CAPITOLO TRENTATREESIMO

L’ORGANIZZAZIONE CAROLINGIA

I Merovingi avevano precipitato l’amministrazione franca nel caos. Carlo Martello e Pipino la ricostruirono. Carlomagno la consolidò, decentrandola ma sottoponendola a un rigido controllo periferico. E questo riassetto coinvolse anche l’Italia da Roma in su.

Le istituzioni fondamentali del regime erano tre: il governo centrale, quelli locali, e i cosiddetti organi intermediari, o missi dominici. Il governo centrale risiedeva nelle varie città, poco più che villaggi, che di volta in volta ospitavano Carlomagno nel corso dei suoi frequenti spostamenti. Il fulcro era il Palazzo reale, come ai tempi di Childerico. Ma a differenza d’allora, la figura del maggiordomo era scomparsa.

L’Arcivescovo di Reims, Incmaro, nipote di Carlomagno, ci ha lasciato una minuziosa descrizione della vita palatina. I servizi pubblici s’identificavano con quelli privati e la figura del Re con quella dello Stato. I beni personali del sovrano erano amministrati con decreti ufficiali. I poteri di Carlomagno erano illimitati e le decisioni che prendeva inappellabili. Convocava il consiglio dei ministri, che era un organo puramente consultivo e lo presiedeva. A esso intervenivano i sei segretari di Stato: ch’erano l’arcicappellano, il Conte di palazzo, il camerario, il siniscalco, il coppiere e il conestabile.

L’arcicappellano o ministro del culto era il capo della cappella, della scuola palatina e della Cancelleria. Da lui dipendeva uno staff di notai e di archivisti. Era il più alto dignitario di Corte e nella gerarchia di Palazzo occupava il primo posto. Il Conte palatino amministrava la giustizia e ricopriva la carica di Ministro degli Interni. Al camerario erano affidati i tre dicasteri degli Esteri, delle Finanze e del Tesoro. Il siniscalco e il coppiere erano intendenti. Il conestabile era il capo delle scuderie e il comandante dell’esercito, di cui la cavalleria corazzata costituiva la spina dorsale.

I vari governi locali s’incarnavano invece nelle Contee, dipartimenti di dimensioni variabili, retti da un Conte, o Prefetto, nominato dal Re. A esso erano conferiti i poteri militari, fiscali e giudiziari, mentre quelli religiosi venivano esercitati dal Vescovo, che, almeno in teoria, dipendeva dal Pontefice. Il rapporto Vescovo-Conte riproduceva su livello più basso quello Papa-Imperatore. I Conti erano i più alti funzionari periferici. Fra costoro, quando scoppiava una guerra, veniva scelto il Duca o Marchese, comandante delle forze di una circoscrizione militare, che venivano di volta in volta reclutate tra la popolazione di due o più Contee.

Il governo locale era sottoposto al controllo dei missi dominici, o ispettori regi. La loro istituzione fu la chiave di volta dell’amministrazione carolingia. A differenza dei Conti, funzionari permanenti, essi erano delegati temporanei. Venivano reclutati in uguali proporzioni nell’alta burocrazia laica ed ecclesiastica, e avevano il compito di accertarsi che il Conte assicurasse una buona amministrazione nel territorio che il Re gli aveva assegnato, e che soprattutto non esorbitasse dalle competenze che gli erano state attribuite. I missi non avevano però solo funzioni di controllo, ma anche poteri discrezionali. Potevano invocare la forza pubblica e invalidare la nomina di ogni funzionario inferiore al Conte, destituire quest’ultimo ma solo dopo avere ottenuto il consenso del Re, al quale andava indirizzata la proposta di revoca; e in caso di vacanza del potere comitale assumevano, a titolo provvisorio, le funzioni di Prefetto. Avevano anche ampie facoltà in materia giudiziaria, costituendosi in Corti d’Appello nei processi «mal giudicati». Non godevano di alcuna diaria e vivevano a spese degli abitanti della Contea di cui garantivano e difendevano i diritti, ricevendone in cambio il giuramento di fedeltà al sovrano, o sacramentum fidelitatis, che veniva di solito prestato in una chiesa, sulle reliquie di un Santo.

I doveri che da esso scaturivano erano il servizio militare, l’imposta e il bando. Il servizio militare era un onere privato. I cittadini provvedevano personalmente al proprio equipaggiamento e mantenimento, in misura del loro patrimonio fondiario, computato sulla base del manso, ch’era l’estensione di terreno sufficiente a mantenere una famiglia. Coloro che possedevano meno di quattro mansi erano esonerati dal servizio di leva. I latifondisti e i grandi monasteri fornivano un numero di soldati corrispondente al numero dei mansi diviso per quattro. I renitenti alla leva pagavano un’ammenda di centosessanta soldi, ch’era il costo di un soldato. Il reclutamento avveniva per Contea. La mobilitazione si svolgeva nel territorio più vicino al teatro delle operazioni. Il saccheggio era ammesso e largamente praticato dalle truppe che si rifacevano così in parte delle spese sostenute. Dal servizio di leva era esonerato chi rinunciava alla proprietà o chi prendeva gli ordini religiosi. Quest’ultimo aveva però l’obbligo di designare, in sua vece, un laico e di provvedere al suo armamento e sostentamento. L’esercito era formato di fanti e di cavalieri. I meno abbienti combattevano a piedi. I più ricchi a cavallo.

Il secondo obbligo che derivava dal giuramento era il pagamento delle imposte, che erano dirette e indirette. Le prime comprendevano la tassa di famiglia e i doni annuali, che il Conte consegnava al sovrano nel corso delle grandi assemblee generali. In queste riunioni, che si svolgevano di solito al principio di marzo, venivano discussi i principali problemi del Regno e prese le decisioni militari importanti. Le imposte indirette, ch’erano riscosse da agenti fiscali chiamati telonarii, colpivano la vendita sui mercati, il passaggio sui ponti eccetera. Il bando, infine, implicava l’obbligo di partecipare alle cosiddette corvées ch’erano prestazioni d’opera gratuite di pubblica utilità.

La cultura dell’ex Gallia romana, sotto i «re fannulloni», era piombata nella barbarie. Pipino il Vecchio, Carlo Martello e Pipino il Breve erano analfabeti. Le poche scuole non erano frequentate che dai preti. I Germani che avevano sommerso l’Europa, prima che alla cultura, avevano badato a consolidare la conquista.

Con Carlomagno le cose cambiarono. Per l’Imperatore analfabeta, l’ignoranza era un impedimento alla diffusione del Vangelo e alla salvezza dell’anima, insomma qualcosa di mezzo fra la minorazione e il delitto. Egli promosse l’istruzione scolastica mobilitando il Clero e fondando scuole nelle cattedrali e nei monasteri, perché a quei tempi i preti e i monaci erano praticamente i soli che sapessero leggere e scrivere.

In quest’opera i suoi maggiori collaboratori furono Alcuino, Paolo Diacono ed Eginardo. Alcuino era nato nel 735 in Inghilterra da una cospicua famiglia della Northumbria, e seguì i corsi di seminario a York dove fu consacrato prete. York era allora sede di un’importante università. Fu uno scolaro assai precoce. A undici anni sapeva a memoria Virgilio e aveva letto tutto Sant’Agostino. Era mite, pio e frugale. A vent’anni compì il suo primo viaggio in Italia, dove seguitò a venire anche dopo la nomina ad Arcivescovo di York, e dove egli incontrò Carlomagno, il quale, colpito dalla sua erudizione, gli conferì l’abbazia di Ferrières e l’invitò a seguirlo a Quierzy-sur-Oise. In Francia, rimase fino al 796. Fondò scuole, arruolò insegnanti, compilò manuali e dettò i programmi imperniati sullo studio delle «sette arti liberali»: il trivio che comprendeva la grammatica, la retorica e la dialettica, e il quadrivio che comprendeva l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia. Alcuino definì queste materie le «sette colonne del tempio di Salomone», e incaricò il dotto Teodolfo di scrivere su di esse un poema. Nel 796 si ritirò nel celebre monastero di Tours, di cui fu nominato abate, e dove diciotto anni dopo morì.

Paolo Diacono entrò al servizio di Carlomagno nel 782. Era nato nel 725 e aveva trascorso gran parte della sua vita a Pavia. Era stato l’ingegno più brillante alla Corte di Desiderio, di cui per lungo tempo fu consigliere. Con la caduta del Regno longobardo, i Franchi gli confiscarono i beni ed egli riparò a Benevento. Nel 775 Carlomagno fece arrestare e deportare in Austrasia suo fratello Arichi. Paolo allora gli inviò un poema in cui ne implorava la restituzione. L’opera piacque al Re che liberò Arichi ma in cambio pretese che Paolo si trasferisse ad Aquisgrana. Nel 786 accompagnò Carlomagno in Italia. Visitò Firenze, Roma e Montecassino dove passò il resto dei suoi giorni. Nella solitudine del monastero benedettino compose la Storia dei Longobardi che è la sua opera più famosa.

Su Eginardo le notizie che abbiamo sono scarse. Sappiamo con certezza che entrò a Corte sulla fine dell’ottavo secolo. Era franco di nascita, ma romano di formazione. Carlomagno lo nominò segretario particolare. La sua Vita Karoli, che prende a modello Svetonio, è una bella biografia aneddotica e vivace, anche se composta con intenti agiografici.

Alcuino, Paolo Diacono ed Eginardo fondarono l’Accademia Palatina e le scuole episcopali e monastiche. L’Accademia era un vero e proprio cenacolo di eruditi, qualcosa come i nostri Lincei. Il Presidente era il Ministro della Pubblica istruzione, Alcuino. Alle riunioni interveniva anche il Re. Ciascuno dei suoi membri aveva adottato uno pseudonimo ebraico o latino. Carlomagno si chiamava David, Alcuino Flacco, Eginardo Bezaleel. Alle sedute partecipavano anche la figlia del sovrano Rotrude col nome di Colomba e la sorella Gisila con quello di Lucia. Le discussioni erano animate, e non di rado davano origine a vivaci battibecchi. All’ordine del giorno erano, di volta in volta, la lettura dei classici o l’esegesi biblica. Alle dotte dispute erano intercalati cruciverba, sciarade, indovinelli.

Dall’Accademia dipendevano le scuole. In ogni cattedrale e monastero ce n’era almeno una. Gli scolari erano reclutati in gran parte tra i contadini e gli schiavi. I nobili erano rari: essi tenevano a vile qualunque occupazione che non fosse quella delle armi. I corsi erano gratuiti, l’istruzione facoltativa, ma solo chi era in possesso di un titolo di studio poteva arruolarsi nell’amministrazione pubblica o nel Clero. Due scuole acquistarono, in breve volgere di tempo, grande rinomanza: quella palatina di Aquisgrana e quella di Tours. La scuola palatina era una specie di seminario riservato all’élite, come oggi il College inglese di Eton. La lingua ufficiale era il latino. Le lezioni venivano impartite da preti e monaci.

La rinascita carolingia non fu solo letteraria, ma anche artistica. Sotto i Merovingi la Gallia che, durante la dominazione romana aveva raggiunto un alto grado di civiltà, aveva subìto una lenta ma inesorabile decadenza. Gli edifici dei tempi di Augusto o di Traiano erano stati abbandonati alle ingiurie del tempo, fiorenti città si erano trasformate in necropoli, antichi templi pagani erano caduti in rovina. La Lombardia di Astolfo e di Desiderio, al confronto col Regno franco, era un faro di civiltà e di progresso.

Carlomagno, che aveva il mal della pietra, fu l’artefice di un recupero che ebbe del miracoloso. Arruolò architetti, carpentieri, muratori. Trasportò da Ravenna ad Aquisgrana la statua di Teodorico e la collocò nel cortile del palazzo reale. La rinascita artistica dei Franchi prese a modello Costantinopoli, e le sue caratteristiche costruzioni a rotonda. L’architettura latina aveva come fondamento la basilica di forma oblunga, a tre navate, tagliate da un transetto a croce latina col soffitto in legno. La struttura di quella orientale era invece circolare o poligonale con volta in pietra. Ad Aquisgrana Carlomagno fece costruire una cappella a cupola, di forma ottagonale, ispirandosi alla chiesa bizantina di San Vitale che aveva visto e ammirato a Ravenna. Il tempio fu decorato con ricchi mosaici e pitture di soggetto sacro.

Lo storico inglese H.A.L. Fisher ha scritto che la rinascita carolingia fu priva di originalità e di vera grandezza. Alcuino, Paolo Diacono ed Eginardo, che ne furono i campioni, non lasciarono nulla che potesse reggere il confronto con la storia di Tacito, i carmi di Catullo o i poemi di Virgilio. Ma il paragone non regge. Dietro Tacito c’era una grande civiltà ormai giunta a maturazione; dietro Alcuino c’era una società analfabeta, appena uscita dal suo ordinamento tribale. L’Accademia Palatina fu tuttavia un polo che attrasse il fior fiore dell’intellighenzia contemporanea, e non solo quella franca, ma anche quella latina e quella anglosassone. Senza la rinascita carolingia, con la riscoperta, la trascrizione e la conservazione degli antichi manoscritti greci e latini, l’Umanesimo sarebbe stato impossibile, e la civiltà occidentale avrebbe subìto un diverso corso.