La morte di Carlomagno e lo sfacelo dell’Impero franco avevano provocato la dissoluzione di quel potere laico che aveva sostenuto il Papato e gli aveva impedito di degenerare. A Roma, sulla fine dell’Ottocento, spadroneggiavano due fazioni: quella toscana dei Tuscolo, e quella spoletina dei Crescenzi. Sebbene entrambe di origine longobarda e imparentate fra loro, esse si disputavano la tiara, eleggevano i Papi, li deponevano, convocavano i Sinodi. Tutto era in loro balìa. L’Urbe faceva da sfondo a questa anarchia che durò oltre un secolo.
Le cronache del tempo sono piene di delitti, colpi di Stato, rivolte di palazzo. Il Clero, abbandonato a se stesso, sprofondò nella corruzione. I Pontefici e i Vescovi vivevano in un lusso da mille e una notte. Abitavano palazzi sfavillanti di marmi e di ori. Si circondavano di servitori e concubine, imbandivano mense degne di Trimalcione, organizzavano concerti, danze e feste mascherate. La mattina, celebrata la messa, montavano a cavallo e andavano a caccia, seguiti da uno stuolo di cortigiani. I Romani li amavano perché di tanto in tanto distribuivano vino e frumento, ma soprattutto perché quando morivano il popolino aveva libero accesso nelle loro dimore e poteva tranquillamente svaligiarle. La Chiesa, lacerata da lotte intestine e prigioniera della sua mondanizzazione, non era mai caduta tanto in basso.
Nel maggio dell’896, dopo quattro anni e mezzo di regno, calò nella tomba quel Papa Formoso che aveva incoronato Arnolfo. I signorotti spoletini, che ne avevano a suo tempo contrastato l’elezione, proclamarono Papa Stefano VI, figlio di un prete romano. Sotto di lui si celebrò il processo postumo a Formoso, reo di aver cinto la tiara nonostante fosse Vescovo di Porto. Gli antichi Concili avevano infatti sancito che i Vescovi non potevano abbandonare la loro sede e diventare Papi. Questa accusa era naturalmente un pretesto e ne nascondeva una ben più grave: quella d’aver Formoso chiamato in Italia il Re di Carinzia e d’averlo sostenuto contro Guido di Spoleto.
Il macabro processo si svolse nel febbraio dell’897 davanti al tribunale di un Sinodo appositamente convocato. La tomba di Formoso fu scoperchiata e il suo scheletro impaludato fu trasportato nella sala del Concilio, al cospetto dei giudici, e deposto su una seggiola a braccioli. Accanto a esso, in piedi, stava un vecchio diacono che fungeva da avvocato difensore. Stefano VI aprì l’udienza e poi, rivolto alla mummia, chiese: «Perché, uomo ambizioso, hai usurpato la cattedra apostolica?». Il diacono cercò di scagionare il Pontefice, ma fu sommerso da un diluvio di fischi e di insulti. Formoso fu riconosciuto colpevole e deposto. Tutti coloro che egli aveva ordinato Vescovi dovettero farsi riconsacrare. Al termine del processo un prete strappò di dosso al cadavere del Papa i paramenti sacri, gli recise le tre dita della mano destra colle quali s’impartisce la benedizione, gli tagliò la testa, e fra i lazzi osceni del popolino gettò quelle povere ossa nel Tevere. I resti di Formoso – racconta il Libro pontificale – furono rinvenuti da alcuni pescatori e ricomposti nella sua tomba a San Pietro. Quando le reliquie varcarono la soglia della basilica, le statue dei Santi chinarono il capo in segno di riverenza.
Nell’897 Stefano fu assassinato. L’anno successivo, dopo un interregno di due Papi, fu eletto Giovanni IX, un benedettino d’origine tedesca che governò due anni. Convocò un Concilio che riabilitò Formoso. Annullò gli atti del processo che l’aveva condannato, e affermò che non si poteva giudicare un morto. In un Sinodo a Ravenna annunciò la bancarotta della Chiesa che non aveva denaro nemmeno per pagare gli stipendi ai chierici e ai diaconi. Morì nel luglio del 900, oberato dai debiti. Gli successero tre papuncoli e, nel 904, Sergio III, sostenuto dalla fazione spoletina con a capo una donna intrigante e bellissima, Marozia, di cui era l’amante.
Sergio ribadì la condanna di Formoso e fece strangolare coloro che l’avevano assolto. Poi, per penitenza, ordinò alle monache di recitare ogni giorno, a riscatto della sua anima, cento Kyrie Eleison. Restaurò numerose chiese, riedificò la basilica laterana e la riempì di candelabri, statue e arazzi. Quando calò nella tomba, la tiara passò sul capo di Anastasio III e poi su quello del conte longobardo Lando. Nel 914 fu incoronato Giovanni X.
Era un uomo ambizioso e sensuale, godeva della protezione di Teodora, madre di Marozia, che s’era perdutamente innamorata di lui e che, per averlo vicino, l’aveva fatto Papa. Teodora era maritata al conte Teofilatto. A Roma tutto era nelle mani loro e della figlia Marozia. Caduto l’Impero carolingio il Clero era stato esautorato e soppiantato da questa famiglia, originaria di Spoleto e quindi di stirpe longobarda. I Pontefici, che a essa dovevano la propria elezione, ne erano succubi e non osavano disobbedirle.
Teofilatto s’era fregiato del titolo di Senatore dei Romani e aveva insignito la moglie di quello di Senatrice. Ciò lo investiva automaticamente della suprema autorità civile e gli conferiva pieni poteri. Era a capo della nobiltà e la rappresentava presso l’Imperatore.
Nel 915, sotto gli auspici di Giovanni X, Marozia sposò il conte spoletino Alberico dal quale ebbe un figlio, cui fu imposto lo stesso nome del padre. Rimasta vedova, convolò a nozze con Guido, fratellastro di Ugo di Provenza, ch’era uno dei capi della fazione toscana. Giovanni X, che aveva contrastato il matrimonio, fu deposto, rinchiuso in carcere e lasciato morir di fame. Ne occupò il posto il figlio che Marozia aveva avuto dal Papa Sergio e che prese il nome di Giovanni XI. L’incoronazione si celebrò con gran pompa nella basilica di San Pietro.
Il nuovo Pontefice era un ragazzo di dodici anni, prigioniero di una madre debosciata e prepotente, di cui divenne il confessore. Quando, in circostanze misteriose, Guido morì, Marozia si cercò un altro marito. Aveva già superato la quarantina, ma era ancora una donna piacente, sebbene priva di cultura, anzi completamente analfabeta, come la madre Teodora e il padre Teofilatto. Re, Principi e persino Papi avevano aspirato alla sua mano.
Fra costoro c’era anche quell’Ugo di Provenza che era stato incoronato a Pavia Re d’Italia. Era un uomo avaro, volgare e crapulone. Amava la buona tavola, era un bevitore gagliardo e un accanito giocatore di dadi. Si circondava di concubine e aveva un debole per le contadine e le lavandaie. Ma gli piacevano sudaticce e scalcagnate. Di statura superiore alla media, di corporatura atletica, biondo e baffuto, più che un Re lo si sarebbe detto un capitano di ventura. Era un cavaliere formidabile, un buon cacciatore e un guerriero spavaldo. Appena cinta la corona d’Italia, aveva distribuito fra i suoi parenti le più importanti diocesi e le più ricche abbazie dell’Italia del Nord. Aveva nominato paggio di Corte il Vescovo di Pavia, Liutprando, che nella sua cronaca lo celebrò come un Principe filosofo, liberale e filantropo, e affibbiò alle sue numerose amanti nomi di divinità greche.
Marozia, che in seconde nozze ne aveva sposato il fratellastro Guido, conosceva bene Ugo. Sapeva che non era uno stinco di santo e forse proprio per questo se ne innamorò o finse di innamorarsene. C’era però un grosso ostacolo al matrimonio. Marozia e Ugo erano cognati, e le leggi canoniche impedivano ai cognati di sposarsi, pena la scomunica. Ugo e Marozia delle leggi canoniche naturalmente s’infischiavano, ma con un figlio Papa bisognava far finta di tenerne conto. Il Re dimostrò che Guido non era suo fratello poiché la levatrice lo aveva sostituito nella culla con un altro neonato.
Giovanni XI accreditò la versione, e si fecero le pubblicazioni. Marozia avrebbe portato in dote al futuro marito la città di Roma, Papa compreso. Non vedeva l’ora d’essere chiamata Regina e un giorno, chissà, Imperatrice. Il titolo di Senatrice era ben poca cosa per la sua smisurata ambizione.
Nel febbraio del 932 Ugo con un piccolo esercito lasciò Pavia diretto a Roma. Giunto a un paio di chilometri dalla città, ordinò ai soldati di piantare le tende fuori le mura, e con una scorta s’accinse a varcarle. La nobiltà e il Clero l’accolsero con molti onori e l’accompagnarono a Castel Sant’Angelo, dove dovevano celebrarsi le nozze e la fidanzata l’attendeva. Marozia indossava una bellissima tunica color porpora. Sulla fronte cingeva un diadema tempestato di pietre preziose, e due braccialetti d’oro finemente cesellati le stringevano i polsi. Ugo, che non la vedeva da anni, fu colpito da tanto ben di Dio, ma la trovò assai invecchiata. Non era più la donna d’un tempo. La pelle le si era avvizzita e il volto era pieno di rughe. Com’erano meglio le lavandaie di Pavia e le contadine della Bassa.
La cerimonia si svolse nel sepolcro di Adriano, davanti al sarcofago di quell’Imperatore, e Papa Giovanni lo consacrò. Castel Sant’Angelo era da secoli la meglio attrezzata e la più salda fortezza romana, una specie di labirinto, praticamente inespugnabile. In esso i novelli sposi fissarono per prudenza la propria dimora, e nella tomba di Adriano istallarono la camera da letto.
Ugo era un uomo irascibile e manesco. Un giorno il giovane figlio di Marozia, Alberico, che gli faceva da paggio, versandogli del vino lasciò cadere per sbaglio la brocca per terra e la ruppe. Ugo gli appioppò un ceffone. Alberico fuggì in lacrime dal castello, invano inseguito da un maggiordomo e da una muta di cani. Giunto al Colosseo, radunò una piccola folla di Romani e li arringò contro Ugo accusandolo di aver consegnato la città in mano ai provenzali. La plebe romana, sempre in cerca di pretesti per qualche buon saccheggio, prese fuoco. Guidati da Alberico, un migliaio di giovinastri, armati di bastoni, si misero in marcia verso Castel Sant’Angelo. Le campane suonarono a stormo e annunciarono alla popolazione che stava succedendo qualcosa. Che accadesse con precisione non lo sapeva nessuno, nemmeno il figlio di Marozia il quale voleva solo vendicarsi del ceffone ricevuto dal patrigno, che gli bruciava come una ferita.
Ugo vide dalla finestra la folla attraversare il ponte sul Tevere e marciare minacciosa verso il castello. In preda al terrore, ordinò alle guardie di sbarrare tutti gl’ingressi, e poi con la moglie riparò nel sarcofago d’Adriano, in attesa che l’esercito che aveva lasciato fuori le mura gli spedisse dei rinforzi. Ma poiché questi tardavano a giungere, decise di fuggire. Mentre Marozia dormiva, uscì dal sepolcro, e in piena notte si calò con una fune dalla finestra. Dopo una breve cavalcata si ricongiunse ai suoi e ripartì per Pavia. A Roma, Alberico, divenuto padrone della situazione, aveva occupato Castel Sant’Angelo e, snidata la madre dal sarcofago, l’aveva imprigionata. Il fratellastro Giovanni, reo di aver unito in matrimonio Marozia con Ugo, fu rinchiuso nel palazzo Laterano e sottoposto a stretta sorveglianza.
Quella del 932 – ha scritto il Gregorovius – fu insieme una rivoluzione di famiglia e di Stato. Di famiglia, perché i suoi protagonisti erano tutti parenti. Di Stato, perché abbatté il potere temporale del Papa e fondò una repubblica popolare. I Romani ne proclamarono Principe Alberico, il quale conservò anche il titolo di Senatore, ch’era puramente onorifico, ma che sui Quiriti faceva un certo effetto. In realtà, più che una repubblica popolare, fu una satrapia aristocratica perché di essa fece parte unicamente la nobiltà, anzi una sola famiglia: quella spoletina. Le mancò anche il sostegno di un ceto medio perché a Roma non ce n’era. I suoi abitanti erano preti, o nobili o popolani. I primi campavano di lasciti, i secondi di rendita, i terzi di elemosine. Non esistevano industrie e non c’era commercio. I Romani difettarono sempre di quello spirito mercantile che fece la fortuna economica di Firenze e di Milano. L’Urbe, fin dal Medio Evo, fu una città stagnante, apatica e parassita. Per governarla servivano due cose: il bastone e la carota. Alberico le seppe usare entrambe.
Era un uomo bello e risoluto, di aspetto marziale. C’era in lui qualcosa del Principe descritto dal Machiavelli. Arruolò a proprie spese un corpo di polizia, divise l’Urbe in dodici distretti, e a presidio di ciascuno pose una milizia cittadina, fedele e ben pagata. I Romani gli giurarono obbedienza. Chi rifiutò di farlo fu esiliato ed ebbe i beni confiscati. Le antiche monete raffiguranti Ugo, Marozia e Giovanni furono sostituite da altre recanti l’effigie del dittatore che avocò a sé anche l’amministrazione della giustizia. Sin allora i processi si erano celebrati in Laterano, al cospetto dell’Imperatore, del Papa o dei missi dominici. Il nuovo Principe adibì i propri palazzi sull’Aventino e sulla via Lata a tribunali, competenti anche a giudicare cause ecclesiastiche.
Alberico era ambizioso, ma a differenza di Marozia conosceva i limiti della propria potenza che era circoscritta entro i confini del Ducato Romano. Egli la consolidò e assicurò ai suoi abitanti una pace di cui essi non godevano da parecchio tempo.
Nel 933, un anno dopo essere fuggito, Ugo cercò di riconquistare la città che per uno scatto d’ira aveva perduto, e di farsi incoronare Imperatore. Assediò l’Urbe, ma non riuscì a espugnarla. Nel 936 ci si riprovò, ma anche questa volta senza successo. Un’epidemia di colera gli decimò l’esercito e lo costrinse a un accordo con Alberico che fu concluso per tramite dell’abate di Cluny, Odone. Ugo lo suggellò dando in sposa al figliastro la figlia Alda che aveva avuto dalla prima moglie. Sperava, con questo stratagemma, di rimetter piede a Roma e cacciarne Alberico, il quale però fiutò il tranello e non lo invitò nemmeno al matrimonio.
Nel gennaio dello stesso anno morì Giovanni XI. Gli successe Leone VII, un monaco che godeva fama di santo e forse lo era davvero. S’adoperò per applicare in Italia quella riforma benedettina che Berno e Odone di Cluny stavano attuando in Francia e che avrebbe dovuto riportare un po’ d’ordine e di pulizia nel monachesimo occidentale, piombato nell’anarchia. Nel 939 Leone calò nella tomba, e Stefano VIII cinse la tiara. Sotto Alberico i Papi non furono che marionette nelle sue mani, intesi esclusivamente a servizi divini. Non amavano il Principe anche se a lui dovevano la loro elezione. Stefano VIII gli ordì contro una congiura, ma fu scoperto e imprigionato.
Nel 941 tornò alla carica Ugo di Provenza che s’era associato al trono il figlio Lotario e aveva sposato, in terze nozze, la vedova di Rodolfo II di Borgogna, Berta. Anche stavolta Roma tenne duro ed egli dovette tornarsene a Pavia. L’Urbe era salva, e Alberico più in sella che mai.