Ai vespri del giorno di Pasqua, 5 aprile del 1097, con l’alta marea i primi convogli carichi di cavalieri, di cavalli, di asini e di pellegrini avevano lasciato Brindisi puntando verso Durazzo in Epiro, sull’opposta sponda del canale d’Otranto. Il tempo era chiaro, il mare leggermente mosso, la notte rischiarata dalla luna piena velata appena, di quando in quando, da rapide folate di nubi trasparenti. La traversata dell’intero convoglio occupò però quasi sei giorni, molto più del previsto: né fu felicissima. Una grossa nave da carico, piena di pellegrini, naufragò appena fuori dal porto e molte decine di passeggeri trovarono la morte. Poi un’improvvisa bonaccia, che durò tre giorni, lasciò parte della flotta in preda alle correnti al largo e infine l’obbligò a prender terra a una decina di miglia a nord di Durazzo.

Il primo tratto della Via Egnatia era molto aspro; e il contingente militare che l’imperatore greco aveva inviato ad accogliere la colonna che Roberto di Normandia definiva orgogliosamente «sua» non era dei più rassicuranti. Giunse per primo un gruppo di eleganti ufficiali della guardia imperiale, con leggere loriche lucenti di metallo a scaglie di pesce, calzari di cuoio, lunghe spade ed elmi appuntiti e ageminati d’oro; con loro v’erano qualche decina di «variaghi» o «varanghi» mercenari, alti guerrieri nordici dagli elmi bruni coperti da un nasale che si stendeva dinanzi al volto come una specie di maschera lasciando liberi solo gli occhi, grossi giachi di pelle borchiata, gambe nude protette da pesanti calzari e armati di asce dal lungo manico e da grossi scudi rotondi di legno rinforzato di metallo. Questi variaghi erano lontani parenti dei normanni, a quanto si diceva: ma non avevano l’aria di chi fraternizza facilmente. Dietro di loro arrivarono presto gruppi di cavalieri dall’aspetto ancor più strano e allarmante. Erano uomini dalla figura tozza, abbastanza piccoli di statura, robusti e tarchiati, dalla pelle olivastra con zigomi alti e piccoli occhi obliqui sottili come fessure. Stavano issati su bassi, panciuti cavalli dalle lunghe criniere e dalle code ornate di fiocchi e di trecce; avevano anch’essi robusti giachi di cuoio, ma coperti di liste di lana o di feltro a vivaci colori; e portavano appesi alla sella due larghi astucci, l’uno contenente un piccolo arco di corno a due curve – come una specie di lettera «B» – e l’altro brevi frecce lucenti e appuntite. Al posto degli elmi, quasi tutti quei guerrieri portavano alti e bizzarri copricapi di feltro o di pelo guarniti di piume di falco o di pavone. Insieme con le guide, che dato il loro numero e il loro aspetto parevano piuttosto dei sorveglianti, erano arrivati alcuni normanni anch’essi mercenari dell’imperatore, che servivano contro i barbari in Anatolia ma che tennero a ricordare di esser rimasti presso il sovrano greco dopo aver partecipato all’assalto che Roberto il Guiscardo e suo figlio Boemondo avevano tentato contro l’Epiro, circa sedici anni prima.

I normanni si erano mostrati pieni di gioia per l’arrivo del loro duca e avevano fornito esaurienti spiegazioni su quelle inattese milizie. In particolare, gli insoliti cavalieri venivano da lontano, da regioni oltre il Caucaso e i grandi fiumi delle pianure conosciute solo dai cacciatori di pellicce preziose e dai mercanti d’ambra, di legname, di cera e di miele che facevano la spola tra Baltico e Mar Nero. Si chiamavano peceneghi, o cumani, o «polovzi» come li definivano i principi russi che li avevano a lungo combattuti. Alcuni di loro erano ancora pagani, ma la maggior parte era cristiana eretica, cioè ariana o nestoriana. Si diceva fossero della stessa stirpe degli antichi unni, quelli dalla testa o dalle orecchie di cane, come degli àvari sterminati da Carlomagno, degli ungari che grazie al loro santo re Stefano si erano convertiti al tempo dell’imperatore Ottone, dei bulgari ch’erano stati sterminati pochi decenni prima dall’imperatore Basilio II detto perciò «il Bulgaroctono», il bulgaricida. Quel sovrano, che in quanto macedone proveniva proprio dalle terre che i pellegrini si apprestavano ad attraversare, aveva ucciso migliaia di bulgari e ne aveva fatte accatastare le teste in grandi piramidi ai crocevia delle strade lungo le quali sarebbero transitate altre migliaia di sconfitti. Era un mònito atroce, che d’altronde i prigionieri non avrebbero potuto cogliere: l’imperatore aveva difatti ordinato che fossero rinviati in patria, ma tutti accecati. Ogni mille sciagurati ne aveva lasciato uno, cui era stato strappato un solo occhio, affinché riconducesse in patria gli altri novecentonovantanove compagni di sventura.

Ma ai peceneghi non interessavano affatto né le disgrazie dei loro lontani parenti etnici, né le loro lontane vittorie contro i principi di Kiev, di Suzdal o di Vladimir. Semmai esse interessavano a Tagliaferro, il quale aveva saputo che i russi di Kiev su quelle gesta avevano composto un canto di guerra bellissimo, in onore del principe Igor caduto combattendo contro i polovzi: un canto che non aveva nulla da invidiare alla canzone di Rolando e che gli sarebbe piaciuto imparare. Se è per questo, gli avevano risposto i cavalieri normanni del servizio imperiale, come tutti i loro conterranei golosi di canzoni di gesta, macedoni e greci ne avevano di splendide. Ce n’era soprattutto una, dedicata a un eroe che combatteva gli infedeli in Anatolia ma che era greco e cristiano da parte di padre eppur figlio di una barbara pagana: e che per questo era chiamato Dighenis Akrìtas, che in greco significa appunto «Il Combattente dalla Doppia Origine». Qualcosa, aveva commentato il troviere normanno che conosceva bene le cose di Spagna e aveva partecipato a qualche campagna contro i mori, come quello che nelle canzoni castigliane è il «Cid Campeador», che lotta contro gli infedeli ma ne conosce la lingua, ne ama i costumi e ne rispetta il valore. Un normanno che, prima di finire in Anatolia, aveva a sua volta combattuto in Spagna e che – non più giovanissimo – ricordava bene l’impresa di Barbastro in Aragona di più di trent’anni prima, rispose di non aver mai sentito nominare il Cid (infatti, replicò Tagliaferro, Rodrigo Díaz è morto appena tre anni fa, nell’assedio di Valencia), ma di aver ascoltato delle canzoni eroiche arabe su temi analoghi. Quel giorno Rimondino, abituato all’odio feroce e al rancore senza remissione con cui nella sua terra si affrontavano partigiani dei papi riformatori e partigiani della Chiesa tradizionale, imparò una cosa strana che tuttavia gli parve molto bella: che cioè si può combattere un nemico che appartiene a un altro popolo e a un’altra fede religiosa, che è portatore di altri interessi e di altre necessità, e al tempo stesso apprezzarlo e perfino ammirarlo. Sono semmai i fratelli che, quando si odiano, si detestano senza remissione e fino all’ultimo.

Attraverso fiumi impetuosi e ripidi passi di montagna, dove la primavera non sembrava essere ancor arrivata, si giunse a Ochrida, sulla riva di un grande lago; e di lì nella bella e ricca Tessalonica, presso la quale ci si fermò sulla riva del Vardar per rifocillarsi circa quattro giorni e poi affrontare la Macedonia e le pianure della Tracia.

Ci s’inoltrava troppo nel mese di aprile, e i capi davano qualche segno d’impazienza. Le guide bizantine invece, e anche i mercenari normanni, raccomandavano la calma. Con la primavera i fiumi macedoni e traci avevano cominciato a gonfiarsi e c’era il pericolo d’inondazioni che avrebbero reso penoso il viaggio su percorsi fangosi. Era poi bene non giungere a Costantinopoli lungo la via costiera, come qualche normanno di Puglia aveva proposto: il delta del fiume che i bulgari chiamavano Maritza era impaludato e la primavera ne peggiorava le condizioni. Meglio far la strada più lunga ma meglio sorvegliata e più agevole, che puntava a nord-est verso Filippopoli e di lì attraverso Adrianopoli giungere alla capitale. Si era ormai addentro in quello che la Cristianità di rito romano chiamava, con qualche disprezzo, «regno dei greci», ma il cui sovrano si definiva basileus tòn Romàion, «imperatore dei romani». Si era, più propriamente, in quella terra che di solito si definiva come «Romània», la cui capitale era la città che portava il nome di «Nuova Roma», per quanto più comune in Occidente fosse chiamarla Bisanzio – col vecchio nome che quel centro urbano aveva prima che l’imperatore Costantino lo rifondasse del tutto – oppure Costantinopoli.

Ma alcuni fra i capi avevano fretta. Il duca Roberto sapeva dai messi, che riceveva con frequenza, che gli altri principi che si erano dati appuntamento a Costantinopoli stavano tutti passando in Asia: e temeva di far la figura del vile. La strada per Adrianopoli avrebbe inutilmente allungato il cammino, si sarebbero dovuti superare molti guadi e aggirare il possente, pauroso massiccio del Rodope infestato ancora dagli antichi dèi-demoni greci. Meglio quindi seguir la Via Egnatia, per Roussa e Rodosto.

Ai primi di maggio i pellegrini si accamparono vicino a Selymbria, in una pianura ricca d’acque, prossima – dissero le guide – una ventina di miglia a Costantinopoli. Si aspettava il consenso del basileus il quale aveva fatto sapere di voler ricevere col massimo degli onori il duca Roberto e il conte Stefano. I grandi e i cavalieri più importanti sarebbero stati ricevuti e alloggiati presso il palazzo imperiale; gli altri cavalieri, il loro seguito e i pellegrini sarebbero stati alloggiati in accampamenti già predisposti presso le mura e ammessi alla visita della città, delle sue belle e grandi chiese e delle sue preziosissime reliquie in gruppi scortati di cento per volta. Era comunque chiaro che variaghi e peceneghi, più che accompagnare quelli che essi chiamavano i «franchi», li stavano sorvegliando da vicino. Anche i mercenari imperiali normanni dicevano di sentirsi continuamente sotto il tiro dei micidiali archi peceneghi: ma la sensazione del sospettoso duca Roberto era che il basileus avesse inviato i normanni proprio per tener meglio sotto controllo quegli ospiti che non si capiva fino a che punto egli – dopo averli fatti invitare, fin dai tempi del Concilio di Piacenza – ora gradisse.

Fu durante la sosta di quei pochi giorni non lontano dalla capitale, che si venne meglio a capire per quali ragioni l’imperatore fosse così cauto e tutto sommato poco ben disposto nei confronti dei nuovi arrivati.

Fin dall’estate dell’anno precedente non c’era stata pace per l’impero. Il basileus Alessio I, della famiglia dei Comneni, era abituato alle incursioni barbariche entro i confini del nord e dell’est; fra il 1080 e il 1081 aveva subìto e rintuzzato anche l’attacco alle coste epirote dei normanni d’Italia. Ma questa nuova specie d’incursori, questi pellegrini armati, non se li aspettava. Vero è che ormai da parecchi decenni si era abituati a veder arrivare in Oriente consistenti gruppi di pellegrini scortati da cavalieri: ad esempio, il pellegrinaggio guidato da Sigfrido arcivescovo di Colonia e da Gunther vescovo di Bamberga, tra il 1064 e il 1065, era stato una specie di vera e propria spedizione militare in Terrasanta. Questi franchi e alamanni, però, che arrivavano preceduti dalla fama di massacratori delle comunità ebraiche del loro stesso paese e che Coloman d’Ungheria si era affrettato a disperdere o a obbligar a passare dalle sue terre strettamente scortati come prigionieri, erano una novità allarmante. Anche i segni che li precedevano erano paurosi: in primavera si era avuta in tutto l’impero un’eccezionale invasione di cavallette, il suolo aveva tremato più volte, tuoni e bagliori provenienti dalle viscere della terra insieme con l’apertura repentina di fontane di fuoco si segnalavano ai confini della Cappadocia. Il basileus aveva inviato i suoi bravi e crudeli peceneghi incontro alle schiere guidate – egli non lo sapeva: ma ben lo sappiamo noi – da Pietro l’Eremita e da Gualtieri Senza Averi, ch’erano state intercettate nel luglio tra Filippopoli e Sofia e accompagnate sotto vigile scorta a Costantinopoli; ma, acquartierate sotto le mura occidentali, si erano date a ogni sorta di eccessi e di ruberie. L’imperatore sovveniva ogni giorno quella gente di derrate fresche; ma essi, non contenti e per giunta eccitati dalla predicazione dei chierici che erano con loro e che insegnavano che i bizantini erano eretici, che avevano respinto l’autorità del papa e che bestemmiavano contro lo Spirito Santo, avevano assaltato alcuni quartieri della città giungendo a scoperchiare i tetti di chiese e di palazzi, coperti di lamine di piombo argentato e di rame dorato, per vendere il metallo ai poco scrupolosi mercanti latini approdati con le loro navi non lungi dalla città. Alcuni gruppi si erano spinti sino ai margini dei giardini della residenza imperiale, avevano lanciato immondizie al di là dell’alto muro di cinta e qualcuno di loro era riuscito perfino a scavalcarlo; prima di essere abbattuti dalle frecce delle guardie, avevano fatto in tempo a massacrare alcuni tra gli animali che vivevano liberi per volontà imperiale nel parco: alcuni giovani cervi, un paio di timide gazzelle, dei pavoni e perfino un vecchio leone addomesticato ch’era stato donato una dozzina d’anni anni prima all’imperatore dal califfo fatimide d’Egitto. Quell’ultimo affronto aveva davvero indignato, ma soprattutto addolorato il sovrano: egli teneva molto al vecchio felino ormai semicieco e reso tardo nei movimenti dall’artrite. Lo aveva avuto cucciolo fra le braccia, e per molto tempo esso era stato fedele compagno di giochi della sua figlia prediletta, la porfirogenita Anna, ch’era una bambina quando la belva aveva fatto il suo ingresso nel sacro recinto di corte. Anna, ormai un’adolescente bella e sensibile – si diceva che scrivesse bellissimi versi in greco: ma parlava discretamente anche il latino, l’arabo e l’armeno –, non trascurava mai di chieder notizie della salute del suo vecchio compagno di giochi; e sovente, durante le sue passeggiate nel parco, indugiava presso di lui, nutrendolo con le sue mani e parlandogli dolcemente all’orecchio. Il padre aveva dato ordine che almeno per qualche giorno le si tacesse dello stupido, inutile scempio che i pellegrini avevano fatto dell’inoffensivo animale. I responsabili, catturati, si erano scusati sostenendo di aver avuto paura; d’altra parte, non avevano mai visto leoni – se non quelli di pietra sommariamente scolpiti nelle loro chiese – e non avevano quindi neppure riconosciuto, in quel grosso quadrupede fulvo, il re degli animali, quello che i preti tanto volentieri fanno simbolo del Cristo e di Satana. Il basileus aveva disposto che non si punissero in alcun modo quei barbari: li aveva fatti riaccompagnare agli accampamenti e aveva ordinato un’altra distribuzione d’olio, di vino, di farina, di verdure e di formaggio.

Ma aveva deciso di farla finita.

Il giorno dopo l’incidente, la guardia variaga aveva occupato gli accampamenti e ingiunto ai pellegrini di preparare le loro cose: entro due ore, capanne e baracche sarebbero state date alle fiamme. Le schiere poco pulite e poco disciplinate degli ospiti che avevano passato la misura erano state raccolte e, più che accompagnate, spinte a un porto fuori città dove venivano fatte salire su imbarcazioni già predisposte che le avevano traghettate oltre il Braccio di San Giorgio. La gente di Pietro d’Amiens e di Gualtieri Senza Averi si era così trovata ai primi dell’agosto in terra anatolica: il periodo era il più torrido dell’anno, ma la prossimità del mare mitigava il calore. Un numeroso reparto di soldati imperiali, esperti nella guerra contro gli invasori musulmani, li accompagnava: ma essi sembravano sdegnosi di ogni invito alla prudenza. Fu così che s’inoltrarono nella penisola anatolica, a onor del vero poco spostandosi da Costantinopoli e dal Marmara. Mischiati fra loro c’erano molti più chierici di quanti non sembrasse, reduci dalle lotte per la riforma della Chiesa, delusi perché i prelati riformatori non avevano ancor dato segno alcuno di voler rifondare la Chiesa dei veri Poveri, quella delle origini. A loro, quei luoghi parlavano il linguaggio dei primi tempi dell’evangelizzazione: Calcedonia, Nicomedia, Nicea...

Alcuni, alamanni e lombardi, si scelsero come capo un cavaliere italico di nome Rainaldo e, stimate vili le raccomandazioni degli altri capi, conquistarono un castello di nome Xerigordon: ma vi furono circondati dai nemici e dovettero arrendersi dopo un assedio atroce durante il quale per dissetarsi erano giunti a bere la propria orina. Alcuni abiurarono ed ebbero per questo salva la vita, ma furono inviati nel profondo dell’Asia come schiavi; gli altri furono massacrati senza pietà. Altri ancora, con Pietro l’Eremita, si erano attestati nel castello di Civetot sul Mar di Marmara: perirono a loro volta in un’imboscata, alla fine dell’ottobre, e con loro cadde il più geniale e generoso dei cavalieri che li comandava, Gualtieri Senza Averi. Pietro l’Eremita riuscì a fuggire e rientrò fortunosamente a Costantinopoli, disprezzato da chi l’accolse di nuovo negli accampamenti dei pellegrini che ancora non si erano mossi: aveva trascinato i suoi alla perdizione e non aveva avuto il coraggio di morire con loro. Era ormai Kukupetròs, come dicevano i greci: Pietro dal cappuccio, il Piccolo Pietro, un ridicolo buffone semidemente che parlava di montagne di cadaveri lasciati a marcire, e del cielo nero di avvoltoi, e di bambini strappati dal seno delle loro madri e sbattuti contro la roccia. Perché tra quei pellegrini c’erano inermi famiglie intere, e fanciulli lattanti, e donne incinte. Le ragazze giovani avevano sperato di sfuggire al massacro dandosi ai barbari: ma quelli le avevano denudate e buttate per terra, violentate lì fra i morti e poi sgozzate e lasciate anche loro a marcire, il ventre nudo e bianco, le vesti ancora alzate.

Alla fine dell’autunno era giunto a Costantinopoli Ugo di Vermandois, fratello del re di Francia. Si faceva chiamare Magnus, «il Grande», ma sapeva di giocar sulle parole: quell’aggettivo era soltanto la cattiva traduzione dell’espressione franco-settentrionale Maisné, che significa praticamente il contrario: «quello che è nato dopo», «il secondogenito». Era difatti il figlio cadetto di Enrico I di Francia e d’una principessa russa d’origine variaga, Anna di Kiev. Prima di partire, aveva spedito un’orgogliosa missiva al basileus: ma in realtà era povero di mezzi come di prestigio e lo sapeva bene. A Durazzo aveva atteso altezzoso che un grande funzionario imperiale gli andasse incontro, e si era mosso soltanto quand’era arrivato ad accoglierlo uno dei più stretti collaboratori di Alessio, l’ammiraglio Boutumités. S’illudeva che tutte quelle manifestazioni di riguardo fossero dovute al suo rango: e non comprendeva che quel che premeva ai bizantini era che egli non prendesse contatto con le migliaia di pellegrini privi di guida che affollavano la Via Egnatia fino a Costantinopoli. Una volta nella capitale, lo accolsero a corte e lo tennero segregato, come una sorta di ostaggio: non se ne accorse neppure. Gli offrirono i soliti ricchi doni che per il basileus erano poco più che perle di vetro e stracci colorati, ed egli s’illuse che quello fosse una specie di tributo presentato con tremore. In cambio, l’imperatore gli chiese un giuramento di fedeltà vassallatica: sapeva bene il valore che la parola data sotto giuramento aveva per quei barbari dai capelli rossi tagliati sopra le orecchie e dalle guance glabre, anche se altrettanto bene sapeva quanto facilmente essi sapessero essere spergiuri. Ma Ugo era convinto di esser diventato il favorito del basileus: e giurò.

Le cose andarono meno lisce con quelli che giunsero dopo di lui. Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, arrivò sul Bosforo verso Natale. Goffredo era un bell’uomo di circa trentasei anni, perennemente triste e pensoso. Aveva servito fedelmente l’imperatore Enrico IV nonostante ne avesse ricevuto scarse manifestazioni di stima; turbato dalla scomunica comminata al suo signore, era passato tardivamente dalla parte di papa Urbano II, che però poco si fidava di lui. Non era né un grande capo militare, né un valente amministratore dei suoi beni: per partire in quello che egli stimava soprattutto un pellegrinaggio penitenziale, aveva dovuto vendere o impegnare quasi tutti i suoi beni; si era indebitato fino al collo con certi prestatori ebrei e aveva dato in pegno l’avito castello di Bouillon al vescovo di Liegi. In questo modo aveva messo insieme un esercito di diverse centinaia tra cavalieri e serventi a cavallo; viaggiava con i fratelli Eustachio e Baldovino di Boulogne. Quest’ultimo, il minore, aveva da non molto tempo rinunziato a una vita ecclesiastica che la condizione di cadetto quasi gli imponeva ma che sarebbe stata più adatta al fratello maggiore. Era quasi il rovescio, come aspetto e come carattere, di Goffredo: bruno, estroverso, iracondo, desideroso di piaceri e di ricchezze. Viaggiava tirandosi dietro come un fardello noioso la moglie Godvere, timida e cagionevole. Goffredo era desideroso di compiere il suo servizio presso il basileus; avrebbe poi voluto proseguire con i suoi pellegrini lorenesi fino a Gerusalemme, sciogliere in umiltà il suo voto sulla pietra del Sepolcro e rientrare nel suo ducato per governarlo in pace, sperando che intanto fosse stata ristabilita la concordia tra l’imperatore e il papa. Baldovino, al contrario, non aveva alcuna intenzione di rientrare in Europa. Era ben deciso a ritagliarsi con la spada un dominio in quell’Asia che tutti descrivevano ricca e pronta a darsi agli audaci, come una donna. Non certo di quelle comunque del genere di Godvere, che passava i giorni in preghiera e accettava raramente il peso del corpo del marito, come un sacrificio. Del resto, raramente Baldovino la cercava.

I lorenesi non si erano comportati in modo per nulla disciplinato nell’avvicinarsi a Costantinopoli. Erano nate spesso scaramucce con i variaghi e i peceneghi. Il basileus inviò ai principi lorenesi il suo ospite-ostaggio Ugo, che tuttavia non seppe convincerli a giurar fedeltà al sovrano greco. Alle esitazioni dei sovraggiunti, Alessio aveva risposto negando loro le vettovaglie per le truppe; ed essi a loro volta avevano replicato saccheggiando in ritorsione i sobborghi della capitale. Il trasferimento del campo lorenese sul Corno d’Oro, presso il ricco sobborgo urbano di Pera, consentì che l’atmosfera si rasserenasse un po’: il basileus insisteva con gli inviti a corte, ma i principi lorenesi opponevano un tacito rifiuto. Era chiaro che non avevano voglia alcuna di prestar omaggio feudale.

Ma il tempo stringeva: Alessio sapeva bene che dalla Tracia stava giungendo – a marce se non forzate comunque abbastanza serrate – Boemondo, e non aveva alcuna intenzione di consentire che lorenesi e normanni, con le loro temibili armate di cavalieri pesanti, si trovassero insieme a Costantinopoli. Provò pertanto a forzar la mano di Goffredo, tagliando decisamente un’altra volta i viveri ai suoi uomini e ai pellegrini che viaggiavano con lui. La gente che aveva seguito Pietro l’Eremita si accalcava implorante attorno al padiglione del duca della Bassa Lorena: il basileus era uno scismatico, un crudele venditore di carne umana, un traditore; li aveva mandati a morire al di là del Bosforo, d’accordo con gli infedeli che li avevano macellati. Il Giovedì Santo del 1097 i lorenesi avevano attaccato il palazzo stesso di Blachernae, la sacra e splendida residenza imperiale sul Corno d’Oro. Fu il sangue freddo del basileus a salvare la situazione: da una parte egli impiegò le sue truppe con energia, in modo da impartir ai franchi una durissima lezione; dall’altra si affrettò a mandar messi a Goffredo, a dispiacersi per l’accaduto, a reiterare l’invito a corte e a ricordargli che la Pasqua vicina non poteva non trovar concordi tutti i fedeli del Cristo. Così, nella santa domenica della Resurrezione, il duca e i suoi fratelli dettero al sovrano quel bacio di pace ch’era anche il bacio che, secondo i costumi franchi, il vassus deve al suo senior.

Era tempo: anzi, appena in tempo. Le truppe lorenesi e i pellegrini che le seguivano erano stati da poco traghettati al di là del Bosforo, che alle mura occidentali della capitale si presentava il figlio del Guiscardo con il nipote Tancredi.

Boemondo aveva ormai passato la quarantina, ma era ancora nel pieno delle forze e della floridezza: alto, forte, i capelli biondorame tagliati corti, la voce sicura, il temperamento allegro e in apparenza risoluto. Diciamo in apparenza perché, di fatto, egli somigliava molto al padre: era cauto, sospettoso, riflessivo, maestro nell’arte del simulare e del dissimulare. Tancredi era simile a lui, con in più quel tanto d’arroganza che ai ventenni proviene dalla voglia di far il prima e il più pienamente possibile ingresso nella vita quando vi siano potere e piacere all’orizzonte, ma che – nei migliori – si attenua col tempo per cedere il passo a un’autorevolezza riflessiva, talvolta temperata dall’ironia. Si può dire che Tancredi fosse un Boemondo con vent’anni di meno.

Alessio attribuiva grande importanza all’incontro con i due principi normanni: diffidava di loro, ma li stimava e riteneva importante averli alleati in una circostanza nuova, della quale egli non riusciva a immaginare gli sviluppi. Aveva presso di sé, per un colloquio riservato con loro, due interpreti d’eccezione: Riccardo di Montescaglioso, che aveva partecipato all’offensiva normanna contro Bisanzio del 1080-1081 ma era poi rimasto presso il basileus offrendogli i suoi servigi mercenari e aveva guerreggiato a lungo in Anatolia; e la stessa Anna porfirogenita che, a parte il latino, da Riccardo aveva appreso anche un po’ degli idiomi volgari franco-normanno e italico del meridione. Dal canto suo, Riccardo ardeva dalla voglia di rivedere suo fratello Onfredo, che accompagnava Boemondo.

Fosse stata la presenza mediatrice di Riccardo, che gli ospiti avevano salutato con sincera commozione, o invece quella affascinante di Anna, oppure infine l’astuzia di entrambi i principali interlocutori, il colloquio andò nel migliore dei modi.

I normanni furono letteralmente ammaliati dalla figura alta e sottile della porfirogenita, che parlava con la gravità e la saggezza d’un abile diplomatico ma con la voce bassa, leggermente rauca, gutturale d’una giovane donna ben decisa a sedurre. Anna era slanciata nella sua lunga veste di porpora, e sotto un leggero e prezioso diadema i capelli violacei come gli occhi le scendevano sulle spalle: la sua giovane età le consentiva difatti di non portar veli. A sua volta, essa era rimasta profondamente colpita non tanto dalla giovanile baldanza di Tancredi quanto dalla forte maturità di Boemondo.

Questi accettò i ricchi doni di Alessio, ne offrì a sua volta e convenne sull’opportunità di prestar al basileus omaggio feudale. Chiese tuttavia in cambio una notevole quantità di denaro per i bisogni delle sue truppe e domandò che Tancredi fosse esentato dal giuramento all’imperatore: era suo nipote e suo vassallo, e ciò sarebbe potuto bastare. Tancredi sorrideva affabile e distaccato, carezzando la seta dell’abito d’onore che gli era stato fornito e che era un obbligo di etichetta per chiunque fosse comparso al cospetto del sovrano; ma Alessio non aveva difficoltà a comprender bene che cosa era accaduto. I normanni erano stati informati dai lorenesi della questione del giuramento, e Tancredi aveva fatto sapere con molta energia allo zio di non aver alcuna intenzione di accedervi. Boemondo, intuendo l’ostinazione del giovane, si era reso conto che era meglio non dar importanza alla cosa e far sua la richiesta del nipote: ma alla prima occasione si sarebbe ricordato di quel rifiuto, causa per lui di una difficoltà inutile e inopportuna. Alessio decise di adottare la medesima tattica e riempì comunque il giovane arrogante di doni che egli accettò come tributo dovuto al suo valore, stimandoli dentro di sé altrettante prove del timore ch’egli riusciva a incutere a quegli eretici corrotti.

Nei colloqui successivi, tuttavia, i nodi vennero al pettine. Boemondo insisteva per ricevere dal basileus, in cambio del suo omaggio, la carica di Gran Domestico d’Oriente, che lo avrebbe posto alla testa di tutte le milizie imperiali ad est del Bosforo. Ma Alessio replicò che era tradizione conferire tale incarico solo a capi militari che avessero già prestato per qualche tempo servizio, e che solo durante la campagna anatolica egli avrebbe pertanto potuto accedere alla richiesta senza offendere nessuno dei suoi fedeli, capaci e valorosi generali che avrebbero considerato un affronto l’esser sottoposti subito agli ordini del normanno mentre, dopo averne conosciuto il valore, lo avrebbero giudicato un privilegio.

Alla fine d’aprile, le truppe di Boemondo vennero traghettate e poterono riunirsi con quelle di Goffredo: l’Altavilla, che scortava pochi pellegrini, non gradì affatto la vista dell’immenso accampamento di quel che restava della schiera di Pietro l’Eremita, al quale Goffredo aveva di buon grado promesso protezione. Nonostante le decimazioni, si trattava di migliaia di persone tra cui abbondavano i vecchi, le donne, i bambini; avevano carriaggi e animali domestici con loro, perfino branchi di porci e di animali da cortile; erano mal armati – e un guerriero esperto sapeva che ciò era peggio che se fossero stati del tutto disarmati: una persona mal armata non serve in battaglia ma, forte delle armi che ha, può diventar sediziosa –, evidentemente insofferenti di qualunque disciplina, animati da una specie di entusiasmo religioso che li rendeva sospetti e impreparati a quelle difficoltà che – come ben gli aveva spiegato Riccardo di Montescaglioso, rammaricandosi che l’imperatore non gli avesse consentito di accompagnarlo oltre Nicea – chiunque si accingesse ad attraversar l’Anatolia avrebbe incontrato.

Raimondo IV di Saint-Gilles, conte di Tolosa e marchese di Provenza, giunse a Costantinopoli insieme con Ademaro di Monteil, vescovo di Le Puy e legato pontificio, più o meno mentre Boemondo si accingeva a passare il Bosforo. Ademaro recava con sé due preziose insegne: il vexillum beati Petri, la bandiera scarlatta conferita all’armata dal papa che poneva l’impresa sotto la benedizione e la protezione pontificia; e un grande stendardo di preziosa e pesante seta di Damasco – di quella rarissima, con cui si confezionavano i paramenti ecclesiastici di maggior pregio – dal color candido su cui, ricamata in nero e oro, campeggiava l’immagine di Nostra Signora di Le Puy. Il conte Raimondo, che scortava quei due santi simboli, si presentava come il defensor della Chiesa nell’àmbito dell’iter, la spedizione militare a Oriente, e dell’expeditio, il pellegrinaggio armato. Come tale, e come vassallo nelle cose temporali dell’imperatore romano-germanico per la Provenza e del re di Francia per Tolosa, egli si rifiutò recisamente di prestar qualunque forma di giuramento al basileus.

Alessio Comneno, però, non era troppo preoccupato di questo. Sapeva che il viaggio di Raimondo e di Ademaro attraverso Istria, Dalmazia e Serbia era stato molto duro, e anche in Tracia – a Roussa e poi a Rodosto – v’erano stati incidenti tanto con le popolazioni locali quanto con la milizia pecenega. Ma non dubitava della lealtà e della serietà di quel gran signore che, si diceva, si era già esemplarmente comportato contro i mori di Spagna.

Raimondo aveva circa sessant’anni e considerava quell’impresa la definitiva della sua vita. Era ben deciso, una volta esauriti i suoi doveri di guerriero combattendo gli infedeli in Anatolia, a proseguire la strada, pellegrino tra i pellegrini, fino alla pietra del Sepolcro. Aveva difatti fatto voto di trascorrere in Terrasanta i suoi ultimi anni e di morire presso quella valle di Giosafat nella quale tutti dovremo trovarci, quel tremendo Giorno d’ira e di giustizia. Si era disfatto di quasi tutti i suoi beni allodiali e aveva affidato quelli feudali al figlio naturale Bertrando, esigendo invece che la moglie – la principessa Elvira d’Aragona, imparentata con la casa reale di Navarra – e il figlio Alfonso lo seguissero. Era stanco e nauseato delle feroci e grette contese per il potere in Europa e aveva scosso la sabbia della terra natìa dai suoi calzari.

Il basileus ricevette quel gran signore austero e sdegnoso senza sfarzo, ma con una cordialità e una considerazione che non aveva riservato né al malinconico Goffredo, né all’irruento Baldovino, né all’ambizioso Boemondo, né all’arrogante Tancredi. Raimondo consentì a prestargli un tipo di omaggio in uso nella Francia meridionale, che non comportava alcuna forma di vera e propria sottomissione ma prometteva di rispettare vita, beni, diritti e onore della persona cui esso era diretto.

Così anche l’esercito provenzale, il più forte dei contingenti militari che partecipavano alla spedizione, poté passare il Bosforo e unirsi agli altri che già da alcuni giorni avevano posto l’assedio alla città di Nicea.

Roberto di Normandia, Stefano di Blois e quanti li accompagnavano si mossero da Selymbria alla fine dell’aprile 1097, appena i variaghi e i peceneghi che li scortavano (o, piuttosto, li sorvegliavano) fecero loro sapere che il basileus era finalmente in grado di riceverli con gli onori loro spettanti. Il che significava semplicemente – ma essi non lo sapevano – che la capitale era libera da altri scomodi contingenti «franchi», perché tutti gli altri avevano già passato il Bosforo. Le scorte imperiali accompagnarono l’intera colonna, guerrieri e pellegrini, fino a circa venti miglia dalla città, con una marcia abbastanza lenta durante la quale non fu consentito drizzar accampamenti; quindi, prima dell’alba del 3 maggio, la domenica Cantate Domino, il duca e il conte furono svegliati con una cortesia abbastanza brusca e invitati a scegliersi un seguito di non più di dieci persone ciascuno. Alcuni cavalieri normanni mercenari del basileus, arrivati da poco, s’inginocchiarono dinanzi al duca e lo rassicurarono. Non c’era nulla da temere: due triremi attendevano alla fonda in un vicino piccolo porto. Durante il viaggio, della durata di appena un paio d’ore, gli ospiti sarebbero stati forniti delle vesti d’onore necessarie per comparir al cospetto del sovrano, aiutati a indossarle e rapidamente istruiti sull’etichetta di corte. Quindi le triremi sarebbero approdate nel porto detto dell’imperatore Giuliano, a sud della città, non lontano dal palazzo imperiale: l’udienza avrebbe avuto subito luogo. Intanto il resto della colonna avrebbe potuto raggiungere a piedi i comodi accampamenti già predisposti presso le mura occidentali della capitale: là erano già stati apprestati padiglioni e alloggiamenti di numero e qualità convenienti ed erano pronte stalle da campo per i cavalli e fuochi accesi per il bagno e il cibo dei pellegrini.

Il duca aveva tentato di protestare, ma si era reso conto che la resistenza sarebbe stata inutile: i cavalieri normanni restavano rispettosamente inginocchiati, ma le alture attorno all’accampamento brulicavano di variaghi e di peceneghi. Stefano di Blois ascoltava taciturno, un lieve sorriso sulle labbra: era perfettamente sereno e aveva compreso di potersi fidare.

Scelsero i compagni ritenuti più adatti a venir ricevuti a corte. Qui, i mercenari normanni avevano loro raccomandato la discrezione. Durante le precedenti visite dei principi franchi, sempre graditi come figli al basileus, si erano verificate scene incresciose. Un cavaliere francese aveva perfino osato ascendere i gradini del trono imperiale e sedervisi incurante dell’orrore che tale gesto aveva infuso in tutti i dignitari presenti.

Stefano fece svegliare il conte Guido, pregandolo di accompagnarlo. Questi, a sua volta, chiese una piccola scorta e gli furono concesse due persone del suo seguito: scelse il confessore Ranieri e lo scudiero Astolfo. Nel campo si era diffuso un certo nervosismo. Guerrieri e pellegrini, destati prima del consueto e preoccupati per il viavai di bizantini in armi, si consigliavano concitatamente incerti se fosse il caso di resistere. I peceneghi, intanto, si stavano divertendo come per gioco a illuminare il campo con una pioggia di frecce infocate che essi scagliavano dalle alture e che cadevano sfrigolando in mare. Erano migliaia di piccole luci saettanti: uno spettacolo splendido, che indusse all’applauso ma che fece anche capire come fosse meglio non azzardar resistenze di sorta.

Alcune piccole scialuppe erano pronte a riva; le triremi erano alla fonda, poche decine di braccia discoste dalla spiaggia. Gli invitati vi salirono e, secondo il programma, furono inappuntabilmente lavati, vestiti di splendidi abiti variopinti e adorni secondo il rispettivo rango, rifocillati con vino caldo speziato e dolci di miele. Intorno, il buio era assoluto e si sentiva soltanto lo sciacquìo dei remi nell’acqua.

Un paio di ore più tardi, l’aria – non troppo fredda, ma umida e salmastra – si era fatta più chiara. Le triremi avevano piegato a sinistra e, dopo aver navigato verso oriente, puntavano ora a nord. I vascelli avanzavano fasciati da una nebbia spessa e vischiosa, che impediva di veder qualunque cosa a poche braccia. Perfino sul ponte della nave si faticava a distinguere persone e cose. A prua, ardevano grandi bracieri che certo servivano anche per segnalar la presenza delle imbarcazioni, mentre i marinai lanciavano a intervalli regolari lunghe grida alle quali a un certo punto parve che un lontano, ovattato, fievole suono di campana rispondesse. La nebbia fasciava tutto e tutti, rendendo arduo perfino il respirare; l’umidità stringeva le fauci, si arrampicava all’interno delle narici, faceva lacrimar gli occhi, penetrava le ossa.

Quasi d’un tratto, dalla destra, la coltre grigiastra prese ad assumere una timida tinta rosata; la nebbia sembrò lacerarsi e, al di là di essa, si cominciò a distinguere prima un barbaglio pallido, poi un tenue sfolgorar d’argento e d’oro. Erano le torri, le cupole, i tetti, le colonne di Costantinopoli la Grande, Costantinopoli la Sacra. Fu come se un soffio divino avesse liberato il mare degli ultimi brandelli di nebbia; e, inondata dai raggi del sole già tanto alto da parer sospeso sulle lontane alture della costa asiatica, la città apparve come incendiata dallo splendore dei suoi fastigi di rame e di piombo dorati e argentati, di marmo pario, d’avorio, di cedro smaltato e dipinto.

«Eccoci arrivati», sospirò con sollievo il conte Stefano già pregustando la bella descrizione di quella meraviglia che a suo nome la penna del fido Fulcherio avrebbe vergato per lui quella sera stessa diretta alla contessa Adele.

Invece, erano giunti appena all’inizio: ai cancelli dell’Asia.