Nell’avvertenza al primo volume della sua Storia d’Italia e in quelle che precedono gli altri, Indro Montanelli riconosce l’esistenza di un legame fra quest’opera, allora appena iniziata, e le storie dei Greci e dei Romani, pubblicate qualche anno prima. Vi è quindi, secondo l’autore, una storia d’Italia che discende, con una sorta di primogenitura, dalla storia della civiltà greca e da quella dell’Impero Romano. Montanelli, beninteso, non poteva ignorare che una tale impostazione aveva suscitato in passato molte appassionate controversie storiografiche. Era certamente possibile scrivere una storia degli avvenimenti della Penisola dalla più remota antichità ai nostri giorni. Ma era altrettanto possibile scrivere una quasi bimillenaria «Storia d’Italia»? Una tale opera presuppone l’esistenza di una entità chiamata Italia di cui sia possibile raccontare le origini, la nascita, lo sviluppo, le fasi del declino e quelle della rinascita. Quando uno dei maggiori storici italiani della prima metà del Novecento, Gioacchino Volpe, pubblicò nel 1922 un Programma e orientamento per una «Storia d’Italia» in collaborazione, si aprì una discussione a cui parteciparono tra gli altri Benedetto Croce, Luigi Salvatorelli, Arrigo Solmi. Qualcuno sosteneva che occorresse partire dalla caduta dell’Impero Romano (la soluzione adottata da Montanelli); altri dalla fine del Settecento, quando l’invasione francese aveva creato sentimenti e attese nazionali diffusi nell’intera Penisola; altri ancora dal momento della fondazione dello Stato unitario.
I materiali e i riferimenti storici su cui lavorare erano numerosi. Vi erano i lamenti di Dante («Ahi, serva Italia, di dolore ostello…»), le malinconiche riflessioni di Petrarca («Italia mia, benché il parlar sia indarno…») le invocazioni di Machiavelli contro il «barbaro dominio», la Storia d’Italia di Guicciardini, gli Annali d’Italia di Ludovico Antonio Muratori. Più tardi, verso gli inizi dell’Ottocento, i materiali sui tempi lunghi della storia italiana diventano ancora più numerosi. Carlo Denina pubblica a Torino nel 1799 i 24 volumi intitolati Delle rivoluzioni d’Italia. Sismondi scrive fra il 1807 e il 1818 la Storia delle Repubbliche italiane del Medio Evo. Nel 1830 Cesare Balbo pubblica la Storia d’Italia dal 390 a.C. al 1814. Nel 1832 Carlo Botta pubblica presso la Tipografia Elvetica di Capolagola Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789. Nel 1855 Cesare Cantù pubblica la Storia degli italiani (un titolo ripreso da Giuliano Procacci per un’opera in due volumi scritta per un editore francese negli anni Sessanta del Novecento). Nel 1858 Giuseppe Ferrari pubblica a Parigi l’Histoire des révolutions d’Italie de Guelfes et Gibelins.
Mentre gli storici debbono pur sempre affrontare e risolvere problemi di periodizzazione (da quando cominciare, quando concludere), gli scrittori e i poeti, intanto, non esitano a lanciare spericolati ponti tra il presente e passato. Nel libro che introduce una Storia d’Italia in 23 volumi pubblicata dalla Utet, Giuseppe Galasso scrive che i romanzi storici di Manzoni, Massimo d’Azeglio, Tommaso Grossi, Francesco Domenico Guerrazzi traggono le loro trame, almeno in parte, dall’informazione storica raccolta nell’opera di Muratori. Potremmo fare analoghe osservazioni per il melodramma dove le vicende storiche legate alla Penisola (I Lombardi alla Prima Crociata, I due Foscari, I Vespri siciliani, Simon Boccanegra) sostituiscono sin dalla prima metà dell’Ottocento i temi mitologici che avevano fornito materia ai libretti del Settecento. Ma la fantasia, i sentimenti risorgimentali, il patriottismo nascente e l’imitazione di Walter Scott finiscono per rendere profeticamente italiano ciò che era in realtà lombardo, veneziano, genovese. Non basta. Quando la Penisola esce dagli splendori del grande Rinascimento comunale e diventa terra di conquista, lunghe parti della sua storia starebbero molto meglio all’interno di quelle di Francia e di Spagna piuttosto che in una ipotetica storia d’Italia. E la storia dei Papi, magistralmente raccontata dalla storiografia tedesca? È certamente impossibile fare la storia del Papato ignorando l’Italia, ma le vicende del più antico Stato italiano dopo la caduta dell’Impero Romano trascendono quelle della Penisola. Della difficoltà di scrivere una storia d’Italia abbiano una conferma indiretta, del resto, nel gran numero di storie locali che cominciano ad apparire fra il Cinquecento e il Settecento. Quanto più è difficile parlare dell’Italia come di una «persona», tanto più facile è parlare delle sue città e delle sue regioni. La storia d’una città può avere maggiore continuità e maggiore coerenza di quanta ne abbia la storia dell’intera Penisola. Per Miguel de Cervantes l’Italia non esisteva. Esistevano «las Italias».
Nel dibattito provocato dalla proposta di Volpe, Benedetto Croce tagliò corto e sostenne che non era possibile fare una storia d’Italia prima della sua unificazione. Per scrivere dell’«Italia», in altre parole, occorreva che esistessero anzitutto uno Stato nazionale e un popolo di cittadini, protagonisti collettivi di vicende che avrebbero influito in eguale modo sulla vita di ciascuno di essi. Dietro queste riflessioni di Croce vi era la convinzione che la storia fosse sempre «contemporanea». Gli storici non vanno alla ricerca del passato per il piacere di scoprire continenti sconosciuti. Vogliono risposte a domande che sono suggerite dai tempi in cui vivono e scelgono quindi temi, personaggi, epoche storiche in funzione dei problemi che desiderano risolvere. Gli storici, generalmente, non lo ammettono perché non vogliono che la loro opera appaia dettata da considerazioni utilitarie. Ma Croce aveva certamente ragione. L’interesse per il passato nasce sempre dalle questioni che dobbiamo affrontare nel presente. Si potrebbero allargare le riflessioni di Croce e osservare che la storia d’Italia diventa possibile solo nel momento in cui l’unità statale della Penisola appare desiderabile, possibile o addirittura a portata di mano. Ogni storia nazionale, anche quando l’autore non lo ammette o non ne è consapevole, trae il suo senso e la sua «direzione di marcia» dal punto d’arrivo, vale a dire dalle condizioni del Paese nel momento in cui l’autore comincia a scrivere.
Perché dunque scrivere una storia d’Italia che comincia quando l’Italia non esiste e si prolunga per più di un millennio senza alcuna traccia della sua protagonista? Montanelli crede evidentemente che questo lungo periodo sia già «italiano» e possa essere rappresentato come la lunga incubazione di un evento iscritto nella storia del Paese e nel carattere dei suoi abitanti. Poco importa se abbia torto o ragione. Molto più interessante, mi sembra, è cercare di capire perché sia giunto alla conclusione che una tale storia d’Italia era possibile e auspicabile.
Montanelli è certamente «risorgimentale». Il ricordo del prozio, Giuseppe Montanelli, appartiene al patrimonio familiare. Il suo fascismo giovanile non ha nulla a che vedere con le componenti socialiste, repubblicane e corporativiste del partito di Mussolini. È fondato sulla convinzione, comune allora a molti italiani, che il fascismo possa rappresentare la continuazione del Risorgimento e completarne l’opera. È intelligente, spregiudicato, caustico e non tarda a stancarsi della retorica patriottarda del regime soprattutto quando i fatti, come nella guerra di Spagna, non corrispondono alle dichiarazioni roboanti dei bollettini militari. Ma la parola patria non ha mai smesso di suscitare nel suo animo sentimenti e emozioni. Sull’Italia del dopoguerra non si fa illusioni. Sa che il fascismo è stato sconfitto da una combinazione di circostanze, non dagli italiani, e che il Paese sarà prevalentemente governato d’ora in poi da forze politiche che non hanno creduto nel Risorgimento. Cede ogni tanto, come Leo Longanesi, alla tentazione di nobilitare il passato e di proclamare le virtù perdute degli uomini che «fecero l’Italia». Ma è troppo colto, spregiudicato e «sacrilego» per costruire un passato fittizio. Per capire quale fosse il suo animo verso il Risorgimento basta rileggere una pagina dei diari. È datata Cremona, 4 dicembre 1970, e racconta la presentazione di un volume della Storia d’Italia (L’Italia del Settecento) da poco uscito in libreria. Il pubblico cremonese è «appassionato e vibrante», ma anche Montanelli si mette a vibrare «quando si alza a parlare un tizio che, credendo d’intonarsi alle mie tesi, definisce il Risorgimento “tutta una balla”, esalta le masse italiane che si rifiutarono di parteciparvi e fa l’elogio dei disertori della Prima guerra mondiale. Intuisco subito in questo interlocutore l’esemplare zoologico che più insidia la funzionalità del mio fegato: l’integralista cattolico, il democristianuccio di sinistra, nemico dell’Italia e dello Stato. […] Eh, no! Il Risorgimento posso calunniarlo io, che vi appartengo. A loro non ne riconosco il diritto. La nostra patria sarà quel che sarà. Ma rappresenta qualcosa d’infinitamente migliore delle vostre sacrestie».
Montanelli non era soltanto risorgimentale. Era anche fiorentino e aveva per Firenze sentimenti non troppo diversi da quelli che aveva per l’Italia. Conosceva i vizi e i difetti della città e della sua regione, e non esitava a denunciarli. Ma non avrebbe mai permesso a un’altra persona di fare altrettanto. Sarebbe sbagliato e ingiusto tuttavia, ridurre il suo rapporto con la città a una sorta di patriottismo municipale. Firenze era per Montanelli l’aristocrazia culturale della nazione, la patria della sua lingua, della sua arte, del suo pensiero politico. Era insomma l’anello necessario di quell’insieme che lo rendeva fiero e orgoglioso della sua identità nazionale.
La Storia d’Italia nasce all’incrocio fra questi sentimenti e amori: la patria italiana, la patria fiorentina, la patria toscana, il rapporto con la romanità, la sensazione di appartenere, sia pure criticamente, a quella sequenza di eventi e personaggi che formano il copione della storia italiana. Per un narratore di eventi e un pittore di ritratti la tentazione è irresistibile. Montanelli non ha mai imparato e praticato il mestiere dello storico secondo le regole fissate dal mondo accademico, ma non mai smesso di leggere storia. Sa che tra la storiografia italiana e quella di altri Paesi, soprattutto di lingua inglese e francese, esistono grandi differenze. La prima è impeccabilmente filologica, zeppa di note e riferimenti bibliografici, scritta soprattutto per le fasce più colte della società e per i colleghi universitari. La seconda è altrettanto seria e documentata, ma è capace di narrare una battaglia come se non ne conoscessimo già il risultato e la vita di un uomo come se già non sapessimo quali furono i suoi approdi finali. Montanelli ha un’ambizione: vuole dare una lezione di stile a un ambiente che gli sembra polveroso, spocchioso e per di più soggetto all’influenza di pre-giudizi ideologici che rendono i loro libri terribilmente prevedibili. Si rende conto di non poter affrontare da solo un’opera che lo costringerebbe ad abbandonare qualsiasi altro impegno professionale e decide di creare quella che per i grandi pittori italiani, soprattutto del Rinascimento, si sarebbe chiamata una bottega. Ma riconosce cavallerescamente il merito dei suoi compagni di lavoro da Roberto Gervaso a Mario Cervi.
È possibile che neppure Montanelli, agli inizi, si rendesse conto dell’importanza che questa iniziativa avrebbe avuto per la sua vita. Se ne accorse quando l’opera, sin dai primi volumi, provocò due reazioni diametralmente opposte: i commenti a bocca storta dei recensori appartenenti al mondo accademico e l’entusiasmo dei lettori. Quel contrasto fu l’adrenalina di cui aveva bisogno per attraversare correndo mille e cinquecento anni di storia italiana. Quanto più gli accademici lo accusavano di scrivere una storia aneddotica, povera di riferimenti bibliografici e troppo «contemporanea», tanto più Montanelli accusava gli storici italiani di essere grigi e incomprensibili. Credo che poche cose, nel corso della sua vita, lo abbiano divertito quanto i suoi frequenti duelli con il mondo accademico. Sia detto per inciso, erano duelli impari: il fioretto di Montanelli era sempre più rapido e letale dello spadone dei suoi avversari.
Naturalmente non tutti i suoi critici avevano sempre torto. La Storia di Montanelli contiene lacune, scorciatoie, giudizi discutibili. Ma i suoi critici non capirono che l’autore stava facendo qualcosa di cui il Paese aveva bisogno e di cui essi sarebbero stati incapaci: la prima grande storia popolare della Penisola. Ne sarebbero stati incapaci perché lo storico accademico (una espressione che non vuole essere irriverente) è sempre necessariamente lo specialista di un’epoca, di una regione, di un tema. Nessuno di essi sarebbe in grado di fare con altrettanta competenza un’opera destinata a estendersi su molti secoli e a trattare tutti gli aspetti di una storia nazionale intrecciata con quelle dei maggiori Paesi europei. È questa la ragione per cui quasi tutte le storie d’Italia, da quella di Einaudi a quella di Galasso per Utet, sono opere collettive, spesso realizzate, come la prima, con un numero sterminato di collaboratori. Per una grande storia popolare invece occorrono unità di stile, di concezione, di prospettiva e una dose massiccia di cultura generale. Il grande merito di Montanelli fu di avere osato l’impresa e realizzato il libro da cui gli italiani avrebbero ricavato quel sentimento di identità e appartenenza che completava la storia della loro unità e di cui anche oggi, a quanto pare, hanno bisogno.