Capitolo due

Il generale – o per usare la precisissima nomenclatura delle SS, il Gruppenführer – Fritz Kellerman, era un uomo di quasi sessant’anni, dall’aria cordiale. Di media statura, aveva un debole per il buon cibo e il buon vino, che gli avevano regalato un colorito rubicondo e una lieve pinguedine. A questo, si accompagnava l’abitudine di tenere le mani in tasca, inducendo l’osservatore distratto a crederlo basso e grasso. Come tale, infatti, veniva spesso descritto. I suoi subalterni lo chiamavano Vater (Padre), ma, ancorché paterni, i suoi modi non erano abbastanza bonari da fargli guadagnare il nomignolo più diffuso di Vati (Papà). La folta chioma canuta spingeva molti giovani ufficiali ad accogliere il suo invito a una piccola cavalcata mattutina nel parco. Pochi ripetevano l’esperienza. E solo i pivelli accettavano un’amichevole sfida a scacchi, visto che Kellerman era stato campione regionale in Bavaria. «Oggi sono proprio baciato dalla fortuna» diceva, intanto che li stracciava.

Prima della vittoria tedesca, Douglas aveva raramente messo piede nell’ufficio al piano di sopra. Si trattava di una torretta, fino ad allora a uso esclusivo del commissario capo. Ora, invece, la visitava spesso per parlare con Kellerman, che esercitava i poteri di polizia sull’intero paese. E Douglas – insieme ad alcuni altri agenti – aveva ottenuto il privilegio di entrare nella stanza del commissario dalla porta privata, senza passare dall’ufficio del segretario. Prima dell’arrivo dei tedeschi, questo permesso veniva accordato solo ai vicecommissari. Il generale Kellerman diceva che era parte di das Führerprinzip, «il principio del Capo»; Harry Woods sosteneva che fossero tutte stronzate.

L’ufficio del commissario capo era rimasto pressoché inalterato. La scrivania di mogano massiccio era sistemata in un angolo. La sedia dietro la scrivania occupava la piccola torretta circolare che lasciava entrare la luce da ogni parte e offriva una vista magnifica sul fiume. C’era una grossa mensola di marmo con sopra un orologio decorato che batteva le ore e le mezz’ore. La fiamma ardeva nel caminetto ricurvo affiancato dagli attrezzi di ottone lucido e da un secchio pieno di carbone. L’unico cambiamento evidente era il banco di pesci impagliati che nuotavano sulla parete in fondo, in teche di vetro con sopra un’etichetta che riportava il nome di Kellerman e il luogo e la data in caratteri dorati.

Al suo ingresso, Douglas vide che c’erano già due uomini con l’uniforme dell’esercito. Esitò. «Avanti, avanti, soprintendente!» lo accolse Kellerman.

I due estranei guardarono Douglas, poi si scambiarono un cenno di assenso. Quell’inglese era perfetto. Non solo aveva la reputazione di essere uno dei migliori investigatori della squadra omicidi, ma era anche giovane e atletico, con il genere di viso pallido e spigoloso che ai tedeschi appariva aristocratico. Era «germanico», un perfetto esempio del «nuovo Europeo». E parlava un ottimo tedesco.

Uno dei due prese un taccuino dalla scrivania di Kellerman. «Ancora un’altra, generale» disse. L’altro fece spuntare una Leica dal nulla e si inginocchiò per scrutare dal mirino. «Lei e il soprintendente che consultate insieme degli appunti, o una cartina, magari».

Sui polsini delle uniformi color grigio scuro indossavano la fascia della «Propaganda-Kompanie».

«Meglio obbedire, soprintendente» lo avvisò Kellerman. «Questi signori sono della rivista Signal. Sono venuti fin qui da Berlino solo per intervistarci».

Douglas si avvicinò goffamente al bordo della scrivania. Si mise in posa in preda all’imbarazzo, sfiorando una copia dell’Angler’s Times. Si sentiva uno sciocco, ma Kellerman gestì la cosa con disinvoltura.

«Soprintendente Archer» esordì il giornalista della PK in un inglese dal forte accento tedesco «è vero che qui, a Scotland Yard, i subalterni chiamano “Padre” il generale?».

Douglas tentennò e cercò di guadagnare tempo, fingendo di essere ancora in posa per la foto.

«Non vede che la sua domanda mette in imbarazzo il soprintendente?» intervenne Kellerman. «E parli in tedesco, il soprintendente conosce la lingua bene quanto me».

«È vero, o no?» insisté il giornalista, in attesa di una risposta. L’otturatore della macchinetta fotografica scattò. Il fotografo controllò lo strumento e scattò altre due foto in rapida successione.

«Ma certo che è vero» disse Kellerman. «Mi ha preso per un bugiardo? O per il genere di capo della polizia che non sa quel che succede nel suo quartier generale?».

Il giornalista si irrigidì e il fotografo abbassò la macchinetta fotografica.

«È vero» confermò Douglas.

«E ora, signori, ho del lavoro da svolgere» dichiarò Kellerman. Li cacciò, come una vecchietta che trovi delle galline in camera da letto. «Mi perdoni» disse rivolgendosi a Douglas appena i due furono usciti. «Hanno detto che mi avrebbero rubato solo cinque minuti, ma non se ne andavano più. Immagino che sfruttare le occasioni faccia parte del loro lavoro». Tornò alla scrivania e si sedette. «Mi dica cosa succede, ragazzo mio».

Douglas lesse il rapporto, corredandolo di didascalie e spiegazioni quando necessario. La prima preoccupazione di Kellerman era motivare le spese e Douglas scriveva sempre i suoi rapporti in modo da riepilogare le risorse della divisione e da segnalare le uscite in marchi dell’occupazione.

Esaurite le formalità, Kellerman aprì l’humidor. Con le sigarette della borsa nera a cinque marchi dell’occupazione l’una, un Montecristo No. 2 di Kellerman era diventato un riconoscimento prestigioso. Kellerman scelse due sigari con grande cura. Come Douglas, preferiva l’aroma di quelli con la foglia esterna punteggiata di verde o di giallo. Compì la cerimonia del taglio e della rimozione dei fili di tabacco. Come sempre, indossava un completo di tweed, con tanto di panciotto e orologio da taschino con la catena d’oro. Fedele ai suoi principi, aveva tralasciato di indossare la divisa delle SS persino in occasione della visita del fotografo. Al pari di molti graduati SS della sua generazione, preferiva le gerarchie dell’esercito alla nuova, ingombrante nomenclatura.

«Ancora nessuna notizia di sua moglie?» si informò. Girò intorno alla scrivania e gli porse il sigaro.

«Ormai è il caso di credere che sia rimasta uccisa» rispose Douglas. «Spesso durante gli attacchi aerei si rifugiava nella casa della vicina, che è stata distrutta dai combattimenti in strada».

«Non smetta di sperare» disse Kellerman.

Douglas si chiese se non si stesse velatamente riferendo alla sua storia con la segretaria.

«Suo figlio come sta?».

«Quel giorno era nel rifugio. Cresce sano e forte».

Kellerman si protese per accendergli il sigaro. Douglas non si era ancora abituato al fatto che i tedeschi si passassero la colonia sul viso dopo la rasatura, e fu colpito dal profumo. Inspirò: il sigaro si accese. Avrebbe preferito portarlo con sé, ma il generale li accendeva sempre. Forse per impedire a chi li riceveva di andarli a rivendere invece di fumarli. O forse Kellerman credeva che, in Inghilterra, un vero gentiluomo non dovesse permettere a un collega di infilarsi un sigaro intatto in tasca.

«Altri problemi, soprintendente?». Gli passò dietro, sfiorandogli la spalla in un gesto rassicurante. Douglas si chiese se il generale sapesse che nella posta interna del mattino aveva trovato una lettera della sua segretaria che gli comunicava di essere incinta e che gli chiedeva ventimila marchi dell’occupazione. Aggiungendo, puntigliosamente, in caso lui non ne fosse stato al corrente, che i medici abortisti non accettavano pagamenti in sterline. Douglas riceveva una parte dello stipendio in marchi dell’occupazione. Non era ancora riuscito a capire come la lettera fosse giunta fino a lui. La segretaria l’aveva inviata a una delle amiche all’ufficio del registro? O l’aveva consegnata di persona?

«Nessuno per cui sia il caso di importunare il generale» rispose.

Kellerman sorrise. La tensione aveva indotto Douglas a rivolgersi al generale usando l’inconsueto impersonale cui ricorrevano solo i tedeschi più servili.

«Frequentava questa stanza, ai vecchi tempi?» chiese.

Prima della guerra, il commissario capo lasciava la porta spalancata quando la stanza era vuota, in modo da permettere ai fattorini di entrare e uscire. Fresco di trasferimento a Scotland Yard, Douglas aveva trovato una scusa per entrarvi a curiosare, con la soggezione tipica di uno scolaro che si nutre di polizieschi. «La frequentavo di rado, quando era l’ufficio del commissario».

«Viviamo tempi complicati» replicò Kellerman, come per scusarsi del fatto che Douglas fosse ormai costretto a ripetute visite. Si allungò per scuotere un centimetro di cenere in un modellino in porcellana bianca del Tower Bridge, che qualche intrepido artigiano aveva modificato, aggiungendovi delle bandiere con la svastica e la scritta «Waffenstillstand (Armistizio). Londra 1940» in carattere gotico rosso e nero. «Finora» proseguì Kellerman, scegliendo le parole con cura, «alla polizia di stato non è stata assegnata nessuna indagine politica».

«Siamo avulsi dalla politica, da sempre».

«Non è proprio così» obiettò Kellerman con delicatezza. «In Germania chiamiamo le cose con il loro nome e la polizia politica è la polizia politica. Qui, la polizia politica si chiama sezione speciale, perché voi inglesi siete meno diretti, in certe faccende».

«Sì, signore».

«Ma arriverà il momento in cui non riuscirò più ad arginare le pressioni da Berlino e dovrò adeguare il nostro al sistema di polizia tedesco».

«Signore, sa bene che noi inglesi fatichiamo ad accogliere le novità».

«La smetta di fare lo spiritoso con me, soprintendente» disse Kellerman, mantenendo il sorriso e il tono affabile. «Non finga di non capire cosa sto dicendo».

«In realtà non lo capisco affatto, signore».

«Né lei né io desideriamo veder gironzolare dei consiglieri politici in questo edificio. Le sue forze dell’ordine verrebbero inevitabilmente impiegate contro le cellule di Resistenza britanniche, i soldati latitanti, i fuggiaschi politici, gli ebrei, gli zingari e gli altri elementi sgraditi». Il tono di Kellerman lasciava trapelare come quelle categorie non gli fossero altrettanto sgradite di quanto lo erano nelle alte sfere a Berlino.

«Il corpo di polizia ne sarebbe lacerato» osservò Douglas.

Kellerman tacque. Prese dalla scrivania un messaggio da telescrivente e lo scorse, per ricordarne il contenuto. «È in arrivo un ufficiale maggiore del Sicherheitsdienst» disse. «Le darò l’incarico di affiancarlo».

«Avrà mansioni politiche?» si informò Douglas. L’SD costituiva il servizio segreto delle SS. Douglas non gradì quello sviluppo infausto.

«Ignoro il motivo della sua venuta» ribatté allegramente Kellerman. «Fa parte dello stato maggiore del Reichsführer-SS, e risponderà delle sue azioni direttamente a Berlino». Kellerman inspirò dal sigaro ed emise il fumo dalle narici. Aspettò che il soprintendente elaborasse quell’informazione e si rendesse conto che il nuovo arrivato rappresentava un pericolo per lo status quo di entrambi. «Standartenführer, o capitano, Huth» si decise a dire «ecco come si chiama il tipo». L’uso dei gradi delle SS serviva a prendere ulteriormente le distanze da questo Huth. Sollevò la mano. «Agli ordini diretti di Berlino, cosa che gli conferisce un’influenza...» esitò, poi lasciò cadere la mano, «... speciale».

«Comprendo, signore».

«In tal caso, mio caro, farà il possibile per evitare che le indiscrezioni – soprattutto quelle verbali – del suo mentore al piano di sotto ci mettano tutti in imbarazzo».

«Il sergente Woods?».

«Ah, quale perspicacia, soprintendente» celiò Kellerman.