Capitolo tre

Qualcuno sosteneva che dal cessate il fuoco non ci fosse stata una sola settimana di cielo limpido. Inconfutabile. Quel giorno l’aria era umida e, da dietro le nuvole grigie, faceva capolino un sole slavato, simile a un piatto vuoto su una tovaglia sporca.

Tuttavia, un londinese purosangue come Douglas Archer poteva percorrere Curzon Street tenendo gli occhi socchiusi, senza soffermarsi sui cambiamenti avvenuti dall’anno precedente. L’insegna Soldatenkino all’esterno del cinema Curzon era piccola e discreta, e solo qualora si tentasse di accedere al ristorante Mirabelle, un usciere con il cilindro sussurrava che era ad uso esclusivo degli ufficiali dello stato maggiore del quartier generale dell’ottava flotta aerea, insediatosi nei vecchi uffici del ministero dell’istruzione dall’altra parte della strada. E se gli occhi restavano socchiusi non si notavano i cartelli con sopra scritto «Esercizio ebreo», che tenevano alla larga i clienti meno ardimentosi. E nel settembre di quello stesso anno, il 1941, Douglas Archer, insieme con la maggior parte dei suoi compatrioti, teneva gli occhi perennemente socchiusi.

Il luogo del delitto sul quale, come il sergente Harry Woods aveva vaticinato, furono chiamati, si trovava a Shepherd Market. Il piccolo labirinto di viuzze e vicoli ospitava un miscuglio di operai londinesi, bottegai italiani e visitatori abbienti che, in quelle stradine tortuose e tra quegli edifici scricchiolanti, trovavano in qualche misura, e a pochi passi dai negozi alla moda e dai ristoranti, la Londra narrata da Dickens.

La casa era tipica del quartiere. C’erano già dei poliziotti in uniforme, immersi in un battibecco con due giornalisti. Il pianterreno era occupato da una botteguccia di antiquariato, le cui mura si potevano quasi toccare allargando le braccia. Il piano superiore ospitava delle stanze da casa di bambola, con una scala a chiocciola talmente stretta che si rischiava costantemente di spazzare via le stampe di carrozze incorniciate che abbellivano le pareti. Armato di sacco mortuario, Harry raggiunse a fatica l’ultimo piano, dove era stato rinvenuto il cadavere.

Il medico legale era lì, seduto su un divano rivestito di chintz, un cappotto militare dell’esercito britannico abbottonato fino al collo, le mani in tasca. Era giovane, sui venticinque, ma Douglas gli scorse immediatamente negli occhi la terribile rassegnazione con cui tanti inglesi avevano accolto la sconfitta definitiva.

Il morto era riverso sul pavimento davanti a lui. Era un uomo di circa trentacinque anni, con il volto pallido e una calvizie incipiente. Se lo si fosse incrociato per strada lo si sarebbe scambiato per un accademico di successo – il classico professore distratto delle commedie cinematografiche.

Insieme al sangue, sul panciotto gli si allargava una macchia di polvere marrone. Douglas la sfiorò con la punta del dito, ma prima ancora di annusarla, riconobbe l’aroma denso del tabacco da fiuto. Ce ne erano tracce anche sotto le unghie del morto. Il tabacco da fiuto si stava diffondendo sempre più, vuoi per il prezzo crescente delle sigarette, vuoi perché non era ancora razionato.

Douglas trovò la scatolina da tabacco in una tasca del panciotto. L’impatto con il proiettile aveva staccato il coperchio. C’era anche un sigaro fumato a metà, che aveva ancora la fascetta: un Romeo y Julieta, che ormai costava una piccola fortuna. Non c’era da stupirsi che la vittima avesse conservato la metà da fumare.

Douglas osservò il tessuto di qualità e le cuciture a mano del completo indossato dal morto. Per essere un abito costoso, confezionato su misura, gli andava piuttosto largo, come se l’uomo si fosse sottoposto a una dieta improvvisa quanto draconiana, perdendo diversi chili. Anche il viso rugoso e teso portava i segni del repentino dimagrimento. Douglas gli tastò le chiazze di calvizie sulla testa.

«Alopecia areata» sentenziò il medico. «Abbastanza diffusa».

Gli esaminò l’interno della bocca. Il morto aveva potuto permettersi un buon dentista. C’erano dei riflessi d’oro, ma anche del sangue. «Ha del sangue in bocca».

«Probabilmente è caduto battendo la faccia».

Douglas non era d’accordo, ma evitò di fare questioni. Notò delle minuscole lesioni sul viso dell’uomo e delle macchioline di sangue sottopelle. Gli sollevò la manica quanto bastava per scoprire il braccio arrossato.

«Dove si trova un sole tanto forte in questo periodo dell’anno?» chiese il medico.

Douglas non rispose. Tracciò un piccolo schizzo della posizione del morto nella minuscola camera da letto, ipotizzando che si trovasse sulla porta quando era stato raggiunto dai proiettili. Toccò il sangue sul cadavere per controllare se fosse viscoso, poi poggiò il palmo sul torace. Freddo. L’esperienza gli diceva che quell’uomo era morto da sei ore, se non di più. Il medico lo osservava, in silenzio. Douglas si raddrizzò e si guardò intorno. La stanza era piccolissima, eccessivamente decorata da una carta da parati fantasiosa, da riproduzioni di Picasso e da lampade da tavolo ricavate da fiaschi di Chianti.

C’era uno scrittoio di noce con la ribaltina abbassata, come se fosse stato rovistato. Una lampada d’ottone fuori moda era stata sistemata in modo da illuminare la superficie di pelle verde, ma la lampadina era stata rimossa e appoggiata in una delle nicchie, insieme a carta da lettere e buste dozzinali.

Non c’erano libri o foto che indicassero una presenza. Sembrava una camera d’albergo di lusso. Nel minuscolo camino c’era una cesta di ceppi. Il focolare debordava di carte ridotte in cenere.

«Il patologo è arrivato?» chiese Douglas. Avvitò la lampadina e la tenne accesa quanto bastava per verificarne il funzionamento. Andò al camino e infilò la mano nella cenere. Era fredda, e non rimaneva neanche un pezzetto di carta che permettesse di decifrare quel che era stato bruciato. Dar fuoco a tutti quei fogli aveva richiesto del tempo. Si pulì le mani con il fazzoletto.

«Non ancora» rispose il medico con voce piatta.

Douglas immaginò che fosse risentito per essere stato trattenuto lì. «Che idea si è fatto, dottore?».

«Non è che, lavorando per la SIPO, le avanza qualche sigaretta?».

Douglas tirò fuori il portasigarette d’oro, il suo unico bene di lusso. Il medico prese una sigaretta e ringraziò con un cenno del capo, intanto che la esaminava con cura. La cartina era contrassegnata con la doppia striscia rossa delle razioni della Wehrmacht. Si mise la sigaretta in bocca, prese un accendino dalla tasca e la accese, senza cambiare espressione o posizione, abbandonato sul divano con le gambe allungate.

Un sergente di polizia era rimasto a guardare la scena, fermo in attesa sul pianerottolo angusto oltre la porta. Fece capolino e disse: «Mi perdoni, signore. Un messaggio dal patologo. Non potrà essere qui prima del pomeriggio».

Harry Woods stava spiegando il sacco mortuario. Douglas non seppe resistere e gli scoccò un’occhiata. Harry annuì: capì che quella di trattenere il medico legale era stata una buona idea. I patologi, ormai, erano sempre in ritardo. «Allora, dottore, che idea s’è fatto?» chiese Douglas.

Abbassarono entrambi lo sguardo sul cadavere. Douglas gli toccò le scarpe. I piedi erano gli ultimi a irrigidirsi.

«Intanto che aspettiamo il patologo, i fotografi avranno finito». Douglas sbottonò la camicia del morto e scoprì le enormi ecchimosi nere che si erano formate intorno ai fori con il sangue rappreso.

«Che idea mi sono fatto?» ripeté il medico. «A causare la morte sono stati i colpi di pistola al torace. Il primo ha centrato il cuore, il secondo l’apice del polmone. Morte quasi istantanea. Posso andare, ora?».

«Non la tratterrò più dello strettamente necessario» ribatté Douglas, senza un’ombra di scuse nel tono. Dalla sua posizione, accovacciato accanto al corpo, si voltò a guardare il punto in cui doveva trovarsi l’assassino. Sulla parete, sotto la sedia, scorse uno scintillio metallico. Si avvicinò per vedere cosa fosse. Un piccolo aggeggio di qualche lega di metallo, con un bordo di cuoio. Se lo fece scivolare nella tasca del panciotto. «Quindi, dottore, è stato il primo proiettile a centrare il cuore, e non il secondo?».

Il medico non si era ancora mosso dal divano, ma a quel punto curvò i piedi fino a unire le punte. «Ci sarebbe stato più sangue schiumoso, se un proiettile avesse colpito il polmone mentre il cuore ancora pompava».

«Davvero?».

«Forse è caduto quando è stato sparato il secondo colpo. Il che spiegherebbe perché abbia mancato il bersaglio».

«Capisco».

«Lo scorso anno ho visto abbastanza ferite da arma da fuoco da acquisire una certa competenza» disse il medico senza sorridere. «Una nove millimetri. È il genere di proiettili che troverete quando scaverete nell’intonaco coperto da quell’orribile carta da parati a righe stile Regency. È stato qualcuno di sua conoscenza. Fossi in voi, cercherei un ex soldato mancino che veniva qui spesso ed entrava con le sue chiavi».

«Ottimo lavoro, dottore».

Harry Woods, che stava frugando nelle tasche del morto, sollevò lo sguardo: aveva riconosciuto una nota di sarcasmo.

«Conoscete i miei metodi, Watson».

«Il morto indossa un cappotto; ne deduce che sia entrato e abbia trovato l’assassino ad aspettarlo. Ipotizza che i due si siano fronteggiati apertamente mentre l’assassino sedeva accanto al camino e dall’inclinazione della ferita evince che l’arma si trovasse nella mano sinistra dell’assassino».

«Maledettamente buone, le sigarette che le danno questi tedeschi» commentò il medico, tenendo la sua a mezz’aria e contemplando il fumo.

«È un ex soldato, perché ha centrato il cuore al primo colpo». Il medico annuì. «Ha notato che tutti e tre indossiamo ancora il cappotto?» chiese Douglas. «Fa un freddo becco, qui dentro. Il contatore del gas è azzerato e la fornitura staccata. E i soldati con una buona mira sono una rarità, dottore. Non ce n’è uno su un milione che sappia maneggiare una pistola e, come lei stesso ha sottolineato, qui si tratta di un’arma tedesca. Inoltre, lei pensa che l’assassino avesse una chiave perché non vede segni di scasso sulla porta. Ma il mio sergente sarebbe capace di aprire quella serratura usando una strisciolina di celluloide, più velocemente di quanto lei non riuscirebbe a fare con una chiave, e anche più silenziosamente».

«Oh» fece il medico.

«Quindi, che mi dice dell’ora del decesso?».

Non c’è medico che non detesti calcolare l’ora del decesso e questo medico in particolare si assicurò che i poliziotti lo capissero bene. Fece spallucce. «Potrei pensare a un numero e raddoppiarlo».

«Pensi a un numero, dottore, ma eviti di raddoppiarlo».

Il medico, che ancora si dondolava sul divano, pizzicò la sigaretta per spegnerla e mise il mozzicone in una scatolina da tabacco ammaccata. «Ho misurato la temperatura quando sono arrivato. Secondo i calcoli di prassi, un corpo si raffredda di circa mezzo grado l’ora».

«L’ho sentito dire».

Il medico gli elargì un sorriso mesto, intanto che si infilava la scatolina nella tasca del cappotto e si guardava i piedi, unendo nuovamente le punte. «Potrebbe essere avvenuto tra le sei e le sette di stamattina».

Douglas guardò il sergente in uniforme. «Chi ha chiamato la polizia?».

«Il vicino del piano di sotto porta su una bottiglia di latte ogni mattina. Ha trovato l’uscio aperto. Niente odore di cordite» aggiunse il sergente.

Il medico ridacchiò. Quando il risolino si tramutò in tosse, si diede dei colpi sul torace. «Niente odore di cordite» ripeté. «Me la voglio segnare, questa. È davvero bella».

«Lei non sa molto di poliziotti, dottore» lo riprese Douglas. «Soprattutto se si considera che è un medico legale. Il sergente in uniforme, qui, un agente che non ho mai visto prima, sta cortesemente suggerendo che l’ora del decesso sia antecedente. Di parecchio, dottore». Douglas si avvicinò alla credenza d’angolo dipinta con cura e l’aprì, rivelando una notevole scelta di bevande. Sollevò una bottiglia di whisky e non si stupì nel constatare che sulla maggior parte delle etichette campeggiava la scritta «Espressamente imbottigliato per la Wehrmacht». Rimise a posto le bottiglie e chiuse la credenza. «Ha mai sentito parlare di livore post mortem, dottore?».

«Il decesso potrebbe essere avvenuto prima» riconobbe il medico. Ora sedeva eretto, e il tono si era addolcito. Persino lui si era accorto del colore provocato dalla stasi del sangue.

«Ma non prima di mezzanotte».

«No, non prima» concordò il medico.

«In altre parole, il decesso è avvenuto durante il coprifuoco?».

«Molto probabilmente».

«Molto probabilmente?» ripeté Douglas, caustico.

«Sicuramente» riconobbe il medico.

«A che gioco sta giocando, dottore?» chiese Douglas, senza guardare l’altro. Andò al caminetto ed esaminò l’enorme mucchio di carta bruciata, accalcata al suo interno. L’attizzatoio d’ottone lucidissimo era scurito dalle macchie di fumo. Qualcuno lo aveva usato per assicurarsi che prendesse fuoco anche il più piccolo frammento. Douglas tornò a infilare la mano tra gli impalpabili strati di cenere: la pila di fogli protocollo doveva essere stata gigantesca, e si era del tutto raffreddata. «Contenuto delle tasche, Harry?».

«Carta d’identità, otto sterline, tre scellini e dieci centesimi, un mazzo di chiavi, un temperino, una stilografica di lusso; fazzoletto, nessuna etichetta di lavanderia, e un biglietto di treno ridotto, andata e ritorno, valido un mese, tratta Londra-Bringle Sands».

«Nient’altro?».

Sapendo che il collega avrebbe chiesto la carta d’identità, Harry gliela porse senza aspettare. «Il tipo viaggiava leggero» commentò.

«O qualcuno gli ha ripulito le tasche» disse il medico, senza muoversi dalla sua posizione sul divano.

Harry incrociò lo sguardo di Douglas, leggendovi un’ombra di sorriso.

«O qualcuno gli ha ripulito le tasche» gli ripeté il soprintendente.

«Esatto» concordò Harry.

Douglas aprì la carta d’identità. Lesse che il suo possessore era un contabile di trentadue anni, residente a Kingston, nel Surrey. «Kingston» disse.

«Sì» sottolineò Harry. Entrambi sapevano che da quando l’ufficio del registro di Kingston era andato distrutto negli scontri, la cittadina era diventata il domicilio d’eccellenza di tutti i falsari di documenti. Douglas si mise la carta d’identità in tasca e ripeté la domanda. «A che gioco sta giocando, dottore?». Guardò il medico, in attesa di risposta. «Perché cerca di sviarmi con l’ora del decesso?».

«Sono stato sciocco, lo ammetto. Ma se la gente comincia ad andare e venire dopo la mezzanotte, i vicini sono tenuti a fare rapporto alla Feldgendarmerie, la polizia militare».

«E chi le dice che non lo abbiano già fatto?».

Il medico alzò le mani e sorrise. «La mia era solo un’ipotesi».

«Un’ipotesi». Douglas annuì. «Non sarà dovuto al fatto che tutti i suoi vicini ignorano il coprifuoco? Quali altre norme trasgrediscono regolarmente?».

«Gesù! Voialtri siete peggio dei maledetti tedeschi. Preferirei parlare con la Gestapo piuttosto che con dei bastardi come voi. Quelli almeno non distorcerebbero tutto quel che dico».

«Non sarò certo io a impedirle di interloquire con la Gestapo» disse Douglas «ma, tanto per soddisfare una mia becera curiosità, la sua opinione sulla delicatezza delle tecniche di interrogatorio utilizzate da quel reparto si basa sull’esperienza diretta o sul sentito dire?».

«Va bene, d’accordo. Le tre del mattino, più o meno».

«Così va meglio. Ora esamini il cadavere come si deve, in modo da non costringermi ad aspettare il patologo per poter avviare l’indagine, e chiuderò un occhio sulle sue sciocchezze... ma ometta anche un solo dettaglio e la trascino a Scotland Yard e la passo al tritacarne. Chiaro?».

«Chiaro».

«Al piano di sotto c’è una signora» lo informò il sergente in uniforme. «Pare sia venuta a recuperare qualcosa nel negozio di antichità. Ho detto all’agente di farla aspettare».

«Ottimo» disse Douglas. Lasciò il medico alle prese con il cadavere e Harry Woods a frugare nei cassetti dello scrittoio.

Il negozio di antichità faceva parte della fitta schiera fiorita dopo i bombardamenti e la fuga di sfollati dal Kent e dal Surrey nei mesi di scontri feroci. Da quando la valuta tedesca aveva raggiunto picchi inverosimilmente elevati, gli occupanti tedeschi avevano preso a inviare vagonate di antichità in Germania. I mercanti facevano affari d’oro, ma non serviva un esperto di economia per capire che il paese stava subendo un’enorme emorragia di ricchezze.

Nella bottega c’erano alcuni mobili di pregio. Douglas si chiese quanti di essi fossero frutto di una transazione legale e quanti invece fossero stati saccheggiati dalle case abbandonate. Ovviamente, il proprietario del negozio aveva immagazzinato i pezzi antichi nei minuscoli appartamenti ai piani di sopra, e tanto bastava a motivare gli affitti salati.

La visitatrice sedeva su un’elegante sedia in stile Windsor. Era bellissima: fronte spaziosa, zigomi alti e viso largo, con una bocca ben disegnata, incline al sorriso. Alta, gambe lunghe, braccia armoniose.

«Ora forse otterrò una risposta diretta». Aveva un lieve accento americano. Frugò nella capiente borsa di pelle ed estrasse un passaporto degli Stati Uniti che gli sventolò sotto il naso.

Douglas annuì. Rimase un attimo incantato. Era la donna più attraente che avesse mai visto. «Come posso aiutarla, signora?».

«Signorina. Nel mio paese una vera signora non ama essere scambiata per qualcos’altro». Parve divertita dallo sconcerto dell’uomo. Sfoderò il sorriso rilassato che contraddistingue i ricchi e belli.

«Come posso aiutarla, signorina?».

Indossava un completo due pezzi di lana rosa di taglio severo e pratico, inconfondibilmente americano. Sarebbe stata ovunque una visione incantevole, ma in quella città insudiciata dalla guerra, tra tanti con indosso uniformi fuori misura o abiti adattati dalle divise, la sua condizione di visitatrice agiata spiccava ancor di più. Portava a tracolla una macchinetta fotografica Rolleiflex nuova di zecca. I tedeschi le vendevano al netto di tasse ai militari e a chiunque le pagasse in dollari americani.

«Mi chiamo Barbara Barga. Curo una rubrica pubblicata su quarantadue quotidiani e periodici statunitensi. Il mese scorso, l’addetto stampa dell’ambasciata tedesca a Washington mi ha offerto un biglietto della Lufthansa sul volo inaugurale da New York a Londra. Ho accettato, ed eccomi qui».

«Benvenuta in città» disse Douglas asciutto. Citare il volo di linea inaugurale della Focke-Wulf era stata una mossa scaltra. Su quello stesso aereo c’erano Göring e Goebbels; era stato uno degli eventi più pubblicizzati dell’anno. Bisognava essere giornalisti di vaglia per farne parte.

«Ora, mi dica, cosa succede qui?» chiese lei sorridendo. Douglas Archer non conosceva molti americani, e di sicuro nessuno che si potesse paragonare a quella ragazza. Quando sorrideva, il viso le si increspava in un modo che lui trovava assolutamente incantevole. Suo malgrado, ricambiò il sorriso. «Non mi fraintenda» disse lei. «Vado d’accordo con i piedipiatti, ma oggi non mi aspettavo di trovarne così tanti nel negozio di Peter».

«Peter?».

«Peter Thomas. Andiamo, signor investigatore, c’è scritto sulla porta: Peter Thomas – Antichità. Giusto?».

«Conosce il signor Thomas?».

«È nei guai?».

«Faremo più in fretta se risponderà alle mie domande, signorina».

Lei sorrise. «E chi ha detto che voglio fare in fretta? Va bene, lo conosco».

«Potrebbe descrivermelo brevemente?».

«Trentotto anni, forse qualcuno in meno, pallido, quasi calvo, corporatura robusta, un metro e ottanta di altezza, baffetti alla Ronald Colman, voce profonda, abiti di sartoria».

Douglas annuì. Bastava e avanzava per identificare il morto. «Potrebbe dirmi in che genere di rapporti è con il signor Thomas?».

«Affari... ora, vorrebbe farmi la cortesia di presentarsi, caro?».

«Certo, mi scusi» rispose Douglas. Ebbe l’impressione che la situazione gli stesse sfuggendo di mano. La ragazza sorrise del suo imbarazzo. «Sono il soprintendente investigativo incaricato dell’indagine. Il signor Thomas è stato trovato stamattina, morto».

«Non si è trattato di suicidio, vero? Peter non era il tipo».

«Gli hanno sparato».

«Caso rognoso, come dite voi britannici».

«Che genere di affari trattavate?».

«Mi stava aiutando per un articolo cui sto lavorando, sugli americani rimasti qui durante i combattimenti. Sono entrata a chiedere il prezzo di alcuni mobili e ci siamo messi a chiacchierare. Conosceva tutti... inclusi diversi stranieri residenti a Londra».

«Davvero?».

«Peter era un tipo ingegnoso. Era capace di soddisfare qualsiasi richiesta, fintanto che ne ricavava un guadagno». Guardò la collezione di oggetti in argento e avorio su uno scaffale sopra il registratore di cassa. «L’ho chiamato stamattina per recuperare qualche rullino. Ieri sono rimasta senza e Peter mi ha detto che me ne avrebbe potuto procurare uno. Magari lo aveva in tasca».

«Non abbiamo trovato nessun rullino sul cadavere».

«Be’, non importa. Cercherò altrove».

Si alzò, e Douglas avvertì il suo profumo. Fantasticò di abbracciarla e, come se gli avesse letto nel pensiero, lei lo guardò e gli sorrise. «Dove posso trovarla, signorina Barga?».

«Al Dorchester fino alla fine della settimana, poi mi trasferirò nell’appartamento di un amico».

«Quindi il Dorchester ha riaperto?».

«Solo qualche camera sul retro. Il ripristino della parte che dava sul parco richiederà parecchio tempo».

«Abbia cura di lasciare un suo recapito» puntualizzò Douglas, ben sapendo che, in quanto straniera, era stata registrata presso l’ufficio stampa del Kommandantur.

Pareva che la ragazza non avesse alcuna fretta di andarsene. «Peter era capace di procurarti qualsiasi cosa: da un pezzo dei marmi di Elgin, accompagnato da un attestato dell’uomo che l’aveva estratto dalle macerie del museo, a un congedo dall’esercito, prima categoria: operaio specializzato ariano, nessuna restrizione su coprifuoco e viaggi. Peter era un traffichino, soprintendente. Tipi del genere si mettono nei guai. Non si aspetti che qualcuno pianga la sua dipartita».

«È stata di grande aiuto, signorina Barga». La ragazza era ormai sulla porta, quando Douglas fece un’ultima domanda. «A proposito, sa se ultimamente era stato in un paese caldo?»

Lei si volse. «Perché?».

«Braccia ustionate. Come se si fosse addormentato sotto il sole cocente».

«L’ho conosciuto solo un paio di settimane fa. Forse usava una lampada abbronzante».

«Potrebbe essere una spiegazione» osservò Douglas, dubbioso.

Al piano di sopra, Harry Woods stava parlando con l’unico vicino di Thomas. Il tipo identificò il cadavere e dichiarò che Thomas era stato un vicino tutt’altro che ideale. «C’era un Feldwebel, un sergente della Luftwaffe... un omone occhialuto, non conosco i gradi, ma veniva dal magazzino del quartiermastro di Marylebone Road. Portava di tutto: cibo in scatola, tabacco e persino medicinali. Credo vendessero droga, sempre a fare feste, e doveva vedere che ragazze circolavano; facce bistrate e puzza d’alcol. Qualche volta bussavano alla mia porta per sbaglio... gentaccia. Non mi piace parlar male dei morti, mi creda, ma lui frequentava un giro terribile».

«Sa se il signor Thomas possedesse una lampada abbronzante?» chiese Douglas.

«Non so cosa non possedesse, soprintendente! Frugando in quelle credenze scoprirà una vera grotta di Aladino. E non dimentichi la soffitta».

«Non lo farò, grazie».

Quando l’uomo fu congedato, Douglas estrasse dalla tasca l’oggetto di metallo che aveva trovato sotto la sedia. Era composto di parti ricurve di una lega leggera, ma era anche massiccio e pesante per le sue dimensioni. Non era colorato e il bordo era coperto da una striscia di cuoio chiaro. C’era un foro di circa sei millimetri in cui era stato saldato un dado filettato. Tutto l’aggeggio era stato rinforzato con una sezione di tubo. La forma, la grandezza e l’esecuzione affrettata, indussero Douglas a credere che si trattasse del componente di uno dei tanti arti artificiali forniti ai mutilati negli ultimi combattimenti. Se si fosse trattato di un elemento di un braccio destro finto, l’ipotesi del medico sarebbe risultata assai accurata e Douglas avrebbe potuto cominciare a cercare un tiratore scelto mancino delle ex forze armate.

Rimise in tasca l’aggeggio, mentre Harry entrava. «Hai congedato il dottore?» gli chiese.

«Gli hai dato una bella strapazzata, Doug».

«Cos’altro ha detto?».

«Tre di mattina. Penso che dovremmo metterci a cercare questo Feldwebel della Luftwaffe».

«Commenti sulle ustioni alle braccia?».

«Lampada abbronzante».

«L’ha detto il dottore?».

«No, lo dico io. Il dottore ha mugugnato e biascicato. Sai come sono fatti, quelli».

«Così, il vicino dice che trafficava con la borsa nera, e la ragazza americana conferma».

«Tutto combacia, no?».

«Al punto che puzza».

Harry tacque.

«Hai trovato una lampada abbronzante?».

«No, ma c’è ancora la soffitta».

«Bene, Harry, dai un’occhiata in soffitta. Poi vai alla Feldgendarmerie e procurati l’autorizzazione a interrogare il Feldwebel».

«In che senso, puzza?».

«Il vicino del piano di sotto mi dice tutto di questo Feldwebel del diavolo, tranne il nome e il numero di telefono. Poi spunta un’americana e mi chiede se ho trovato un rullino sul cadavere. Dice che il tipo, Peter Thomas, ieri sera le avrebbe procurato un rullino... puah! Una ragazza del genere se ne porterebbe dietro una scorta. E, se ne volesse altri, se li procurerebbe in un’agenzia di stampa, o all’ambasciata americana. In ultima battuta, sarebbe l’ufficio stampa tedesco a fornirgliene quanti ne volesse; sai bene che i funzionari della propaganda farebbero qualsiasi cosa per i giornalisti americani. Non le serviva invischiarsi nel mercato nero».

«Forse voleva invischiarsi. Forse voleva entrare in contatto con la Resistenza, per scrivere un articolo».

«L’ho pensato anch’io».

«Cos’altro c’è?».

«Ho portato giù le chiavi del morto. Non ce n’è una che entri in nessuna serratura: non in quella della porta sulla strada, né in questa. Le chiavi più piccole sembrano quelle che si usano per gli archivi e quella di bronzo probabilmente apre una cassaforte. Non ci sono archivi, qui, e, se c’è una cassaforte, è nascosta assai bene».

«Poi?».

«Se vive qui, perché comprare un biglietto di andata e ritorno quando è tornato da Bringle Sands ieri mattina? E, se vive qui, dove sono le camicie, la biancheria, i vestiti?».

«Li ha lasciati a Bringle Sands».

«Quindi aveva intenzione di dormire qui, e poi alzarsi e usare la stessa camicia e la stessa biancheria? Guarda il cadavere, Harry. Quest’uomo era parecchio schizzinoso in merito alla biancheria pulita».

«Quindi non pensi che vivesse qui?».

«A mio avviso, nessuno viveva qui. Questo era solo un luogo d’incontro».

«Affari... o amanti?».

«Dimentichi quelle che la Resistenza chiama “case sicure”, Harry. Questo potrebbe essere un posto in cui i membri si incontravano, si nascondevano o in cui nascondevano cose. E poi indossava il cappotto».

«Ma tu hai detto al dottore che faceva freddo».

«Il dottore aveva deciso di indispettirmi, e ci è riuscito. Il che non significa che avesse torto sul fatto che qualcuno stesse aspettando Thomas qui. E spiegherebbe il motivo per cui abbia tenuto il cappello in testa».

«Non riesco mai a starti dietro» disse Harry.

«Tieni a freno la lingua, alla Feldgendarmerie, Harry».

«Mi hai preso per scemo?».

«Romantico, non scemo. Romantico».

«Credi che si sia procurato quelle ustioni con una lampada abbronzante?».

«Non mi risulta che qualcuno si sia mai addormentato facendo la lampada. Ma c’è sempre una prima volta. E prova a capire il motivo per cui qualcuno si sia preso la pena di svitare la lampadina da quella lampada snodabile da scrivania. La lampadina non era fulminata».