Capitolo cinque
Rientrato in ufficio nel pomeriggio, Douglas fece appena in tempo a ripulirsi e a indossare un paio di scarpe asciutte, prima di ricevere un messaggio dal primo piano. Il generale Kellerman desiderava parlargli, sempre che fosse disponibile. Certo che lo era. Si precipitò di sopra.
«Ah, soprintendente Archer, gentile a venire» disse Kellerman, come se Archer fosse un dignitario in visita. «Oggi sono molto indaffarato». Il suo capufficio gli passò un messaggio da telescrivente. Kellerman lo esaminò velocemente e disse: «Quel tipo da Berlino, lo Standartenführer Huth, ricorda?».
«Ricordo tutto quel che mi ha detto, signore».
«Splendido. Bene, lo Standartenführer ha un posto riservato sul volo Berlino-Croydon del pomeriggio. Dovrebbe arrivare intorno alle cinque. Vorrebbe cortesemente andare ad accoglierlo?».
«Certo, signore, ma mi chiedo se...». Douglas non riuscì a trovare un modo accettabile di suggerire che uno Standartenführer-SS dell’ufficio centrale per la sicurezza di Himmler non avrebbe ritenuto l’accoglienza da parte di un soprintendente investigativo inglese all’altezza del proprio rango e della propria posizione.
«È stato lo Standartenführer a chiedere espressamente che fosse lei ad accoglierlo» disse Kellerman.
«Io?» si stupì Douglas.
«Rivestirà un ruolo di natura squisitamente investigativa» disse Kellerman. «Mi è parso appropriato assegnargli il mio investigatore migliore». Sorrise. In realtà, Huth aveva fatto il nome di Archer e Kellerman si era opposto con veemenza all’ordine di collocare il suo uomo sotto il comando del nuovo arrivato. A mettere la parola fine era stato Himmler in persona.
«La ringrazio, signore».
Kellerman infilò la mano nel taschino del panciotto di tweed e controllò l’orologio d’oro.
«Mi metto subito al lavoro» disse Douglas, interpretando il gesto come un congedo.
«Perfetto» disse Kellerman. «Si rivolga al mio assistente personale, che la aggiornerà su tutti i preparativi per l’accoglienza allo Standartenführer».
La Lufthansa aveva tre voli giornalieri da Berlino a Londra, di rinforzo ai voli militari, meno prestigiosi e piacevoli. Allo Standartenführer, dottor Oskar Huth, era stato assegnato uno dei quindici posti sull’aereo che decollava da Berlino all’ora di pranzo.
Douglas attese nel terminal privo di riscaldamento, guardando la banda della Luftwaffe che si preparava all’arrivo del volo giornaliero da New York. I tedeschi possedevano gli unici aeroplani capaci di compiere una rotta tanto lunga senza scali, e il ministero della propaganda non faceva che sottolinearlo.
Aveva continuato a diluviare fino al pomeriggio inoltrato, ma ora si era aperto uno squarcio all’orizzonte, tra le nuvole basse. L’aereo da Berlino compì un cerchio, mentre il pilota si preparava all’atterraggio. Al terzo giro, il grosso trimotore Junkers scese rombando sopra l’aeroporto ed eseguì un atterraggio perfetto sull’asfalto bagnato. Il metallo lustrato a mano brillò mentre il velivolo si avvicinava al terminal di retromarcia.
Douglas si aspettava che chiunque aggiungesse il titolo di dottore al grado militare su un messaggio da telescrivente serbasse una traccia di galateo da medico. Huth, però, era dottore in legge, e un ufficiale delle SS pertinace, come non ne aveva ancora mai conosciuti.
A differenza di Kellerman, il nuovo arrivato indossava l’uniforme, e non dava segno di preferire gli abiti borghesi. Non era la divisa nera delle SS, che ormai portavano solo le Allgemeine-SS: perlopiù bifolchi di campagna che rispolveravano l’uniforme in occasione delle bevute del fine settimana. La divisa del dottor Huth era grigio argento, con gli stivali alti e i pantaloni da equitazione. Sul polsino, la fascia con le iniziali RFSS, destinata allo staff privato di Himmler.
Douglas lo squadrò per bene. Quell’uomo alto e magro aveva qualcosa del manichino, a dispetto delle condizioni della sua divisa, stirata con cura e pulita, ma senza ombra di dubbio vecchia. Aveva più o meno trentacinque anni, un fisico forte e muscoloso, il passo e il portamento energici, in netto contrasto con le palpebre pesanti che gli conferivano un’aria sonnolenta. Teneva sotto il braccio un bastone corto con l’impugnatura d’argento, e in mano una voluminosa ventiquattrore. Schivò l’ingresso per la dogana e l’immigrazione e picchiò con il bastone sul bancone fino a quando un ufficiale della Lufthansa in uniforme gli aprì il cancello e lo accolse nella sala arrivi.
«Archer?».
«Sì, signore». L’ufficiale gli strinse la mano sbrigativamente, come fosse obbligato a rispettare un’usanza britannica.
«Cosa stiamo aspettando?» chiese.
«I suoi assistenti... il suo bagaglio...».
«Fucili da caccia, mazze da golf e canne da pesca, intende? Non ho tempo per certe scempiaggini. Ha un’auto?».
«La Rolls» rispose Douglas, indicando la macchina tirata a lucido, con l’autista in uniforme delle SS e i gagliardetti ufficiali di Kellerman oltre le porte del terminal.
«E così Kellerman le ha concesso la Rolls Royce» osservò Huth mentre saliva a bordo. «E cosa userà mai, oggi pomeriggio, la carrozza reale?». Parlava un inglese perfetto ed elegante che viene solo da genitori o da una tata poliglotta. Ma quella levigata raffinatezza non riusciva a offuscare il lucore dell’ambizione sfrenata.
Il padre di Huth era professore di lingue moderne. La famiglia aveva vissuto nello Schleswig-Holstein fino a quando, dopo la Prima guerra mondiale, i nuovi confini avevano consegnato la loro casa alla Danimarca. Quindi si erano trasferiti a Berlino, dove Oskar Huth aveva intrapreso gli studi di giurisprudenza, prima di completare la sua formazione a Oxford, università che Douglas Archer aveva frequentato qualche anno dopo. Malgrado la differenza di età, i due condivisero ricordi e conoscenze. Inoltre la madre di Douglas, da giovane, aveva lavorato come istitutrice a Berlino, così lui aveva imparato a conoscere la città grazie ai suoi racconti.
«A cosa sta lavorando, attualmente?» buttò lì Huth, guardando fuori dal finestrino. La macchina rallentò nel traffico di Norwood. C’era una lunga fila di persone in attesa del pane razionato. Douglas si aspettò quasi che Huth facesse un commento, ma lui si protese in avanti con il pugno chiuso, e usò l’anello col sigillo per battere sul vetro divisorio. «Accenda la sirena, sciocco» disse all’autista. «Pensa che possa star qui tutto il giorno?».
«Due morti a Kentish Town, martedì scorso. Sono caduti sul binario elettrificato della metropolitana. In un primo momento l’ho ritenuto un omicidio, poi sono arrivato alla conclusione che si trattasse di un patto suicida; l’uomo era fuggito dal campo di prigionia per inglesi di Brighton». Douglas si grattò la guancia. «Una sparatoria in un locale notturno di Leicester Square, sabato notte. Una pistola mitragliatrice, circa centocinquanta colpi. A quanto pare, non c’è penuria di proiettili. Tutto fa pensare a una faida tra bande. Secondo il proprietario, il bottino è stato di circa seimila sterline in banconote usate, soprattutto marchi dell’occupazione. Tenuto conto di quel che dichiara per aggirare le tasse, probabilmente bisogna raddoppiare la cifra. Il gestore e il cassiere sono morti, tre clienti sono rimasti feriti e uno è ancora in ospedale».
«E che mi dice dell’omicidio di Peter Thomas?» chiese Huth, ancora in contemplazione delle vie grigie flagellate dalla pioggia oltre il finestrino.
«È successo solo stamattina» rispose Douglas, stupito che Huth fosse tanto aggiornato sui fatti.
Huth annuì.
«Finora non abbiamo trovato nessuno che abbia sentito il colpo di pistola, ma il medico ritiene che la morte sia avvenuta intorno alle tre del mattino. Sul cadavere c’erano dei documenti d’identità a nome di Peter Thomas, ma probabilmente sono falsi. Non ha precedenti, sotto quel nome. I tecnici stanno esaminando le impronte digitali, ma impiegheranno parecchio a finire. Aveva un biglietto ferroviario da Bringle Sands, una piccola località di vacanze sulla costa del Devon».
Osservò Huth, che si ostinava a guardare fuori dal finestrino. «So perfettamente dove si trovi Bringle Sands» rispose. Douglas si stupì per la seconda volta. Lui stesso aveva dovuto consultare un atlante per riuscire a localizzarla.
«Prosegua» lo incalzò Huth senza guardarlo.
«Nell’appartamento c’erano alcune derrate militari... non molte. Tipici articoli da borsa nera: sigarette, alcolici, buoni per la benzina. Abbiamo la dichiarazione scritta di un vicino, che insiste sul fatto che un Feldwebel della Luftwaffe frequentasse assiduamente il posto. Ci ha fornito una descrizione, e il mio sergente è andato alla Feldgendarmerie questo pomeriggio. Ora sono in attesa di sapere se vogliano prendersi in carico l’indagine o se debba continuare io».
«Che mi dice dell’omicidio?».
«Pare che l’assassino sia penetrato nell’appartamento e che abbia atteso l’arrivo della vittima...».
«Ma lei non ne è convinto?».
Douglas fece spallucce. Impossibile illustrare a quell’ufficiale delle SS le difficoltà legate a quel tipo di indagine. Le punizioni per la minima trasgressione delle regole erano talmente severe che persino i cittadini più ligi preferivano testimoniare il falso. Douglas Archer lo capiva e, d’accordo con la polizia di tutto il paese, tendeva a chiudere un occhio su molti reati minori. «Probabilmente un omicidio legato al mercato nero» disse, benché l’istinto gli suggerisse ben altro.
Huth si girò e sorrise. «Credo di cominciare a comprendere il suo modo di lavorare, soprintendente. Probabilmente un omicidio legato al mercato nero, dice. E sabato si è trattato di una faida tra bande. Martedì, un patto suicida. È così che operate a Scotland Yard? Avete queste nicchie comode in cui archiviare scaltramente i casi che altrimenti finirebbero in un gigantesco fascicolo con sopra scritto “insolubile”. Giusto?».
«Se lo dice lei, Standartenführer... A mio parere, si tratta di casi semplici, tranne quando vedono il coinvolgimento dei membri della Wehrmacht. Lì, ho le mani legate».
«Plausibile» disse Huth.
Douglas attese e, visto che l’altro taceva, chiese: «Vorrebbe chiarirmi il concetto, signore?».
«L’idea che si tratti di un “omicidio da mercato nero” non le ha neanche sfiorato la mente» disse Huth, sprezzante. «Perché uno come lei conosce ogni maledetto furfante di Londra. Se avesse pensato che c’entrasse il mercato nero, avrebbe cercato tutti i maggiori borsaneristi della città e avrebbe dato loro un paio d’ore per consegnarle il colpevole, sotto la minaccia di dieci anni di “pena detentiva”. Mi spieghi perché non l’ha fatto».
«No».
«Come sarebbe a dire, no?»
«Non posso spiegarglielo, perché non lo so. Tutte le prove portano alla conclusione che le ho esposto... ma ho la sensazione che ci sia dell’altro».
Huth lo fissò, spingendo indietro il berretto con la punta del pollice. Era un bell’uomo, ma aveva un colorito slavato, l’uniforme grigia e le mostrine nere e argento delle SS che si scostavano di poco dal suo pallore, dovuto a una vita spesa in uffici male illuminati. Douglas non riusciva a capire cosa gli passasse per la testa e, di contro, aveva la fastidiosa sensazione che Huth gli leggesse nei pensieri. Ma non distolse lo sguardo. Dopo un lasso di tempo che parve interminabile, Huth chiese: «Quindi, cosa ha intenzione di fare?».
«Se la Feldgendarmerie identifica il Feldwebel di cui si parla nella dichiarazione scritta del vicino, sarà il Feldgericht, il tribunale di guerra della Luftwaffe, a decidere...».
Huth fece un gesto sdegnoso con la mano. «La Luftwaffe ha ricevuto un messaggio via telescrivente da Berlino, con l’ordine di consegnarle il caso».
Stavolta Douglas fu davvero stupefatto. La Wehrmacht si teneva ben stretto il diritto di gestire le proprie indagini. L’SD – il servizio segreto delle SS – aveva toccato picchi all’apparenza inarrivabili quando aveva esteso i suoi poteri d’indagine non solo sulle SS ma anche sulle SA e sul partito nazionalsocialista. Persino l’SD, però, si guardava bene dall’incriminare un membro delle forze armate. C’era solo un uomo capace di ordinare alla Luftwaffe di passare un’indagine alla SIPO, ed era il capo supremo del potere civile e comandante supremo delle forze armate: Adolf Hitler.
Douglas lanciò l’immaginazione a briglia sciolta, chiedendosi se il delitto fosse stato commesso da qualche nazista di alto rango, o da un suo parente, collaboratore o amante. «Esiste una teoria su chi possa essere l’assassino?».
«Lei si limiti a trovarlo» rispose Huth.
«Ma perché proprio questo reato?» insisté Douglas.
«Perché è avvenuto» ribatté Huth stancamente. «E, per un inglese, tanto dovrebbe bastare».
La mente di Douglas si affollò di timori e obiezioni. Non lo allettava l’idea di collaborare a un’indagine così delicata, con un inquietante ufficiale delle SS che gli sbirciava tutto il tempo da sopra la spalla. Ma si riservò di dar voce alle sue perplessità. Un sole timido e acquoso sbucò da dietro le nuvole e illuminò le strade scintillanti. L’autista azionò la sirena della polizia e oltrepassò le alte mura del campo da cricket dell’Oval.
«Passerò a prenderla alle sette e mezza per accompagnarla al ricevimento in suo onore al Savoy Hotel. Il generale Kellerman ha pensato che avrebbe gradito la vista di Buckingham Palace e delle Houses of Parliament, durante il tragitto verso i suoi alloggi di Brook Street, a Mayfair» disse.
«Il generale Kellerman è un villico» osservò affabilmente Huth, in tedesco.
«Il che significa che lei gradirebbe che passassimo davanti a Buckingham Palace?».
«Significa, mio caro soprintendente, che non ho la minima intenzione di sprecare la serata in contemplazione di una sala traboccante di ufficiali dell’esercito e delle loro signore agghindate, intenti a tracannare champagne e, tra un boccone e l’altro di salmone affumicato, a informarmi sul posto più a buon mercato dove comprare porcellana Staffordshire». Continuò a parlare in tedesco, ricorrendo al verbo fessen, normalmente usato per descrivere le abitudini alimentari del bestiame.
«Mi porti in ufficio» ordinò. «E stasera stessa mandi il miglior patologo su piazza a esaminare Peter Thomas. Voglio essere presente all’autopsia». Scorse l’espressione sbalordita di Douglas. «Si abituerà presto ai miei metodi di lavoro».
Ci si abitua anche alla febbre gialla, pensò Douglas, ma si rischia di morire nell’impresa. «Quindi, annullo il ricevimento?».
«Privando Kellerman e compari del loro intrattenimento? Soprintendente, sarà mica un guastafeste, lei?». Rise piano. Poi batté sul vetro divisorio e ordinò: «Scotland Yard!» all’autista.