IX

Lo spirito del Giappone medioevale

La cultura giapponese

Si potrebbe essere tentati di pensare che l’ascesa della rude società guerriera di Kamakura, poi le lotte successive alla fondazione del bakufu di Muromachi avessero fatto sprofondare nel caos generale la brillante cultura dell’epoca di Heian. Tuttavia, se gli avvenimenti politici e i casi della guerra causarono grandi e durevoli cambiamenti sociali ed economici, tutto quanto costituisce ciò che oggi viene chiamato bunka, la «cultura» giapponese, sopravvisse a questi drammi, pur subendo l’influenza degli sconvolgimenti cui fu sottoposta la vita del Paese. L’eleganza raffinata, la leziosaggine ma anche la decadenza che caratterizzavano la società della fine dell’epoca Fujiwara avrebbero senza alcun dubbio potuto condurre a una perdita di vigore nelle arti e negli spiriti, a un vero declino. L’energia e la semplicità del pensiero e dei costumi dei nuovi dirigenti del Paese non avrebbero tardato a trasformarsi, sotto l’influsso della nobiltà di Kyōto. In realtà, invece di scomparire nella bufera, la cultura dell’epoca Heian ricevette al contrario un impulso che le consentì di evolversi nuovamente, invece di perdersi per sempre in uno sterile immobilismo. Dopo un breve periodo di ristagno, lo spirito riprese i suoi diritti, e quello di Kyōto trovò una vitalità nuova nel contatto con lo spirito dei «Barbari del Sud». Si sviluppa allora uno spirito nuovo, meno superficiale, più eroico, che contrasta un poco con l’effeminatezza di quello dell’epoca precedente. Si ritorna alle origini, si cerca di riprendere concetti puramente giapponesi fin dalla loro base, e l’epoca meravigliosa di Nara (meravigliosa perché adorna dell’aureola che l’antichità conferisce) serve allora da modello. Tutta l’epoca Kamakura vedrà quindi lo spirito di Heian trasformarsi, e in un certo senso virilizzarsi. I guerrieri si trasferiscono di nuovo nella capitale. A contatto con l’aristocrazia della corte, il loro spirito ancora rude incomincia a farsi più dolce, più garbato e, con l’aiuto del lusso, finisce quasi per subire una conversione. Si assiste allora da una parte a una specie di democratizzazione della cultura e, dall’altra, a una nobilitazione dello spirito dei samurai. L’influenza delle nuove sette religiose e l’azione dei loro monaci, a questo punto, saranno preponderanti. Certe forme d’arte, nate a Kyōto, continuano a essere coltivate con una nuova energia e nuove forme estetiche vengono create. Il culto della sensibilità pura, il Mono no Aware1 caro agli aristocratici della capitale, si trasforma, e trova il suo compimento in forme artistiche in apparenza tanto diverse come la poesia, il teatro, la cerimonia del tè o la Via dei Fiori. Mentre un tempo la religione era stata la fonte di tutte le arti, non era più che la loro «madre nutrice», secondo l’espressione di G.B. Sansom.2 Nei monasteri, gli artisti e i letterati avevano trovato un rifugio nei momenti di disordine, ma in questo periodo le loro produzioni, dato che lo zen rifiutava le scritture, erano rivolte più verso la natura che verso l’esoterismo, e la tentazione di imitare i maestri cinesi era grande. Come questi ultimi, e soprattutto su istigazione dei maestri zen, i giapponesi cominciarono a descrivere piuttosto che a sognare, sia nel campo dell’arte sia in quello della letteratura. In una parola, gli artisti avevano imparato a vedere, e questa facoltà avrebbe permesso ai loro spiriti di liberarsi dei rituali astratti, per elaborare dei codici «visivi». «Se l’occhio è chiaro, funziona in fretta. Se la visione è penetrante, colui che vede è liberato dal dubbio. Il dubbio genera il pensiero; il pensiero obnubila la visione. Vedere in faccia significa vedere chiaramente. Se noi vediamo chiaramente, non esitiamo neppure un istante. Quindi vedere è credere. Noi crediamo perché vediamo chiaramente. La rivelazione della realtà della cosa conduce alla credenza in questa cosa...»3 Nacquero così delle arti contemplative, il cui spirito talvolta ci sfugge, ma la cui bellezza, anche se non la comprendiamo sempre, non può non commuoverci. È difficile definire il concetto dell’arte quale lo intendevano i giapponesi di quell’epoca, se non con la parola yūgen, che si potrebbe tradurre approssimativamente con «profonda bellezza». Questo yūgen è un qualche cosa di non sottoposto al cambiamento, ma al contrario è quanto c’è, nel cuore di ogni cosa, di eterno e di universale. È un sentimento estetico che trascende la forma, per ritrovarne lo spirito.4

L’essenza dello yūgen sta nel vero stato di bellezza e di gentilezza... Lo yūgen di un discorso è nella grazia del linguaggio e nella completa padronanza della parola... In maniera tale che la più comune delle frasi pronunciate sarà graziosa. Quanto alla musica, si può dire che una melodia è yūgen quando scorre magnificamente, e i suoni sembrano dolci all’orecchio. C’è yūgen nella danza, quando la sua disciplina è stata completamente dominata, e il pubblico è incantato dalla bellezza dei movimenti dei danzatori e dall’impressione di serenità che emana.5

Quest’epoca dagli aspetti così contraddittori, che vide il trionfo di un’estetica raffinata, non mancava né di grandiosità né di errori di gusto. Se all’inizio del periodo Kamakura la vita sembra un po’ troppo «utilitaria» e cupa, quando la prosperità ritorna diventa ben presto stravagante. E l’ultimo reggente Hōjō, che abbiamo visto divertirsi nell’assistere ai combattimenti di cani, non esitava a far venire da Kyōto compagnie di ballerini, attori e musicisti. Gli stessi shōgun Ashikaga offrivano grandi feste. Oda Nobunaga, dopo le sue vittorie, dà libero corso al suo amore per il lusso; Hideyoshi organizza feste sontuose, come il gigantesco hanami (visione dei fiori) del 15 marzo 1598, dato al Daigo-ji di Fushimi, presso Kyōto, cui avrebbero assistito tutti i daimyō del Giappone, e che è rimasto famoso. Certo, all’origine di queste feste c’è il desiderio di brillare, ma anche il bisogno di vedere e di far vedere: vedere le cose, la fioritura della primavera, una ciotola di ceramica, un niente, ma andando oltre la forma tangibile, penetrando nella natura della cosa. La bunka del Medioevo, diversamente da quella del periodo Heian, interamente basata su un’emozione prodotta e di conseguenza alquanto artificiale, cerca di comprendere intuitivamente la natura, di inserirvisi, e di vedere la bellezza reale nascosta sotto l’apparenza. Per potervi riuscire, l’uomo deve piegarsi a certe regole, a una legge. Ed è nella rigida osservanza di questa legge che egli può raggiungere la libertà totale, perché la Legge (Via dei Fiori, del Tè, del Nō) trascende l’individuo. E, secondo gli esteti del Medioevo giapponese, la perfetta libertà si può trovare soltanto osservando in modo assoluto una legge. Concezione fondamentale, che non determinerà solamente l’evoluzione dell’arte e della letteratura, ma anche quella dell’intera società giapponese.

La musica, la danza, il teatro

Poche erano le feste e le riunioni, anche piccole, senza accompagnamento musicale. Il popolo giapponese, naturalmente artista, perché sensibile, trovava normale di esprimere attraverso un flauto, un biwa o un koto, i sentimenti che aveva in sé. Ogni volta che se ne presentava l’occasione, ci si radunava per far musica e cantare. Certi strumenti erano riservati all’uso esclusivo delle donne, altri a quello degli uomini. Il flauto, per esempio, era considerato uno strumento tipicamente maschile, e le donne non imparavano a suonarlo. La moglie di Yoshitsune, travestita da paggio, è presa dallo smarrimento quando alcuni monaci le domandano di suonare il flauto, credendola un giovinetto.6 I giapponesi tenevano in gran conto gli strumenti:

Poi egli gli dette una quantità di cose preziose, e in particolare un bel tamburo in legno di sandalo, con un astuccio in pelle di montone e cordoni multicolori: «Io attribuisco un gran valore a questo strumento!» dichiarò Yoshitsune. «Durante il regno dell’ex imperatore Shirakawa, un monaco del tempio dello Hōjū-ji portò dalla Cina due rari tesori, un biwa chiamato Meigyoku e questo tamburo chiamato Hatsune. Meigyoku rimase nel palazzo imperiale fino al momento in cui bruciò, durante la guerra di Hōgen... Hatsune fu donato a Taira no Masamori, il governatore di Sanuki, che ne ebbe grande cura. Tadamori lo ereditò, dopo la morte di Masamori... Io avevo pensato di tenerlo sempre, ma desidero che lo abbiate voi, ora che la fine è giunta.»7

Gli oggetti di gran valore, come le sciabole, gli strumenti musicali, le coppe da tè ricevevano un nome, proprio come nelle nostre epopee medioevali vediamo i prodi cavalieri personalizzare la loro spada o il loro olifante. Uno strumento musicale era come una persona viva, creatrice, il suono essendo l’essenza stessa della vita. Per un samurai di classe, il saper suonare almeno uno strumento (il flauto) era altrettanto indispensabile dell’esser capace di comporre una poesia. In ogni occasione, e soprattutto durante le feste, religiose o profane, la musica accompagnava la danza; dei monaci-trovatori (biwa-hōshi) percorrevano in tutte le direzioni le strade medioevali del Giappone, cantando poemi epici come l’Heike Monogatari con l’accompagnamento di un biwa, specie di liuto a quattro o cinque corde. Gli altri strumenti in uso erano il koto, una grande cetra di legno derivata dal k’in cinese, con tredici corde di tensione uguali, che si potevano accordare secondo la gamma desiderata per mezzo di ponticelli mobili, numerosi tipi di flauti, diritti, traversi, a becco (uno di questi, lo shakuhachi, era stato introdotto dalla Cina nel 1335),8 e tamburini e tamburi diversi. Il Gikeiki ci ha lasciato un’ottima descrizione di un’orchestra improvvisata per accompagnare la danza di Shizuka, l’amante di Yoshitsune, una delle migliori danzatrici del Giappone di quell’epoca:

I tre musicisti si ritirarono, per potersi preparare a questa cerimonia, e poi ricomparvero uno alla volta. Suketsune... portava un tamburo in legno di sandalo coperto da una pelle di montone e con sei corde tese... Poi entrò Kajiwara... Egli cominciò ad accompagnare il tamburo come avrebbe potuto farlo un insetto stridendo, per mezzo di un gong adorno di crisantemi d’oro e sospeso a una cordicella multicolore... Hatakeyama prese «Brezza dei pini», il suo lungo flauto di bambù... Yoritomo, che stava dietro il tavolato, la giudicò una splendida orchestra.9

Il Taiheiki ci racconta che a Kyōto, verso la fine dell’epoca Kamakura, gli uomini apprezzavano molto la danza chiamata dengaku, e che questo spettacolo era appassionatamente ricercato da tutte le classi sociali, alte e basse.10

Le scale giapponesi si componevano di cinque note. Secondo Noël Péri,11 esse comparvero verso il XIII o il XIV secolo, un adattamento delle scale cinesi dette ritsu e ryo. Le variazioni delle note erano molto irregolari, e noi troviamo almeno tre tipi di scale le cui variazioni corrispondevano pressappoco a quelli delle nostre scale europee di fa diesis minore, di si minore e di mi minore.12 Le note «variabili» si ottenevano modificando la tensione delle corde mediante una pressione delle dita, o con un cambiamento della posizione delle labbra sul becco del flauto. La musica giapponese aveva quasi sempre lo scopo di sottolineare un canto, e le differenze di variazione tra le note, per quanto possano urtare il nostro orecchio occidentale, scorrono via con una certa facilità. Probabilmente, la musica di corte veniva dalla Corea. Quanto alle musiche popolari, ne ignoriamo le origini. I musicisti, che in generale erano monaci, nobili o samurai, appartenevano alle classi più alte; dal XIV secolo in avanti, essi costituirono delle specie di confraternite, che «laicizzarono» la musica religiosa. Essi si rasavano la testa come i monaci. Vi erano compagnie ambulanti che davano spettacoli nelle dimore dei nobili, dei grandi guerrieri e dei daimyō. Questi musicisti accompagnavano una o diverse danzatrici (shirabyōshi), le quali cantavano anche poesie chiamate imayō o saibara. Si conoscevano altri tipi di musica da ballo, d’ispirazione più popolare, come quelli dei sarugaku e dei dengaku. Gli spettacoli in cui la poesia, la danza e la musica si combinavano in maniera armoniosa, molto apprezzati dagli aristocratici del XIV secolo, diedero origine a una forma di teatro codificata, cui è stato dato il nome di Dengaku no Nō, o, più semplicemente, Nō. Le danze da teatro derivavano da danze contadine, generalmente eseguite nella stagione del trapianto del riso, onde scongiurare gli spiriti maligni. Quando i santuari adottarono queste danze, gli esecutori rivestirono splendidi costumi, e furono loro assegnati testi che essi dovevano recitare in modo rituale, con canti ritmati dal battito dei tamburi. Le compagnie di Sarugaku no Nō (Nō significa approssimativamente arte, talento), che appartenevano ai grandi santuari, avevano una fama che variava a seconda della qualità dei loro attori. Quella del Kasuga-taisha di Nara era molto apprezzata, alla fine dell’epoca Kamakura; i suoi attori perfezionarono il Sarugaku no Nō e il Dengaku no Nō, imponendo loro delle leggi. Abbiamo già visto che in Giappone un’arte non può esser lasciata alla fantasia degli individui, ma deve essere codificata. L’arte consiste soprattutto nel far vibrare all’unisono, in un quadro prestabilito, i sentimenti dello spettatore e quelli degli interpreti. Ed è per questo che, in qualsiasi forma d’arte giapponese, lo stato d’animo di colui che vede o ascolta è altrettanto importante di ciò che viene rappresentato. «Tra tutti coloro che assistono a uno spettacolo di Nō, scriveva Zeami nel 1420, gli intenditori lo vedono con il loro spirito, mentre quelli che non hanno imparato lo vedono con i loro occhi. Ciò che lo spirito vede è l’essenza; ciò che vede l’occhio è la rappresentazione... Senza essenza non può esservi rappresentazione. L’intenditore capisce che la rappresentazione risiede nell’essenza, e non si distacca da questa... egli comprende il Nō.»13 Il tema dello spettacolo e la personalità dell’attore contavano poco. Per simbolizzare i personaggi del dramma, gli attori principali erano mascherati.

Furono Kanami, un sacerdote shintō, e suo figlio Zeami (1363-1443 o 1445) che scoprirono le leggi e formularono le regole di questo teatro, che rimasero sempre immutate. Gli spettacoli «elaborati» di Dengaku no Nō erano già molto in voga nel 1349. Lo shōgun Ashikaga Takauji aveva dato in quell’anno un grandioso spettacolo con l’intento di finanziare la costruzione di un ponte. Vi assistettero parecchie migliaia di persone, dal reggente fino ai più umili. La scena era rivestita di tessuti verdi e scarlatti. La decoravano pelli di tigre e di pantera importate dalla Cina, e tendaggi di broccato d’oro. L’aria era profumata d’incenso. Due compagnie recitarono in competizione, e tutti gli attori erano riccamente vestiti, truccati e con i denti tinti di nero. Alcuni attori di Sarugaku eseguirono salti e piroette. Gli spettatori furono così entusiasti, che a furia di battere i piedi per manifestare la loro gioia provocarono il crollo delle tribune. Seguì il panico, di cui certi ladri approfittarono, e, le sciabole essendo state tratte dal fodero, la festa terminò nel sangue.14 Lo shōgun Yoshimitsu, grande appassionato di Nō, si divertiva nel vedere le evoluzioni dei giovanotti sulla scena (le donne non prendevano mai parte alle rappresentazioni teatrali), e incoraggiò quindi la creazione di questi spettacoli; gli attori si raggrupparono in compagnie familiari, chiamate za. Si svilupparono allora cinque scuole di Nō: Kanze (fondata da Zeami e da suo padre), Komparu, Hōshō, Kongō e Kita. Per gli shōgun questi spettacoli fornivano il pretesto di feste grandiose, che duravano talvolta una settimana. In certi casi, il lusso sulla scena era inaudito. Quando, nel 1568, lo shōgun Yoshiaki offrì a Nobunaga, per ringraziarlo del suo aiuto militare, un grande spettacolo di Nō che doveva comprendere tredici pezzi, Nobunaga, disgustato da questo sfoggio, mentre il Paese soffriva ancora per la guerra, abbandonò il teatro dopo il quinto pezzo.15

Poiché la passione del Nō si andava diffondendo nelle province, le grandi famiglie si preoccupavano, temendo che questo gusto incitasse i giovani signori a spese eccessive. La legge della casa degli Asakura (Asakura Tashikage Jūshichikajō) specifica, nel suo articolo 5: «Gli attori delle scuole Komparu, Kanze, Hōshō e Kita di Nō non devono essere chiamati spesso da Kyōto per dare rappresentazioni. Il denaro destinato a questo genere di cose deve essere speso per la formazione di giovani danzatori del distretto e per il costante vantaggio di quest’ultimo». L’articolo 6 aggiunge: «Nel castello, non si dovranno dare rappresentazioni di notte».16

Queste leggi permisero che nelle province si moltiplicassero compagnie di Nō, e che certe forme popolari di teatro e di danza prendessero sviluppo. Agli inizi del XVI secolo, il Nō era ancora privilegio di qualche famiglia aristocratica. Gli attori, vivacemente applauditi, erano l’orgoglio delle famiglie che li proteggevano. A ogni rappresentazione, venivano ricompensati largamente, specie con il dono di vestiti: «Quando questi danzatori partecipavano a una festa, il monaco laico di Sagami e tutti i suoi congiunti e capitani si toglievano le vesti e i calzoni (esterni) per gettarli loro, perché nessuno di essi voleva essere superato (in generosità). Gli abiti così ammucchiati formavano una montagna, e in questo modo nessuno poteva dire quante migliaia e decine di migliaia (di monete) essi avessero speso».17

Le arti coltivate per diletto

A quell’epoca, anche le arti coltivate per diletto, come le arti dello spettacolo, rientravano nel concetto yūgen della bellezza e del senso del wabi, o «espressione limitata». A partire dalla metà del XVI secolo, uno dei divertimenti preferiti consisteva nel riunire un gruppo di esteti in occasione del Cha no Yu, o cerimonia del tè. Questi raduni, in cui si beveva del tè, offrivano ai samurai e agli aristocratici di Kyōto anche l’opportunità di ammirare le opere d’arte – in particolare le porcellane – appena arrivate dalla Cina, di cui i signori dell’epoca erano appassionati. Ma, grazie al monaco zen Jukō (1422-1502) e ai suoi discepoli Jōō (1503-1555) e Rikyū (1521-1591), non tardò a essere codificata in una maniera precisa: divenne un’arte, nel senso giapponese della parola. Per poter preservare l’intimità e la calma necessarie alla celebrazione di questa cerimonia, nei giardini delle residenze vennero eretti speciali padiglioni. Questi chashitsu, il cui stile rustico era ispirato al wabi, ebbero presto, a loro volta, un giardino proprio, di un tipo particolare. La capanna del tè, semplicissima, si componeva di una sola stanza di piccole dimensioni – quattro tatami e mezzo, in origine – ma ogni suo elemento era stato scelto con un’estrema accuratezza. L’insieme doveva rispecchiare la pace propizia alla meditazione, consentire allo spirito di riposarsi e, lungi dall’agitazione della vita, di ritornare su se stesso. In certe grandi dimore o nei castelli, la strutturazione generale della pianta prevedeva alcune «camere del tè», e la loro semplicità contrastava con il lusso del resto della casa. La modestia di quest’architettura rustica piacque a molti nobili, i quali, influenzati dallo zen, si erano invaghiti della semplicità. Essi immaginarono di costruire dimore ispirate a questi chashitsu: donde lo stile sukiya che, sviluppandosi e adattandosi all’architettura shoin, condusse allo stile chiamato «Grande Shoin», che godette di grande favore soprattutto nel XVII secolo. La cerimonia in se stessa era molto sobria: ogni gesto che l’ospite e gli invitati dovevano fare era sottoposto a strette regole che nessuno poteva infrangere, se non voleva essere definito uno zoticone ed essere escluso dalla società. Ogni chashitsu era adorno di un tokonoma, dove era esposto un vaso prezioso, un dipinto o un mazzo di fiori. Là, bere il tè era una maniera per raccogliersi e apprezzare le cose semplici e di buon gusto, più che un mezzo per dissetarsi. E lo stile definitivamente codificato da Rikyū, il maestro del tè amico di Hideyoshi (che, caduto in disgrazia, si suicidò per ordine di quest’ultimo, nel 1591), è ancora seguito oggi nei suoi minimi particolari. Tuttavia, proprio come il teatro, questa cerimonia del tè divenne un passatempo costoso, e finì per dar luogo a grandi feste: e si vide Hideyoshi, allora all’apice della sua fama, organizzare nelle foreste di pini del Kitano Tenmangū a Kyōto, nel 1587, un’immensa e fastosa cerimonia del tè, a cui l’intera popolazione era invitata, e ogni persona doveva portare un bollitore, una tazza e una stuoia per sedersi. In quell’epoca, l’arte raffinata del XV secolo, elaborata sotto il patronato degli shōgun Ashikaga, cominciava a declinare.

Contemporaneamente allo sviluppo dell’arte del tè, si vide fiorire il kadō, la Via dei Fiori. L’arte dell’ikebana (disposizione dei fiori) esisteva già da prima, ma era considerata come un piacevole divertimento o un atto di adorazione, più che come una vera e propria arte. I mazzi preparati si adoperavano soprattutto come offerte da mettere sugli altari buddhisti. Lo stile chiamato rikka fu allora codificato per adornare il tokonoma dei palazzi e delle capanne del tè. Nel XV secolo Ikenobō Jukei inventò a Kyōto un nuovo stile di disporre i fiori, basato su principi confuciani simbolizzanti il Cielo, la Terra e l’Uomo (Tenchijin), stile chiamato nageire, oppure anche seika. Ma l’arte dei fiori ebbe il suo massimo sviluppo soltanto nel XVII secolo, epoca in cui vennero fondate numerose scuole, e in cui il kadō cominciò a far parte dell’educazione femminile in quasi tutte le classi della società giapponese.

Altre arti coltivate per diletto, e destinate a favorire gli incontri tra persone della stessa cultura estetica, consistevano nel paragonare tra loro profumi d’incenso, conchiglie o bulbi di ireos. L’arte della calligrafia, tanto apprezzata nel periodo Heian, non aveva perso alcuno dei suoi diritti: serviva a scrivere lettere, e soprattutto poesie, o massime considerate allora come opere d’arte. Erano di moda parecchi divertimenti, meno artistici ma sempre impregnati di un certo senso estetico: i giochi di carte di poesie, il sugoroku (una specie di giacchetto), lo shōgi (gioco di scacchi alla maniera cinese) o l’igo (oggi detto semplicemente go), che si gioca sopra un grande scacchiere, sul quale si spostano le pedine, cercando di accerchiare quelle dell’avversario.

Tra i divertimenti all’aria aperta, figuravano le corse di cavalli, i combattimenti di sumō (lotta rituale), una specie di gioco del polo (dakyū) e un gioco di pallamaglio (gicchō), praticato soprattutto il primo dell’anno. I nobili e la gente comune si dilettavano di assistere a questi giochi e a scommettere sui combattimenti dei galli (toriawase) o sulle corse di canotti. D’inverno, le battaglie di palle di neve erano apprezzate tanto dai bambini quanto dagli adulti. Ma uno degli sport preferiti dei nobili era il kemari, un gioco analogo a quello del calcio, nel quale la palla non doveva toccar terra prima di aver raggiunto la meta, e non si potevano adoperare le mani. Il popolo aveva poche distrazioni; ma partecipava alle feste rituali (matsuri) e assisteva talvolta alle corse o alle gare di tiro con l’arco organizzate dai samurai e dai nobili. Il gioco dell’aquilone dava luogo a spettacolosi combattimenti di tako, le code degli aquiloni essendo fornite di lame taglienti, destinate a mozzare la corda di quelli dell’avversario.

La scultura e la pittura

Se, sul piano politico, vi fu una pausa netta tra il periodo Fujiwara e quello Kamakura, l’ascesa di Yoritomo allo shōgunato non ebbe alcun effetto subitaneo sull’arte, che continuò a svilupparsi seguendo le tradizioni aristocratiche e religiose dei secoli precedenti. Tuttavia, con la ripresa dei rapporti con la Cina dei Song, in Giappone arrivarono numerosi modelli nuovi. Sebbene il buddhismo conoscesse allora una specie di rinascita, e soprattutto un rinnovamento, le sette nuove, pur non essendo aniconiche, per il loro carattere pratico e semplice non erano molto favorevoli alla rappresentazione delle divinità. Le divinità continuarono a essere scolpite o dipinte dagli artisti incaricati dalle sette Tendai e Shingon. Poiché la tendenza, come durante il periodo Nara, andava verso il ritratto, le immagini divine perdettero qualcosa del loro mistero e si umanizzarono: per dare maggior vita alle loro creazioni, gli scultori pensarono di dotarle di occhi di vetro o di cristallo dipinto, una tecnica chiamata gyokugan. Cominciarono allora ad apparire due tendenze, una d’ispirazione cinese, e soprattutto buddhista, l’altra costituita da un ritorno allo stile realistico dell’epoca Nara (VIII secolo), più popolare. Quest’ultima corrente avrebbe portato al vertice dell’arte le opere realiste di Unkei e degli scultori appartenenti alla sua scuola. Divinità, personaggi cinesi, monaci, daimyō, kami e animali furono allora scolpiti dal vero, e si animarono. Le opere di questo periodo e di questa scuola possono essere annoverate tra i capolavori più preziosi del mondo. La prima corrente, più tradizionale, rappresentata dalla scuola En-Pa (o di Shijō), portò a statue sovraccariche e a una specie di volgarizzazione delle forme utilizzate in precedenza. Questo periodo segnò l’inizio della decadenza della scultura, in Giappone. La divulgazione a livello popolare dello zen, dottrina che rifiutava le scritture e attribuiva scarsa importanza alla rappresentazione delle divinità, l’amidismo, il cui pantheon era ridotto alle immagini del Buddha Amida e dei suoi due accoliti, e il nichirenismo furono tutti fattori sfavorevoli alla scultura. Escluse poche sculture di maschere del Nō, in pratica il Giappone cessò, a partire dall’epoca Muromachi, di produrre opere scolpite di un certo valore.

Nella pittura, si osservano le stesse tendenze, ma con una differenza: poiché andava sostituendo la scultura e traeva vantaggio dai bisogni decorativi delle nuove classi agiate e dai costanti apporti cinesi, la pittura continuò a svilupparsi, e inaugurò generi diversi, secondo lo spirito del momento. Durante l’epoca Kamakura, seguendo l’esempio delle opere importate dalla Cina, la pittura raggiunse con l’arte del ritratto (chinsō, ritratti di monaci, di nobili o di samurai) un realismo mitigato di formalismo, un realismo che diventerà completo soltanto nel periodo successivo. Quanto alla pittura religiosa, segue lo stile dei pittori della dinastia dei Song, oppure «dinamizza» le opere della fine dell’epoca Heian, umanizzando le divinità e dando loro un certo movimento. Ma verso la fine del periodo, l’abuso delle lamine d’oro e delle tecniche pittoriche provocò una certa decadenza dello stile, che divenne formalista e privo di genialità.

D’altra parte, i rotoli miniati o emakimono risalenti a questo periodo mostrano grandi diversità sia di stile sia di soggetti. Molto popolari, questi emakimono, spesso disegnati e adoperati dai monaci per l’istruzione dei fedeli, descrivono non soltanto scene aristocratiche, ma anche, per la prima volta, scene di vita del popolo e dei guerrieri. Soggetti militari, vite di monaci famosi, come argomenti letterari e religiosi, furono allora trattati con grazia e vigore, e spesso con umorismo, in sumi-e (disegno con inchiostro di china) o a colori. La voga di questi rotoli miniati andrà declinando durante l’epoca Muromachi, per lasciare il posto a quella dei kakemono o dipinti sospesi, a imitazione delle pitture delle dinastie cinesi Song e Yuan.

Nel corso del periodo Muromachi, la ricchezza degli shōgun, consigliati dai monaci zen, provoca una specie di laicizzazione della pittura. I pittori giapponesi si recano in Cina, e ne riportano numerosi modelli: l’arte del suiboku (inchiostro di china), ispirata a quella dei pittori cinesi, si dedica alla descrizione del paesaggio o all’osservazione minuziosa della natura. Molto spesso i dipinti sono accompagnati da poesie scritte in bella grafia: si tratta dei shijiku. Questo genere di pittura, come i ritratti dei monaci, era tenuto in gran conto nei monasteri zen. Allora gli artisti, in maggioranza, erano monaci o pittori addetti a templi. Sesshū (1420-1506) fu uno degli artisti più fecondi del suo tempo; egli non ci ha lasciato solamente rotoli miniati, ma anche paraventi e kakemono mirabili per la concisione e lo spirito, i cui soggetti, trattati in linee semplici, sarebbero presto diventati tipicamente giapponesi. Quasi nello stesso tempo si sviluppavano altre scuole che, nel corso dei periodi successivi, avrebbero assunto una considerevole importanza nella storia dell’arte. Kanō Masanobu (1434-1530), un guerriero, creò un vero stile giapponese, diverso da quello di Sesshū, e suo figlio vi aggiunse il colore, allora tipico della scuola di Yamato-e, che fino a quel momento aveva riservato i talenti dei suoi pittori all’illustrazione degli emakimono. Ma sarà specialmente Kanō Eitoku che, alla fine del XVI secolo, creerà veramente lo stile della scuola Kanō. La pittura giapponese, tuttavia, si sarebbe guadagnata il proprio attestato di nobiltà soltanto nel XVI secolo, diventando davvero completamente colorata. Mentre l’arte di Muromachi tendeva a simbolizzare la natura, quella del periodo Momoyama (o dei Dittatori) cercherà di riprodurla in tutti i suoi particolari e nel modo più splendido possibile. Bisognava adornare le pareti e i fusuma dei castelli, e compiacere i gusti da «nuovi ricchi» dei signori del momento. Ecco allora soltanto decorazioni di fiori, uccelli, animali, paesaggi su fondi oro. Il castello che Nobunaga si era fatto costruire ad Azuchi era decorato a profusione, su cinque piani, da dipinti eseguiti da Kanō Eitoku e dai suoi allievi. La sontuosità era la tendenza dell’epoca, ma questo non impedì che parecchi dipinti fossero realizzati anche secondo i modelli dei pittori cinesi (in suiboku). A Kyōto e nelle province, tuttavia, sussistevano stili più classici; a Kyūshū cominciò a svilupparsi, attraverso il contatto con i missionari stranieri, una pittura più o meno ispirata a quella dell’Europa del XVI secolo. Ma questi nambanbyōbu (paraventi dei Barbari del Sud) in pratica non ebbero influenza sulla pittura giapponese, dato che, tutto sommato, il soggiorno degli stranieri non era stato duraturo. D’altra parte, si vide l’inizio di una pittura di genere, che raffigurava con precisione diversi strati della società, e piaceva alla nuova classe dei mercanti arricchiti.

L’insieme della produzione artistica giapponese del Medioevo, se si esclude quella degli emakimono, rimane nondimeno essenzialmente aristocratico. Alla fine del XVI secolo, tuttavia, si profila una leggera tendenza verso la democratizzazione dell’arte. Le scuole cominciano a diversificarsi. Ma il periodo più splendido della pittura giapponese resta quello di Momoyama durante il quale, secondo la felice definizione di Kondō Ichitarō, «il grandioso, l’ambizioso, il brillante, il vigoroso, espressioni della potenza dello spirito, si trovano contenuti tutti interi nell’arte».18

La letteratura e la poesia

Periodo di transizione, periodo di formazione, l’epoca dei samurai (incominciata, in realtà, con la presa di potere del regime militare di Kamakura, questa si sarebbe prolungata fino al 1868, ma a partire dal 1603, assumendo un carattere di stabilità, avrebbe fatto dei samurai una classe dirigente e amministrativa) vedrà la letteratura trasformarsi, insieme con le arti e la società. La letteratura, generalmente considerata il riflesso di un’epoca e di un popolo, ci offre tuttavia soltanto quello che le hanno dato gli aristocratici, i samurai e i monaci. Sebbene l’istruzione popolare vada sviluppandosi, il popolo minuto continua a seguire, sempre, i suoi dirigenti. Nondimeno, è possibile distinguere, nello spirito letterario del Giappone medioevale, due correnti essenziali: una, un po’ decadente e aristocratica, procede secondo gli stili della letteratura romanzesca dell’epoca precedente; l’altra, nuova e più vigorosa, esprime i due maggiori interessi dell’epoca, la religione e il culto dell’eroismo. La lingua scritta stessa si evolve: lo studio del cinese, senza essere abbandonato, diventa appannaggio di una minoranza di letterati. Mentre durante il periodo Heian il cinese era adoperato soltanto nelle cerchie aristocratiche, a partire dal XII secolo la lingua scritta diventa composita. Moltissimi vocaboli cinesi si aggiungono ai fonemi puramente giapponesi, ma la grammatica rimane indigena. Nel X secolo soltanto le donne scrivevano in giapponese, ma nel XIII secolo il sino-giapponese è ormai utilizzato da tutti coloro che scrivono; tuttavia questo, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da una volgarizzazione della cultura, non semplifica né la lingua né la sua espressione scritta. Il ritorno all’«età d’oro» dell’epoca Nara, in religione (rinnovamento delle sette Kegon e Ritsu) come in scultura (realismo), e in letteratura si traduce allora in un certo interesse per il passato: si imitano le forme antiche, e l’epica trae la propria sostanza dalla storia dei clan. Non sono più i nobili soltanto a dedicarsi alle esercitazioni letterarie, ma anche i monaci e i guerrieri. Le opere romanzesche, in maggioranza ispirate al famoso Romanzo di Genji di Murasaki Shikibu, dagli intrighi triti e ritriti, fin dal XIII secolo vengono sostituiti dai gunki-monogatari, epopee guerresche che esaltano lo spirito dei samurai, e dalle otogi-zōshi, o novelle fantastiche. Queste ultime, spesso eroiche, cantate dai trovatori o sulle scene dei teatri, talvolta sono chiamate mai no sōshi (racconti di danza), o kōwakamai. Le narrazioni puramente storiche (rekishi-monogatari) incontrano il favore popolare quanto le storie buddhiste, racconti morali che servono per illustrare le dottrine religiose. Il senso della transitorietà di tutte le cose, quello dell’inizio, per il mondo, di un’era di degenerazione della Legge (Mappō), la rassegnazione di fronte a uno stato di cose impossibile da cambiare, incitano i monaci a scrivere saggi popolari in cui essi descrivono le vicissitudini dei combattimenti, la vita dei santi, i paradisi e gli inferni buddhisti. Le espressioni sono semplici, vigorose, e prive dei motti di spirito o delle allusioni letterarie che abbondano nei romanzi classici: «Le persone di campagna, scrive Shinran,19 non conoscono il significato dei caratteri, ed hanno uno spirito straordinariamente lento. Di conseguenza, per facilitare la loro comprensione, io ho seguitato a scrivere e a riscrivere la stessa cosa. La gente raffinata lo giudicherà strano, e senza dubbio si farà beffe di me. Ma io non mi curo del loro parere, perché ho scritto con l’intento di rendere chiaro alla gente stupida il mio pensiero». Esistevano, naturalmente, altri generi letterari, quali i nikki o diari intimi, e i kikō (quaderni di viaggio), ma poche opere di questo tipo raggiunsero un’arte così consumata come quelle del periodo classico. Quanto agli scritti filosofici, poco numerosi, essi costituiscono la retroguardia di quelli del periodo Heian. Lo Tsurezuregusa («Sul filo della noia») rimane il migliore di questi saggi.

All’epoca degli shōgun Ashikaga, sotto l’influenza dei maestri zen, si nota nella letteratura, come nella pittura, una tendenza a imitare i cinesi; ma si trattò soltanto di una moda, e dal 1400 in poi i monaci zen dedicarono i loro talenti più cospicui a studi storici o filosofici. Si cominciò a scrivere pezzi di teatro (Nō), in maggioranza di argomento storico, tratto da poemi più o meno lirici già conosciuti. Quanto alla poesia, essa rimaneva un genere che ogni uomo colto doveva esercitare sapientemente, e non si distaccava affatto né dalle forme né dallo stile elaborati con tanta pazienza nei secoli anteriori, e pertanto continuò a dipendere, in gran parte, dalle antologie private o imperiali. I nobili avevano l’abitudine di trascrivere le loro poesie su taccuini che si trasmettevano di padre in figlio: «Riportai queste note sui libriccini di poesie scritte e conservate una generazione dopo l’altra, scelsi i migliori di essi e, dopo averli messi in ordine, li feci pervenire al consigliere...» dice Abutsu-ni nel suo Izayoi Nikki.20 I testi più celebri venivano imparati a memoria, da cui l’estrema difficoltà di capire anche il meno importante dei tanka (poesia di trentuno sillabe – 5, 7, 5, 7 e 7) quando non si conoscono né le poesie delle diverse antologie giapponesi, né i classici cinesi.

Di poesia sono infarciti i romanzi, i diari di viaggio, gli appunti, i saggi; la poesia riempie i libretti di teatro, in un certo senso fa parte della vita di tutti i giorni, e diventa un gioco nel corso del quale parecchi amici rivaleggiano in spirito... e in memoria. Essa è diventata quasi un obbligo sociale. È indegno chi non la sente. Il samurai più feroce, per poco che sia istruito (e doveva esserlo, per potersi fregiare di questo titolo), non poteva rimanere insensibile al fascino di qualche verso ben composto, di un pensiero espresso con eleganza. Il Taiheiki riferisce la storia di un nobile che, sul punto di essere sottoposto alla tortura, viene salvato in extremis dai versi d’addio che scrive in quel momento:

Il signore Tameakira domandò una pietra da inchiostro, ed essi gliene diedero una con un foglio di carta, pensando in cuor loro che egli volesse scrivere una confessione. Tameakira invece non scrisse una confessione, ma una poesia che diceva:

Forse che avrei potuto immaginarlo?

Non sull’arte della poesia mi si interroga,

Ma sulle cose di questo mondo di transitorietà!

Tokiwa, il governatore di Suruga, rimase colpito dall’ammirazione, e s’inchinò di fronte alla rettitudine dello spirito di Tameakira. Anche ai due messaggeri dell’Est (Kamakura) salirono le lacrime agli occhi, quando lessero questi versi. E in tal modo Tameakira sfuggì alla tortura e fu giudicato innocente. Ai militari poco importava dell’arte poetica, perché la loro via era quella dell’arco e del cavallo, mentre la corte si dilettava dei versi cinesi e giapponesi. Tuttavia, poiché è nell’ordine del mondo che una cosa eserciti un effetto sull’altra, una sola poesia bastò ad annullare la sentenza di Tameakira, e addolcì i cuori dei barbari dell’Est. È quindi con una ragione certa che Ki no Tsurayuki scrisse nella sua prefazione al Kokinshū (nel 905): «Per mezzo della poesia i cieli e la terra sono dominati senza sforzo, e gli dei e i demoni invisibili sono presi da compassione. La poesia porta armonia tra uomini e donne; e placa il cuore del violento guerriero».21

Ma l’abuso di qualsiasi cosa è nocivo. In mancanza d’ispirazione i poeti, un tempo innovatori, fanno della loro arte una professione. Il figlio succede al padre che fu poeta, il discepolo al suo maestro, e così si formano scuole, tutte mediocri. Divenuta ereditaria, la poesia si sterilizza sia nella forma sia nel pensiero. Grandi signori e monaci condividevano tra loro il privilegio di «fare della poesia». Ma, a partire dal XIV secolo, il popolo, stanco di questi esercizi sclerotizzati, cominciò ad accordare i suoi favori a generi nuovi, inni religiosi (wasan) o ballate popolari alle quali s’ispiravano i testi di Nō. Nello stesso tempo, si inaugurava una specie di gioco poetico o renga, nel quale diversi poeti improvvisavano di volta in volta pezzi di tanka di diciassette o di quattordici sillabe, per creare «poesie a catena». L’haiku, breve poesia in diciassette sillabe, reso immortale da Bashō, nel XVII secolo, nascerà da questi giochi poetici. Il tanka resta tuttora la forma fondamentale di tutta la poesia del Giappone, che viene chiamata anche, poeticamente, la «Via di Shikishima»:

L’eredità

trasmessa dai nostri padri,

aiutateci a conservarla,

kami che conoscete

l’arte della poesia...22

1 Quest’espressione. Mono no Aware, è intraducibile. È il sentimento che suscita un’emozione (condivisa da altri), nella quale c’è anche una certa malinconia, dovuta alla transitorietà di tutte le cose. Un paesaggio autunnale, con le sue foglie che cadono, la pioggia, la nebbia sono tipici del Mono no Aware, alla lettera «cose commoventi». Ma secondo Hisamatsu Senichi, è anche il sentimento ispirato da un mattino di primavera soleggiato, una gioia mista a una vena di melanconia. Vedere nota 4.

2 G.B. Sansom, Japan, cit., p. 378.

3 Y. Soetsu, The Way of Tea, in Art Around Town, VII, n. 4, p. 2, Tōkyō 1959.

4 S. Hisamatsu, The Characteristics of Beauty in the Japanese Middle Ages, «Acta Asiatica», VIII, Tōkyō 1965, pp. 40-53.

5 Sources of the Japanese Traditions, cit., p. 289, in Nose; «Zeami Jūrokubushū Hyōshaku», I, 358-366.

6 Yoshitsune, cit., VII, p. 256.

7 Ibidem, V, p. 168.

8 A. Hauchecorne, La musique japonaise, in Histoire de la musique, t. I, N.R.F., Paris 1960, p. 313.

9 Yoshitsune, cit., VI, p. 233.

10 The Taiheiki, cit., V, p. 131.

11 N. Péri, Essai sur les gammes japonaises, Paris 1934.

12 A. Hauchecorne, op. cit., pp. 308, 309.

13 Sources of the Japanese Traditions, cit., pp. 302-303. Zeami, Le livre de la voie de la plus haute fleur.

14 G.B. Sansom, Japan, cit., pp. 385, 386.

15 G.B. Sansom, A History of Japan, cit., II, p. 279.

16 Ibidem, p. 252.

17 The Taiheiki, cit., V, p. 131.

18 I. Kondō, Painting XIV-XIX Centuries, in Pageant of Japanese Art, Tōkyō 1957, pp. 32, 33.

19 G.B. Sansom, Japan, cit., p. 327.

20 Izayoi Nikki, cit., p. 55.

21 The Taiheiki, cit., II, pp. 32, 33.

22 Izayoi Nikki, cit., p. 84. Shikishima, nome poetico del Giappone, qui sta a significare l’arte poetica dello Yamato.