CAPITOLO QUARANTATREESIMO

GLI OTTONI

Quando Ugo tornò in Lombardia, la trovò in preda al caos. Numerosi Conti gli si erano ribellati e minacciavano di sbalzarlo dal trono per issarvi il marchese d’Ivrea Berengario. Ugo riuscì a ridurre alla ragione gli oppositori e a riprendere in mano la situazione. Berengario, vista la mala parata, fuggì presso il Re di Germania, Ottone.

Il Regno di Germania era nato con la spartizione di Verduni che aveva praticamente disintegrato l’eredità di Carlomagno, e comprendeva la Sassonia, la Franconia, la Svevia, la Baviera e, in seguito, incorporò anche la Lotaringia. Era un melting-pot di lingue, leggi e abitudini assai disparate. I Sassoni, che erano stati i più irriducibili nemici dei Franchi e fra gli ultimi a convertirsi al Cristianesimo, occupavano la plaga Nord della Germania, compresa tra l’Elba e il Reno. I Bavari, ch’erano i più civili, quella Sud, tra il Reno e il Medio Danubio. Al principio del Novecento la Sassonia, la Franconia, la Svevia, la Baviera e la Lotaringia erano rette ciascuna da un Duca. In origine costui era designato dal Re franco e il suo titolo non era ereditario. Lo diventò in seguito allo sfacelo dell’Impero carolingio.

Nel 911 il Duca di Franconia, Corrado, fu eletto Re di Germania. Quando nel 918 morì, la corona passò sul capo di quello di Sassonia, Enrico I, detto l’Uccellatore per la sua passione per la caccia. Il Vescovo di Magonza s’offrì di consacrarlo Imperatore, ma Enrico rispose di non esser degno di un tale onore e lo rifiutò. Si ricordava degli Imperatori franchi e non voleva imitarne l’esempio. Morì nel 936, dopo aver nominato successore il primogenito Ottone. Ottone aveva ventiquattro anni, era biondo e corpulento, aveva una bella voce, amava la vita all’aria aperta, era un eccellente nuotatore e, a differenza del padre, un buon cattolico. Fu incoronato Re ad Aquisgrana dall’arcivescovo Ildebrando, alla presenza dei Duchi.

Quando Berengario si rifugiò presso di lui, correva l’anno 941. Nel 945 alla Corte di Ottone arrivò la notizia che i Conti lombardi si erano di nuovo ribellati a Ugo, e che il Re d’Italia aveva le ore contate. Berengario con un piccolo esercito di Sassoni partì allora per Milano. Quando vi giunse trovò il figlio di Ugo, Lotario, che a nome del padre gli chiese di lasciare a lui la corona d’Italia. Berengario, che non si sentiva ancora abbastanza forte per opporglisi, gliela lasciò. Ugo, stanco e pieno d’acciacchi, tornò in Provenza dove, poco dopo, morì fra le braccia di una cameriera, in seguito a un’indigestione di fichi secchi. Nel novembre del 950 calava nella tomba a Torino il figlio Lotario, stroncato da una coppa di veleno propinatagli da Berengario, che il 15 dicembre dello stesso anno si fece incoronare col figlio Adalberto Re d’Italia.

Lotario, oltre la corona, aveva lasciato una moglie. Si chiamava Adelaide, ed era una donna bellissima. Prima di sposare Lotario, era stata l’amante di Ugo, il suo futuro suocero, e pare che continuasse a esserlo anche dopo. Quando Lotario morì, Adalberto le chiese la mano, ma Adelaide gliela rifiutò. Allora la fece rinchiudere in una torre sul lago di Garda di dove, una notte, con la complicità delle guardie, essa fuggì a Canossa. Di qui lanciò un appello a Ottone perché scendesse in Italia e liberasse la Penisola da Berengario e Adalberto che la opprimevano.

Il Re di Germania non conosceva Adelaide, ma ne aveva sentito magnificare la bellezza. Era scapolo e la madre voleva che prendesse moglie. Adelaide, dal canto suo, era vedova e si sentiva molto sola. Sulla fine del 951 Ottone varcò le Alpi, andò a Canossa, liberò Adelaide, la condusse a Pavia e la sposò. Quindi spedì a Roma il Vescovo di Magonza con l’incarico di concludere un’alleanza col Papa, ma Alberico non lo fece nemmeno entrare in città.

Nel 952 Ottone tornò in Germania dopo aver nominato Corrado, Duca di Lotaringia, suo vicario in Italia. In una Dieta convocata ad Augusta pose la corona di Pavia sul capo di Berengario che la cinse come vassallo e andò a godersela a Ravenna. A Roma l’incoronazione del Marchese d’Ivrea fu accolta con favore. Da quando Alberico ne era diventato il padrone, l’Urbe era stata al riparo da tutte le bufere che avevano messo a soqquadro il resto d’Italia, soprattutto a Nord, e l’avevano insanguinata. Nel 954, dopo ventidue anni di regno, il figlio di Marozia morì di dissenteria. Pochi giorni prima, davanti all’altare di San Pietro, aveva fatto giurare ai nobili romani di eleggere Papa il figlio Ottaviano, quando Agapito II fosse calato nella tomba. Il che avvenne poco tempo dopo, e qualcuno parlò di veleno.

Riunendo nelle sue mani il potere spirituale di Agapito e quello temporale di Alberico, Ottaviano, salito al Soglio col nome di Giovanni XII, instaurò a Roma un’autocrazia in piena regola. Era nato ad Alda e aveva appena sedici anni. Era un giovane sensuale e turbolento. I suoi ritrovi preferiti erano la taverna e il bordello. Sotto la sua gestione, il Vaticano non differì molto da questi locali. Alla cura delle anime anteponeva quella dei corpi, specialmente femminili, alle processioni le battute di caccia e alla recita dei Salmi le partite ai dadi. I più bei nomi della nobiltà romana erano suoi compagni di crapula. Non c’era gentildonna e – dicevano i maligni – gentiluomo che non fossero stati ospiti nella sua alcova. Quando, ebbro, s’alzava da tavola, andava nella stalla e, brindando agli dèi pagani, consacrava diaconi e Vescovi, e celebrava la messa.

Dal padre e dalla nonna Marozia aveva ereditato l’ambizione ma non le qualità per appagarla. Lanciò una spedizione nel Mezzogiorno contro Capua e Benevento, ma fu travolto dagli eserciti salernitani mossi in soccorso dei due Ducati minacciati. Si schierò contro Berengario che sfidava l’Emilia e la Romagna, appartenenti alla Chiesa, e mirava ad annettersele. Nel 960 offrì al Re di Germania la corona d’Imperatore e lo invitò a Roma.

L’anno dopo Ottone con un grosso esercito varcò le Alpi, marciò su Pavia, dove passò le feste di Natale. Poi si mise in cammino per l’Urbe. I Romani, che detestavano gli stranieri, gli fecero un’accoglienza gelida. I pretoriani l’accompagnavano dovunque per timore che qualcuno l’uccidesse. Nella basilica di San Pietro, prima di inginocchiarsi ai piedi dell’altare, raccomandò al conte Ansfredo che gli stava accanto di guardargli le spalle mentre lui chinava il capo per cingere la corona. Ansfredo rispose che durante la cerimonia il capo doveva chinarlo anche lui per pregare. Ottone ribatté che non era quello il momento di pregare e gli ordinò di tener mano alla spada e vigilare sulla testa del suo Re, che, con l’aria che tirava, rischiava di perderla.

Al termine del rito giurò di non immischiarsi negli affari della Chiesa e promise di restituire al Pontefice quei territori che Pipino e Carlomagno gli avevano donato e i reucci d’Italia sottratto. Giovanni XII ribadì la fedeltà sua e dei Romani all’Imperatore. Era la fine di quella libertà, molto simile alla licenza e all’anarchia, di cui l’Urbe aveva goduto sotto Alberico.

Il 14 febbraio del 962, Ottone lasciò Roma e Papa Giovanni tornò ad abbandonarsi ai bagordi. Ordinò la riapertura dei lupanari che la presenza dell’Imperatore aveva consigliato di chiudere. Le prostitute ch’erano state nascoste nei conventi, furono rimesse in circolazione. Un cronista dell’epoca riferisce che ne uscirono più di quante ne erano entrate. Nessuna Romana osava avventurarsi per le strade dell’Urbe ai cui angoli stavano appostati i lenoni del Papa, pronti a rapire le donne sole e a condurle con la forza in Vaticano. Giovanni aveva un harem ben fornito e con le sue concubine era assai prodigo. Le colmava di doni e le manteneva a spese di San Pietro, ormai ridotto sul lastrico. Le chiese e gli edifici pubblici, abbandonati alle intemperie e all’incuria, andavano letteralmente in rovina. Crollavano i muri, i tetti sprofondavano sugli altari sommergendoli. Non funzionavano nemmeno i servizi igienici. Le fogne erano regolarmente intasate, sterco e rifiuti ingombravano le vie, emanando pestilenziali effluvi.

Nell’autunno del 963, mentre s’accingeva a muover guerra a Berengario che gli si era ribellato, Ottone fu informato che il Papa, in combutta con Adalberto, stava tramando contro di lui. Partì subito alla volta dell’Urbe. I Romani, senza opporre resistenza, gli spalancarono le porte e l’accolsero come un liberatore. Giovanni fuggì in carrozza con due amanti e uno scrigno di gioielli, e riparò in un castello del Lazio. L’Imperatore proclamò che in futuro nessun Papa poteva essere eletto senza il suo beneplacito. Il 6 novembre dello stesso anno convocò un Sinodo in San Pietro e lo chiamò a giudicare il Pontefice. Giovanni fu accusato in contumacia di omicidio, spergiuro, profanazione di chiese e incesto. Un Cardinale lo incolpò anche di aver brindato al demonio, di aver invocato Giove e Venere, e di aver giuocato ai dadi. Ottone lo invitò a scagionarsi. Il Papa lo fece con una lettera in cui scomunicava tutti, cominciando dall’Imperatore che lo depose e al suo posto istallò un laico, capo degli archivi lateranensi, che prese il nome di Leone VIII. Era un uomo probo e di buon senso, al di sopra della mischia, l’opposto di Giovanni, che gli scagliò contro l’anatema.

Il 3 gennaio del 964 le campane di Roma suonarono a stormo e i suoi abitanti scesero in piazza a dimostrare contro Ottone che aveva nominato il Papa senza interpellarli. L’Imperatore, che aveva rispedito al Nord il grosso dell’esercito, fu salvato da uno squadrone di cavalieri che aveva tenuto con sé in Castel Sant’Angelo, i quali caricarono i dimostranti e li massacrarono. Una settimana dopo, con cento ostaggi, mosse su Spoleto dove Adalberto stava arruolando un ennesimo esercito. Nell’Urbe lasciò una piccola guarnigione.

Erano appena trascorsi due giorni dalla partenza di Ottone che i Romani richiamarono Giovanni. Leone fu costretto a fuggire a Camerino, dove l’Imperatore s’era acquartierato. Il figlio di Alberico fu accolto con grandi onori e portato in trionfo dal popolino che lo amava perché riconosceva in lui i propri vizi. Il 26 febbraio convocò in San Pietro un Concilio che condannò il Sinodo che l’aveva deposto. Ordinò l’arresto di coloro che avevano eletto Leone e li fece orribilmente mutilare. Altri morirono in carcere, dopo essere stati torturati. Le purghe cessarono il 14 maggio, quando Giovanni calò nella tomba. Sulla sua morte ci sono varie versioni. Secondo alcuni fu ucciso da un marito tradito che, scopertolo a letto con la moglie, lo colpì alla testa con un bastone e lo lasciò stecchito. Secondo altri fu stroncato da una trombosi.

Il giorno stesso dei suoi funerali i Romani acclamarono suo successore un certo Benedetto, soprannominato il Grammatico perché aveva un debole per Seneca e Cicerone. Non s’era mai occupato di politica e tanto meno voleva occuparsene ora ch’era diventato Papa. Sotto Leone aveva sottoscritto la deposizione di Giovanni, e sotto Giovanni quella di Leone.

Ottone era stato informato della sua elezione mentre da Camerino s’apprestava a ripartire per Roma. Giunse nei pressi dell’Urbe alla testa del suo esercito, assetato di vendetta. La cinse d’assedio e bloccò tutte le vie di rifornimento finché gli abitanti, stremati dal digiuno, s’arresero e abbandonarono Benedetto alla sua mercé. Riunì subito un Concilio in Laterano e chiamò i Cardinali a giudicare l’Antipapa, che si difese piangendo e abbracciando le ginocchia dell’Imperatore. Leone VIII gli strappò il pallio e la tiara, gli sfilò l’anello, e per castigo lo fece sdraiare nudo per terra. Poi, per intercessione dello stesso Ottone, lo riconsacrò diacono e lo spedì in esilio. Nella lotta con la Chiesa, l’Impero aveva vinto il primo round.

Ottone lasciò Roma nel luglio del 964. Circa un anno dopo Leone VIII morì. I Romani stavolta non s’azzardarono a designargli un successore e inviarono un’ambasceria all’Imperatore perché lo nominasse lui. Fu scelto il figlio del Vescovo di Narni, Giovanni XIII, un uomo molto erudito e di famiglia cospicua. Regnò poco. I Quiriti non l’amavano, e nel dicembre del 965 lo imprigionarono. Ottone fu di nuovo costretto a tornare in Italia.

Varcò le Alpi nell’autunno del 966, si fermò un paio di settimane in Lombardia per regolare certi conti col figlio di Berengario che non aveva ancora deposto le armi, e alla fine di novembre entrò in Roma. I ribelli furono arrestati e mutilati. Il loro capo, un nobile di nome Giovanni, fu accecato e appeso per i capelli alla statua equestre di Marco Aurelio, in Campidoglio.

Giovanni penzolò un giorno intero dal monumento, fatto oggetto di scherno dai Romani che lo coprirono d’insulti e di sputi. Ricalato a terra gli furono strappati il naso e gli orecchi e poi fu caricato su un asino, con la faccia rivolta verso la coda che, munita di un campanello, gli fu messa in mano a mo’ di briglia. Sul capo gli fu posto un otre ricoperto di piume e ai piedi due anfore ricolme di sterco. Quindi fu portato a spasso per le strade di Roma, tra i lazzi osceni dei suoi abitanti.

Ottone non risparmiò nemmeno i morti. Fece riesumare e gettare fuori le mura i cadaveri di due nobili, Roffredo e Stefano. Il Papa che aveva partecipato al macabro rito, proclamò l’Imperatore «liberatore della Chiesa» e gli impartì l’apostolica benedizione. Nemmeno con Marozia e Giovanni XII Roma era precipitata tanto in basso. Il monaco di Soratte, che ci ha lasciato la cronaca di questi avvenimenti, rievoca con nostalgia i tempi in cui l’Urbe, cinta da mura con seimilaottocento merli, trecentottanta torri e quindici porte, era la «regina del mondo».

La vigilia di Natale del 967 Ottone I fu raggiunto a Roma dal figlio quattordicenne Ottone II, che il giorno dopo fu incoronato Imperatore dal Papa. Il padre se l’associò al trono e nel 972 lo fece sposare con la principessa greca Teofania. Ottone voleva unificare l’Italia sotto la casa di Sassonia e sperava, attraverso questo matrimonio, di indurre i residui bizantini a sgomberare il Mezzogiorno.

Il 14 aprile Giovanni XIII celebrò con gran pompa le nozze nella basilica di San Pietro alla presenza dei nobili romani e di quelli tedeschi. I Quiriti festeggiarono la coppia e dimenticarono il passato. L’abito bianco di Teofania faceva spiccare il colore olivastro del viso e i lunghi capelli corvini, che un diadema di pietre preziose fermava sulla fronte. Lo sposo, che aveva appena diciassette anni, indossava una clamide purpurea sulla tunica azzurra. Dal fianco gli pendeva una spada d’argento. Con la destra impugnava lo scettro e con la sinistra il globo. Il capo cingeva la corona ferrea. Era un ragazzo biondo, mingherlino, di statura inferiore alla media e malaticcio. Accanto a Teofania, più che il marito sembrava il suo paggio. Pochi giorni dopo, la famiglia imperiale al gran completo tornò in Germania.

Negli ultimi tempi la salute del vecchio Ottone, che soffriva di gotta, era andata peggiorando. Morì il 7 maggio del 973, a sessant’anni. Passò alla storia come il Carlomagno della Germania che divenne, sotto di lui, il Paese più ricco e lo Stato meglio ordinato d’Europa.

Ottone II tornò in Italia nell’autunno del 980 chiamato dal nuovo Papa, Benedetto VII, che i Tedeschi avevano eletto e i Romani volevano deporre. Passò il Natale a Ravenna e il giorno di Pasqua del 981, accompagnato dalla madre Adelaide, dalla moglie, dalla sorella e da un codazzo di altri parenti, entrò in Roma. La sera stessa invitò a pranzo i nemici del Pontefice e, alla frutta, li fece strangolare. Il loro capo Crescenzio, della potente famiglia romana dei Tuscolo, nascosto sotto un saio benedettino, riuscì a fuggire nel Mezzogiorno.

L’Imperatore vagheggiava come il padre la riconquista del Sud d’Italia e la riunificazione della Penisola sotto la corona di Germania. La moglie, nonostante le promesse dei fratelli Basilio e Costantino che dominavano allora su Bisanzio, non aveva portato in dote che la sua bellezza. I Greci erano padroni della Campania e della Calabria e non intendevano rinunciare alla loro Signoria. I Musulmani occupavano la Sicilia e infestavano le coste tirreniche.

Il 13 luglio del 982 Ottone si scontrò a Stilo coi Saraceni di Abul-Kasem. L’esercito tedesco nel quale erano state arruolate alcune migliaia di Italiani, fu letteralmente annientato. I pochi superstiti insieme con l’Imperatore ripararono a Capua. Nel giugno dell’anno successivo Ottone partì per Verona dove convocò una Dieta straordinaria e proclamò il figlioletto Ottone III, che aveva appena tre anni, Re di Germania e d’Italia. Poi tornò a Roma dove nel frattempo Benedetto VII era morto e i Quiriti tumultuavano per dargli un successore. Nominò al suo posto Giovanni XIV, ex cancelliere dell’Impero, ma dopo poche settimane, improvvisamente, a soli ventisei anni, calò nella tomba. Prima di morire, al cospetto di numerosi Vescovi e Cardinali, si era confessato. La salma fu rinchiusa in un bel sarcofago istoriato e tumulata nelle grotte Vaticane. Molti secoli dopo Paolo V la riesumò, depose le ceneri dell’Imperatore in un’urna di marmo, e regalò l’arca che le aveva custodite al proprio cuoco che l’adibì a pentolone.

Morto Ottone II, tutto passò nelle mani della moglie, reggente, in nome del figlio Ottone III. Teofania era una donna ambiziosa e autoritaria. Nei gesti e nel carattere ricordava la bizantina Teodora. Si comportò – ha scritto il Gregorovius – da Imperatrix anzi da Imperator, e i Romani le si sottomisero. Convocava placiti, nominava Vescovi, indiceva Sinodi. Rimasta vedova, nonostante le pressioni degli amici, non volle rimaritarsi. Andava a pregare ogni giorno sulla tomba di Ottone per la cui anima faceva celebrare quotidiane messe di suffragio. Si circondava di monaci e di Santi che a quei tempi pare che fossero a Roma assai numerosi. Morì nel 991 di dissenteria. Sotto il suo materasso furono trovati un cilicio, un Salterio o libro dei Salmi, e alcune reliquie di Martiri trafugate – si racconta – al Pontefice.

I Romani, con Giovanni Crescenzio alla loro testa, rimbaldanzirono, e Giovanni XIV fu costretto a lasciare Roma e a chiedere asilo a Ugo di Toscana che chiamò in Italia Ottone III. Nella primavera del 996 l’Imperatore, che aveva appena compiuto i quattordici anni, varcò le Alpi. I Romani gli mandarono a dire che non vedevano l’ora che arrivasse. Ottone entrò nell’Urbe imbandierata e parata a festa su un cavallo bianco, indossando una corazza d’argento e cingendo sul capo una corona d’oro tempestata di pietre preziose. Aveva al fianco il cugino ventiduenne Bruno, ch’era anche il suo confessore e che nel maggio dello stesso anno, alla morte di Giovanni XIV, assunse la tiara col nome di Gregorio V. Fu il primo Pontefice tedesco. In due secoli e mezzo, su quarantasette Papi, solo due, Bonifacio VI e Giovanni XIV, non erano nati nell’Urbe o nel Ducato Romano.

La prima visita di Ottone a Roma fu breve. Tornò quasi subito in Germania dopo aver bandito Crescenzio e disperso i suoi partigiani. Ma subito dopo la sua partenza, Crescenzio rientrò nell’Urbe scacciandone Gregorio e sostituendolo con un suo protetto.

Ottone, allarmato, abbandonò di nuovo la Germania, minacciata dagli eserciti slavi, e ricalò in Italia. A Pavia Gregorio gli andò incontro e in lacrime lo scongiurò di restituirgli la tiara e cacciare l’Antipapa che i Romani avevano istallato al suo posto. Il giovane Imperatore furente ordinò all’esercito di marciare sull’Urbe e raderla al suolo. Non ce ne fu bisogno perché i suoi abitanti, alla vista dei tedeschi, deposero immediatamente le armi. Crescenzio, abbandonato a se stesso, si barricò in Castel Sant’Angelo, deciso a vender cara la pelle.

Per parecchi giorni Ottone tentò – ma inutilmente – di espugnare la fortezza. Le possenti mura resistevano a tutti gli urti e respingevano ogni assalto. Allora fece costruire un colossale ariete e il 29 aprile del 998 finalmente Crescenzio capitolò. Il ribelle fu condannato a morte, decapitato e precipitato dai merli della torre più alta. Poi il cadavere, maciullato e irriconoscibile, fu appeso a un patibolo eretto sul cocuzzolo di Monte Mario dove per una settimana fu esposto al ludibrio dei Romani. La moglie Stefania, stanata assieme al marito dal castello, fu condotta al cospetto dell’Imperatore, di cui divenne l’amante.

Nel novembre Ottone, divorato dal rimorso per il supplizio inflitto a Crescenzio, scalzo e con indosso un semplice saio, partì pellegrino per il Gargano, ch’era considerato un po’ il monte Athos dei Cristiani d’Occidente. Sulla sua cima il monaco Adalberto insieme con altri religiosi aveva piantato alcune tende e trasformato l’eremo in un luogo di penitenza. Fra le sue mani Ottone depose la corona che teneva nascosta nella bisaccia. Poi scoppiò a piangere e supplicò il santo di tornare con lui a Roma.

L’Urbe era in festa per la morte di Gregorio, stroncato da un infarto mentre stava leggendo i Padri della Chiesa. I Romani l’avevano sempre detestato perché era avaro e perché era straniero. Il dolore di Ottone per la morte dell’amico fu grande e sincero. Chiamò a succedergli un monaco di Aurillac, Gerberto. Era nato nel Sud della Francia da una povera famiglia di contadini. Aveva compiuto i suoi studi a Reims. Più che per la teologia aveva una passione per la matematica e la filosofia, di cui fu insegnante. Ottone II l’aveva conosciuto in Italia ed era stato conquistato dalla vastità della sua cultura e dall’acume del suo ingegno. L’aveva nominato abate di Bobbio e poi l’aveva chiamato presso di sé ad Aquisgrana dov’era diventato precettore del figlio. Salito sul trono, l’ex allievo l’ordinò Vescovo di Ravenna e, dopo un anno, Papa.

Gerberto cinse la tiara nell’aprile del 999 col nome di Silvestro II e sognò di instaurare a Roma una teocrazia. Adulava il giovane Imperatore, gli diceva che era la reincarnazione di Carlomagno e lo esortava a imitarne le gesta.

L’Urbe dilaniata dalle lotte di parte, dalle beghe del Clero e dai tumulti del popolino, aveva tradito la sua missione di caput mundi e non rappresentava più nulla. Ma il suo cielo non conosceva le brume che ammorbavano le inospitali contrade tedesche. Per Ottone, cagionevole di salute, l’aria di Roma era proprio quello che ci voleva. Ogni volta che tornava in Sassonia s’ammalava, e una struggente nostalgia dell’Italia lo invadeva. Si faceva chiamare Imperatore dei Romani, Console, Senatore. Dalla madre aveva ereditato tutti i vizi delle satrapie bizantine. Si vestiva come il Basileus, si circondava di eunuchi, imponeva alla Corte la liturgia di un protocollo assai complicato, mangiava da solo, issato su un trono, e si faceva servire dai nobili romani. Gerberto gli aveva insegnato il greco e il latino, che avevano sostituito il tedesco come lingue ufficiali dell’Impero, e l’aveva rimpinzito di classici che l’Imperatore citava in ogni occasione, e spesso a sproposito. Li leggevano per compiacergli persino i cuochi e i camerieri che fra una portata e l’altra declamavano Ovidio e Anacreonte. S’era fatto confezionare dieci corone di metalli e legni pregiati e una di penne di pavone. Quando si recava in Campidoglio indossava una tunica bianca, si cospargeva di profumi, e si ricopriva di gioielli come una matrona. Si faceva fare tre inchini, baciare le piante dei piedi, le ginocchia e la bocca. Solo il santo Adalberto era dispensato da questi omaggi. Anzi, quando l’Imperatore lo riceveva, gli baciava lui le mani e gli portava la bisaccia. Durante la Quaresima indossava il cilicio e si rinchiudeva in una cella del convento di San Clemente in compagnia del Vescovo di Worms, Franco, ch’era un giovane biondo e bellissimo. Ne usciva dopo due settimane, stremato dalle penitenze e dai digiuni.

Nel gennaio del 1001 il governatore di Tivoli Azzolino fu trucidato dagli abitanti ribellatisi ai Tedeschi. Ottone con un piccolo esercito marciò sulla città e in ventiquattr’ore la riportò all’obbedienza. Prima di lasciare l’Urbe aveva promesso ai Romani la villa di Adriano, che come una gemma il grande Imperatore aveva fatto incastonare nel cuore di Tivoli. Poi si era pentito e aveva deciso di tenerla per sé. I Romani indispettiti salirono sull’Aventino e cinsero d’assedio il palazzo di Ottone il quale, dopo esservisi ben barricato dentro, si portò sulla torre e, al riparo dei merli, arringò i Romani. Li accusò di ingratitudine ed esaltò il suo amore per l’Urbe che aveva innalzato a capitale dell’Impero. Poi, con voce tremante, puntò il dito sui capi della rivolta. Infiammato dalle sue parole, il popolo si avventò contro costoro e li tagliò a pezzi.

Dopo pochi giorni scoppiarono nuovi tumulti. L’Imperatore decise d’abbandonare la città e rifugiarsi in campagna. La notte del 16 febbraio del 1001, alla chetichella, in compagnia del Papa, partì per Ravenna dove trovò alloggio nel convento di Classe. A Roma, Gregorio di Tuscolo, nipote del grande Alberico, con un colpo di mano s’impadronì del potere e scacciò il partito tedesco. Nel giugno, dopo alcuni mesi di penitenze, Ottone ripartì per l’Urbe ma, non riuscendo a penetrarvi, tornò a Ravenna a pregare.

Qui lo raggiunse la notizia che i Tedeschi erano scontenti di lui e volevano deporlo. Allora si mise di nuovo in marcia per Roma, ma a Viterbo fu colto da un accesso di febbre e morì, fra le braccia di Gerberto, dopo aver ricevuto la comunione. Aveva ventidue anni.

Una leggenda narra che fu ucciso da Stefania che lo avviluppò in una pelle di cervo intrisa di veleno. La salma fu portata ad Aquisgrana dove Ottone aveva espresso il desiderio d’essere sepolto accanto a Carlomagno. Era stato un uomo inquieto e confusionario, un miscuglio di idealismo, misticismo e megalomania. I Tedeschi l’accusarono d’aver tradito la Germania. I Romani lo tacciarono di despota e gli affibbiarono l’appellativo di Stupor mundi.

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