Un affresco rinvenuto a Tivoli e conservato al Museo Vaticano raffigura Carlomagno in età avanzata. Il volto, cui sovrasta una pesante corona, è scarno e affilato. I capelli bianchi e lunghi coprono le orecchie e scendono a frangia sulla fronte alta e solcata di rughe. Gli occhi sono piccoli e scuri, il naso diritto e sottile, le narici leggermente dilatate. Lunghi baffi sgrondano agli angoli della bocca. Folti basettoni e una barba caprina e biforcuta incorniciano il viso.
Una statuetta di bronzo al Museo di Cluny di Parigi ritrae Carlomagno a cavallo. Nelle mani reca le insegne del potere: in quella sinistra il globo, in quella destra la spada. Porta sul capo una corona intarsiata. Non ha barba, ma solo mustacchi spioventi. Indossa il costume tradizionale franco: una tunica drappeggiata, un panciotto di lontra, e un paio di brache di lino. Calza gambali di cuoio, stretti ai piedi da robuste stringhe.
Ambedue queste immagini sono quelle di un Carlomagno vecchio, patriarca aureolato di prestigio imperiale. Ma da giovane – racconta Eginardo, suo biografo ufficiale – era un bel ragazzo, bruno, robusto, e di statura superiore alla media. I suoi unici difetti erano la voce un po’ stridula, il collo taurino e una certa tendenza alla pinguedine, che propiziava anche un appetito gagliardo, ma scevro di ghiottoneria. Carlo mangiava sodo, ma semplice. Come carne, preferiva quella di porco; ma i suoi gusti erano piuttosto vegetariani. I suoi pasti consistevano soprattutto di aglio, cipolla, cavoli e fave. Questi piatti contadini però se li faceva servire, al tocco e al vespro, da Duchi e Conti in funzione di camerieri, e su piatti d’argento. Non per amore di etichetta, di cui anzi era impaziente; ma per ribadire, anche a tavola, che il padrone era lui.
Eginardo racconta che uno dei giorni più felici di Carlo fu quello in cui scoprì il formaggio. Fu un Vescovo suo amico che, invitandolo a colazione un venerdì, gli offrì una forma di pecorino. Carlo, che non lo aveva mai visto, ne staccò una fetta, rosicchiò la buccia, la trovò disgustosa e andò su tutte le furie. Il Vescovo ebbe il suo daffare a calmarlo e a persuaderlo che il buono era la polpa. Quando l’ebbe assaggiata, Carlo se ne mostrò deliziato, e da quel giorno guai se alla sua mensa mancava quel dessert. Se lo portava al seguito anche nei viaggi.
In compenso, era quasi astemio, cosa rara tra quei Franchi, strenui tracannatori di vino, che prendevano a pretesto anche i morti per brindare alla loro anima e ubriacarsi. Carlo combatté questo costume col puntiglio di un proibizionista quacquero, mise al bando le sbornie e comminò la galera ai contravventori.
La sua vita domestica aveva dei lati bizzarri, e perfino sconcertanti. Amava l’intimità, e la sera cenava sempre con la moglie, i figli e il confessore che gli recitava i Salmi e brani della Città di Dio, suo libro preferito. Però non dormiva con la moglie, e si teneva per casa un certo numero di amanti. Adorava le figlie, ma a nessuna di loro consentì mai di sposarsi: il che ha fatto nascere il sospetto – pare infondato – ch’egli avesse con loro rapporti incestuosi. Le figlie d’altra parte non si ribellarono mai al divieto, ma se ne rivalsero prendendosi degli svaghi, da cui nacquero anche dei figli, e Carlo li accettò, senza protestare, come nipoti.
Era religioso, ma non bigotto. Si alzava la mattina all’alba, beveva un bicchiere d’acqua, mangiava una mela, indossava frusti abiti con gambali di cuoio, inforcava un cavallo, e per ore cacciava nei boschi, con poco seguito e talvolta solo. Era la preparazione igienica a una giornata piena d’impegni, fra cui c’erano anche quelli della sua privata amministrazione. Perché questo Re di mezza Europa era squattrinato, e doveva fare i conti col proprio bilancio personale. Per «quadrarlo», aveva messo su un verziere, un allevamento di polli e un commercio di uova. Il reddito gli serviva per mantenere le sue tre residenze, fra le quali si spostava continuamente: Heristal nel Brabante, Worms sul Reno, e Aquisgrana in Austrasia. Quest’ultima capitale era la sua preferita per via del clima mite che l’allietava, dei boschi che la circondavano e delle acque termali che ne avevano fatto la fortuna fin dai tempi dei Romani. Carlo, che soffriva di reumatismi e di gotta, aveva restaurato le fonti, e il poeta Angiberto lo descrive intento a dirigere i lavori degli sterratori che trivellavano il suolo in cerca di nuove sorgenti, e dei carpentieri intenti a costruire vasche da bagno e una piscina di porfido e marmo, dove prese l’abitudine di fare ogni giorno lunghe nuotate.
Era lì ad Aquisgrana ch’egli teneva il suo animale preferito: l’elefante Abdùl Abbàs, mandatogli in dono dal Califfo di Bagdad. Carlo lo aveva alloggiato a Corte come un ospite d’onore, lo lavava di persona, ci parlava, e fu proprio per eccesso d’affetto che involontariamente lo uccise facendogli prendere una solenne indigestione. Ne pianse, e ordinò un giorno di lutto nazionale.
Purtroppo, i suoi soggiorni in quella diletta città non duravano mai a lungo. Carlo era un Re peripatetico. L’immensità dei suoi domini e la necessità di restare in contatto con le province più periferiche e coi loro problemi locali l’obbligavano a una vita errabonda e disagiata. Viaggiava come un pellegrino povero, su un semplice carro tirato da buoi, portandosi al seguito il poco bagaglio che poteva (ma in cui c’era sempre una cassa di pecorino) e alloggiando sotto i tetti che trovava, di contadini, o di frati. Amava i suoi sudditi, ci si mescolava volentieri, amministrava di persona la giustizia fra loro, spesso risolvendo addirittura cause da pretore, e dovunque raccomandando a tutti di educar bene i loro figli: le femmine, diceva, dovevano imparare il rammendo e il bucato; i maschi il nuoto, la caccia, l’equitazione, e soprattutto a leggere e a scrivere.
Questa era la sua spina nel fianco, il suo lato patetico. Carlo, che la sera andava presto a letto, dovunque si trovasse, ma soffriva d’insonnia, trascorreva spesso la notte compitando l’abbecedario e cercando di capirne le lettere. Ma inutilmente. Questo genio della politica e della guerra, ch’era riuscito a conquistare mezzo mondo, non riuscì mai a conquistare l’alfabeto. A furia di farseli ripetere dal confessore, imparò a memoria i Salmi, e li cantava anzi abbastanza bene perché, se la voce era stridula, l’orecchio era buono; e arrivò anche a recitare a memoria molti brani della Città di Dio. Ma sebbene fino alla tarda vecchiaia seguitasse a trascorrere le sue notti a fare le aste, la soddisfazione di scrivere e di leggere da sé non l’ebbe mai.
Eppure, fu Carlomagno.
Liquidato Desiderio in pochi mesi, impiegò molti anni a consolidare la conquista della Penisola, che tuttavia non inglobò mai il territorio a Sud di Roma. Rinunciò a colonizzare i Longobardi, perché erano più civili dei Franchi, e lasciò indipendenti alcuni loro Ducati, come quello di Benevento. Rispettò i loro costumi e conservò le loro leggi, ricalcò la sua burocrazia sugli schemi di quella longobarda, e assegnò alcune Contee perfino a ex funzionari di Desiderio. L’opera di pacificazione che condusse fu saggia e lungimirante. All’indomani della caduta di Pavia assunse automaticamente il titolo di Re dei Franchi e dei Longobardi, e divenne col Papa il protagonista della storia d’Italia.
I rapporti tra Carlomagno e Adriano I sono contenuti nelle lettere che per oltre un ventennio essi si scambiarono. Il succo dei messaggi papali è un continuo lamento contro i soprusi di cui era, o si credeva vittima, anche da parte dei preti. In un’epistola del 774, il Pontefice accusa l’Arcivescovo di Ravenna, Leone, di essersi abusivamente impadronito di Faenza, Forlì, Ferrara, Imola e Bologna, che appartengono al Ducato Romano. Carlomagno non prende posizione. Tre anni dopo Leone muore e il suo successore, Giovanni, si riconcilia col Papa. Fu questa una delle innumerevoli beghe territoriali in cui Adriano cercò, ma spesso inutilmente, di coinvolgere il Re franco. Il Pontefice e Carlomagno si scrivevano in latino, l’unica lingua che tutt’e due conoscevano. Il Papa, che disprezzava i carolingi non meno dei Longobardi, non aveva mai voluto imparare il franco.
Le lettere di Adriano ci informano anche sulle condizioni dell’Italia contemporanea. Il periodo delle invasioni barbariche era passato, ma le rovine e la miseria che l’avevano accompagnate erano rimaste. Nel 778 Treviso fu sconvolta da un tremendo terremoto. Le vittime si contarono a migliaia. L’esodo degli abitanti delle città verso la campagna fu la conseguenza di queste catastrofi, e accentuò quel processo di disurbanizzazione che fu la caratteristica del Medio Evo.
Per alcuni anni, Carlomagno e Adriano non si scrissero. Ignoriamo le ragioni di questo silenzio che fu rotto alla vigilia della seconda visita del Re franco a Roma, nell’aprile del 781. Carlomagno, accompagnato dalla moglie Ildegarda e dai due figli Carlomanno e Luigi, rispettivamente di quattro e di due anni, giunse nell’Urbe il giorno di Pasqua. Lo scopo ufficiale del viaggio era il battesimo di Carlomanno. Il Pontefice celebrò il rito nella basilica di San Pietro, impose al principino il nuovo nome di Pipino e lo proclamò Re d’Italia. Pochi giorni dopo Carlomagno lasciò Roma. Nel viaggio di ritorno visitò Firenze e fece una breve sosta a Milano, dove assisté al battesimo della figlia Gisila. Ai primi di agosto ripassò le Alpi, dopo aver affidato l’Italia a un governatore franco, che la resse in nome di Pipino.
Nel 787 Carlomagno varcò per la terza volta le mura dell’Urbe. Stavolta vi giunse solo, senza figli né la diletta Ildegarda che era morta l’anno prima e che egli aveva rimpiazzato con Fastrada, una donna petulante e isterica. Forse fu il desiderio di restare il più possibile lontano da lei che gli fece prolungare oltre il previsto il suo soggiorno, durato stavolta più d’un mese. Mentre si trovava a Roma, una delegazione del Duca di Benevento, Arichi, guidata dal figlio Romualdo, chiese di essere ricevuta da lui. Il Ducato longobardo di Benevento era una spina nel fianco del Papa, che temeva le mire di Arichi sul Nord, ma soprattutto vedeva compromesse le proprie sul Sud. Adriano disegnava la conquista del Mezzogiorno e la sua annessione al Ducato Romano. E nei suoi piani il braccio militare per realizzare questo programma erano naturalmente i Franchi.
Il timore che Carlomagno marciasse contro il suo territorio e la speranza di dissuaderlo indussero Arichi a spedire il figlio in missione a Roma. Romualdo colmò il Re franco di doni e l’implorò di non muovere guerra al padre. Carlomagno promise. Ma quando gli ambasciatori ripartirono, il Papa lo convocò in Vaticano e piangendo lo scongiurò, in nome di San Pietro, di invadere il Ducato di Benevento.
Carlomagno, che a San Pietro non sapeva dire di no, arruolò un esercito, vi si mise a capo e puntò su Capua, dove s’acquartierò. Arichi, colto di sorpresa dal voltafaccia, invocò una tregua, che gli fu concessa. In cambio s’impegnò a pagare ai Franchi un tributo annuo di settemila soldi, a consegnare quindici ostaggi, tra i quali i figli Grimoaldo e Adalgisa, e a far tagliar la barba ai suoi sudditi, secondo il costume carolingio.
Alla fine di marzo dello stesso 787 Carlomagno tornò a Roma, dove trascorse la Pasqua in compagnia del Papa, dal quale si congedò per recarsi a Ravenna. Il 15 luglio rientrò a Worms. Il 21 Romualdo morì all’età di ventisei anni. Dopo circa un mese, il 26 agosto, calò nella tomba anche il padre Arichi. Il Ducato fu sul punto di piombare nel caos poiché l’erede al trono era ostaggio dei Franchi. Ma nella primavera del 788, inaspettatamente, Carlomagno liberò Grimoaldo che tornò a Benevento accolto da una folla esultante.
L’unico che non esultò fu Adriano. Il gesto di clemenza del Re franco, preoccupato evidentemente di non turbare l’equilibrio politico nell’Italia centro-meridionale, fu accolto a Roma come un tradimento. Il Papa indignato scrisse a Carlomagno, e lo accusò di aver trattato Grimoaldo meglio del povero San Pietro nelle cui mani Cristo aveva riposto le chiavi del Regno dei Cieli. Era un grido di dolore, ma era anche una minaccia. A questa lettera ne seguirono altre, suppergiù dello stesso tenore. Il giorno di Natale del 795, il battagliero Adriano morì. Quando gli fu recata la notizia, Carlomagno scoppiò a piangere, ed Eginardo assicura che il cordoglio del Re era sincero. Il giorno stesso della sepoltura di Adriano, fu elevato al Soglio un uomo di Curia che prese il nome di Leone III.
Il nuovo Papa godeva di una vasta impopolarità. All’indomani dell’incoronazione, alcuni nobili, tra cui due nipoti di Adriano, Pascale e Campolo, l’accusarono pubblicamente di adulterio e di spergiuro. Leone non tentò neppure di scagionarsi. Si limitò a spedire a Carlomagno le chiavi del sepolcro di San Pietro e il gonfalone della città.
La lotta tra i «palatini» e gli eredi di Adriano covò sorda per quattro anni. Il 25 aprile del 799 esplose. Mentre il Pontefice s’accingeva a guidare una processione attraverso la città, fu assalito da una banda di nobili, capeggiata da Pascale e Campolo. Leone – riferisce il Libro pontificale – fu picchiato a sangue e abbandonato in mezzo al Corso con la lingua mozza e gli occhi accecati. Nessuno dei fedeli, armati solo di labari e croci, alzò un dito per difenderlo. Tutti, in preda al terrore, si diedero alla fuga. Verso sera gli aggressori tornarono sul luogo dell’imboscata, e con grande stupore videro che il Papa respirava ancora. Pascale e Campolo gli tagliarono un altro pezzo di lingua e poi lo trascinarono nel monastero di Sant’Erasmo, sul monte Celio. Qui la notte stessa San Pietro apparve in sogno al mutilato e gli restituì la vista e la favella. La mattina all’alba, con la complicità di un monaco, Leone si calò con una fune dalla propria cella. A terra fu accolto da alcuni fedeli che lo caricarono su un mulo e lo portarono in salvo a San Pietro. Di qui con una piccola scorta partì per Spoleto.
Nella cittadina umbra passò circa un mese. Poi si mise in marcia verso la Sassonia, diretto a Paderborn dove Carlomagno aveva fissato la propria residenza estiva. Vi giunse a luglio inoltrato. Il Re franco l’accolse con ogni riguardo, ma con una certa freddezza. Contemporaneamente a Leone erano capitati a Paderborn gli emissari di Pascale e di Campolo per ribadire le loro accuse. Carlomagno ascoltò le due campane, nominò una commissione d’inchiesta, e incaricò di far luce sul caso.
Il Pontefice si fermò in Sassonia alcuni mesi durante i quali ebbe frequenti colloqui col Re franco, al quale donò le reliquie del protomartire Stefano. Secondo alcuni storici fu proprio nel corso di questi incontri che Carlomagno chiese a Leone d’incoronarlo Imperatore, impegnandosi, in cambio, a far cadere le accuse che i nipoti di Adriano gli avevano mosse.
Si tratta, intendiamoci, di congetture che ci sembra, tuttavia, possano avere un qualche fondamento. Nel 799 Carlomagno era padrone dell’Europa. I confini del suo Regno si estendevano dall’Elba ai Pirenei, dalla Pianura padana al Mar del Nord. Era naturale che pensasse a quell’Impero d’Occidente che il legittimo titolare, cioè l’Imperatore d’Oriente, da secoli non era più in grado di amministrare.
Leone rientrò a Roma alla fine di novembre accompagnato dalla commissione d’inchiesta che si mise subito al lavoro. In capo a una settimana, trovò che gli addebiti mossi al Papa erano infondati. Ordinò l’arresto dei nipoti di Adriano e li spedì a Carlomagno perché infliggesse loro la punizione che meritavano. Il Re franco li fece rinchiudere in un monastero, quindi si preparò a partire per Roma. Fissò la data del viaggio ai primi di giugno, ma la morte improvvisa della moglie l’obbligò a rimandarla all’inizio dell’autunno.
Il 24 novembre dell’800 giunse nell’Urbe dove fu accolto dal Papa e da una folla oceanica di preti, di Romani e di burini che Leone aveva fatto affluire nella Capitale da tutto il Lazio. Il 2 dicembre il Pontefice convocò nella basilica di San Pietro un Sinodo, al quale intervennero le alte gerarchie ecclesiastiche e i nobili carolingi che avevano accompagnato il Re a Roma.
Carlomagno in persona inaugurò l’assemblea, illustrando lo scopo della sua visita, ch’era quello di far conoscere a tutti e sanzionare le conclusioni della commissione. Il giorno dopo Leone aprì il Sinodo dichiarandosi pronto a fare pubblica ammenda dei delitti di cui era stato falsamente accusato. Il gesto scatenò un uragano di applausi. L’assemblea condannò a morte Pascale e Campolo, ma la pena, per intercessione del Pontefice, fu commutata in quella del bando. Carlomagno trascorse le settimane seguenti in devoti pellegrinaggi alle chiese di Roma.
Intanto s’avvicinava il gran giorno dell’incoronazione. Il 25 dicembre, il Re franco, scortato dai suoi nobili, attraversò l’Urbe tra le acclamazioni della folla, e si diresse verso la basilica di San Pietro. Indossava la tunica e i calzari romani invece delle brache e degli stivali franchi. I capelli erano diventati grigi, e le spalle si erano un po’ incurvate. La fronte era solcata di profonde rughe, ma l’aspetto era ancora giovanile, e l’uomo sembrava ancora nella pienezza del suo vigore. Il corteo entrò nel tempio tra due ali di prelati, attraversò la navata centrale illuminata da milletrecentosettanta candele e adornata di statue di Santi, e raggiunse il presbiterio. Qui Carlomagno si staccò dal seguito e varcò la balaustra. S’inginocchiò ai piedi dell’altare maggiore e si raccolse in preghiera.
A questo punto Leone, che stava celebrando la messa, estrasse dal tabernacolo una corona d’oro, e la depose sul capo del Re franco. Per tre volte l’acclamazione in latino «A Carlo Augusto, coronato da Dio, possente e pacifico Imperatore, vita e vittoria» riecheggiò nel tempio. Lo storico Teofane racconta che Carlomagno, prima d’essere incoronato, fu completamente denudato dal Papa e unto dalla testa ai piedi. Le fonti ecclesiastiche riferiscono che Leone consacrò anche il piccolo Carlo Re dei Franchi, come il suo predecessore aveva fatto con Pipino e Luigi. Al termine della cerimonia Carlomagno depose ai piedi dell’altare ricchi doni, tra i quali una tavola d’argento, una patèna d’oro e tre calici tempestati di gemme.
Ma i cronisti laici danno dell’avvenimento tutt’un’altra versione. Essi sostengono che il Re franco fu sorpreso di quella incoronazione senza preavviso. Eginardo scrive: «Carlomagno non avrebbe mai varcato la soglia di San Pietro, nonostante fosse Natale, se avesse immaginato il tiro birbone che il Papa s’accingeva a giocargli».
Il nuovo Imperatore lasciò Roma ai primi di maggio diretto a Pavia dove ritirò un gioco di scacchi in avorio che il Califfo di Bagdad, Harun-al-Rachid, gli aveva donato. Quindi partì per Aquisgrana. Anche se si era trattato di un «tiro birbone» del Papa, non ne sembrava molto imbronciato. Ma forse nemmeno lui, malgrado il suo intuito politico, valutava appieno l’importanza di quel nuovo titolo, con cui se ne tornava a casa. Esso era destinato a ingombrare, per ben mille anni, la storia d’Europa.