato e la Pentapoli. Il Re longobardo, questa volta, respinse non solo la richiesta, ma anche i doni. Pipino convocò allora il Placito, ch’era l’assemblea generale dei Franchi. In seno a essa, dopo lunghe discussioni, gl’interventisti furono messi in minoranza dai neutralisti. Costoro non amavano il Re al quale rimproveravano, fra l’altro, la sua bassa statura: Pipino infatti era alto appena un metro e mezzo. Il dibattito degenerò in un vero e proprio diverbio, e un Generale lanciò al Re l’accusa di codardia.

Il sovrano ordinò a un servo di trascinare in mezzo all’assemblea, che s’era riunita in un’arena, un toro e un leone. Posti uno di fronte all’altro, i due animali cominciarono a dilaniarsi. Al culmine del combattimento, Pipino comandò al Generale che l’aveva insolentito di domarli. Poiché costui esitava, il Re sguainò la spada e si portò personalmente nell’arena. Si avvicinò prima al leone, e poi al toro, e li decapitò. La guerra era dichiarata.

I Franchi e i Longobardi si scontrarono nei pressi di Susa, l’antica città romana situata nella valle omonima. L’esercito di Astolfo fu sconfitto e volto in fuga. Pipino l’inseguì fin sotto le mura di Pavia. La città fu cinta d’assedio e costretta ad arrendersi. Il Papa dettò le condizioni della pace. Astolfo s’impegnava solennemente a restituire la Pentapoli e l’Esarcato alla Chiesa, e il Re franco ripassò le Alpi. Ma durante la marcia di ritorno, fu raggiunto da un emissario di Stefano che gli consegnò un messaggio del Papa: Astolfo aveva stracciato il trattato e s’accingeva a invadere il Ducato Romano. I Longobardi – scriveva Stefano – bruciano le chiese, violentano le monache, bastonano i preti, profanano le tombe dei Santi e ne saccheggiano le reliquie. A questo messaggio ne seguirono altri con appelli sempre più drammatici, alcuni firmati personalmente da San Pietro. Essi non erano indirizzati solo a Pipino, ma anche ai figli, alla moglie, ai Vescovi, agli abati e ai nobili franchi. «Accorrete in difesa di Roma» dicevano «e vi guadagnerete il Paradiso.» Erano un misto di invocazioni, di promesse e di minacce, che ottennero l’effetto sperato.

Per la seconda volta Pipino varcò le Alpi, e per la seconda volta Astolfo fu battuto e obbligato a chiedere la pace. Gli furono imposte le stesse condizioni di quella precedente. Il Re longobardo le accettò. Stavolta non fece in tempo a tradirle perché nel dicembre del 756, durante una partita di caccia, cadde da cavallo, picchiò la testa contro un albero, e dopo pochi giorni morì. La ferale notizia fu comunicata a Pipino da Stefano, che nella scomparsa di Astolfo scorse naturalmente l’intervento della Provvidenza. Sul trono di Pavia fu innalzato il Duca di Toscana, Desiderio.

La scelta fu accolta con favore anche dal Papa, al quale il nuovo Re giurò di restituire tutti i territori ch’egli rivendicava. Desiderio era stato designato alla successione di Astolfo nonostante le opposizioni dei partigiani di Rachis, ch’erano a Corte ancora molto potenti. Per ridurre alla ragione i nemici interni, bisognava propiziarsi quelli esterni; e fra costoro c’erano Stefano e Pipino. Una volta però domati i ribelli, Desiderio rifiutò in parte di eseguire gli accordi sottoscritti dal suo predecessore.

L’annuncio di questo ennesimo voltafaccia raggiunse il Pontefice nei suoi appartamenti laterani dove da alcune settimane giaceva gravemente malato. Ridotto allo stremo, non ebbe la forza d’invocare un’altra volta Pipino. La morte lo colse il 26 aprile del 757. Era stato un breve pontificato, il suo. Era durato solo cinque anni. Ma erano bastati a fare di Stefano un pugnace assertore del potere temporale dei Papi. Sotto di lui fu confezionata l’impostura storica che fu per secoli la Magna Charta della Chiesa: la cosiddetta «Donazione di Costantino».

È tempo di rifarne la storia, anche se ci obbliga a un altro salto indietro, perché su questa contraffazione si è basata la politica temporale del Papato, fino al 1870.