Capitolo nove
Di ritorno a Scotland Yard dopo aver lasciato gli altri a scuola, Douglas cercò un giovane agente, Jimmy Dunn, e fece in modo di affidargli un incarico in borghese. L’agente Dunn moriva dalla voglia di entrare nel dipartimento di polizia investigativa. Aveva affiancato Archer in diversi casi, rivelando buone capacità.
«Scopri tutto quel che puoi su questo maestro di musica» disse Douglas. «Politica? Sesso? Qualche malumore nei confronti della polizia? Non voglio farlo io stesso, temo che mi riconoscerebbe».
«Ci penso io, signore» rispose Dunn, che non vedeva l’ora di cominciare.
«Magari è solo uno svitato. Magari è solo fumo».
Dunn cominciò allegramente a sgombrare la scrivania. Tollerava l’incarico di vicecommissario nell’amministrazione solo perché il suo ufficio sul piano ammezzato era vicino alla squadra omicidi e alla mobile.
«Oh, e Jimmy...» disse Douglas mentre si girava per andarsene. «Esiste la remota possibilità che questo tipo senza un braccio sia da collegare all’omicidio di Peter Thomas. Meglio che ritiri una pistola dal nostro amico al piano di sotto. Ti firmo un’autorizzazione».
«Una pistola?».
A Douglas sfuggì un sorriso. «Prendi una cosa piccola, Jimmy, che non dia nell’occhio. E tienila nascosta, a meno che tu non debba difenderti. In questa città circolano fin troppe armi, e se qualcuno perde la propria scoppia un putiferio».
Douglas trovò Harry Woods nel nuovo ufficio all’altra estremità dell’edificio, intento a infilare una bugia via l’altra per coprire la sua assenza. L’ufficio del generale Kellerman continuava a chiedere di lui dalle nove di mattina.
Da Whitehall arrivava il costante martellare degli operai. Berlino aveva annunciato che, per celebrare l’amicizia tra la Germania nazista e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, sarebbe stata indetta una settimana di Kameradschaft in entrambi i vasti imperi. Avrebbe avuto inizio la domenica successiva, quando i reparti dell’Armata rossa e della marina, completi di banda e coro, si sarebbero uniti alla Wehrmacht per una sfilata attraveso la città.
Si stava provvedendo a decorare tutto il percorso, ma Whitehall e Parliament Square avrebbero subito un trattamento speciale. Insieme a centinaia di bandiere, c’erano blasoni raffiguranti un martello, una falce e una svastica sopra la piccola croce di San Giorgio che, nella zona occupata, aveva sostituito la bandiera nazionale in tutti gli eventi ufficiali.
Hitler aveva predisposto gli attracchi per la marina sovietica a Rosyth, Scapa Flow e Invergordon. Il ministero della propaganda di Goebbels aveva comunicato che si trattava dell’esito naturale del legame di amicizia tra i due grandi popoli. I cinici sostenevano che Hitler volesse porre qualche russo tra sé e gli americani.
Il generale Kellerman mantenne il suo atteggiamento rilassato e gioviale, a dispetto del lavoro extra procurato a Scotland Yard dalla Settimana dell’amicizia tedesco-sovietica. Persino rientrando da una conferenza al Feld Kommandantur con una valigetta carica di FK-Befehle, riuscì a trovare esilarante lo sforzo compiuto da una gran quantità di impiegati per produrre tutte quelle risme di ordini relativi alla Settimana dell’amicizia.
Il proliferare di circolari in arrivo dal comandante militare GB (e dal capo dell’amministrazione militare GB, che gestiva il governo fantoccio britannico e gli ufficiali tedeschi) era un segno del crescente timore che la Settimana dell’amicizia potesse trasformarsi in un’occasione di dimostrazioni violente. Tuttavia, la fortissima rivalità – per non dire ostilità – tra i generali dell’esercito tedesco e l’organizzazione delle SS di Himmler e i loro affiliati di polizia, indusse l’esercito a lasciare al generale Kellerman le solite mansioni di polizia.
«Cosa ne pensa?» indagò il generale con Douglas. «Sia sincero, soprintendente».
Kellerman sparse i giornali del mattino sulla scrivania. Nei titoli riportavano tutti l’annuncio sulla Settimana dell’amicizia dato da Berlino. C’era una certa ironia nel modo in cui la testata ufficiale nazista a Londra, Die Englische Zeitung, si limitava quasi solo a riportare alla lettera l’annuncio, in un bel riquadro sulla prima pagina. Il Daily Worker, d’altro canto, gli dedicava quattro pagine: «I lavoratori britannici dicono “Avanti”», con la foto degli ufficiali russi e inglesi che avrebbero preso parte al saluto alla bandiera. Stalin aveva già scritto un messaggio per l’occasione. Chi ricordava le congratulazioni inviate a Hitler dopo la caduta della Francia, trovò quell’ultima missiva altrettanto esagerata.
«Ci saranno problemi?» chiese Kellerman.
«Da parte di chi?».
Kellerman ridacchiò. «Il regime ha dei nemici, soprintendente». Si grattò la testa come per tentare di ricordare chi fossero. «E non tutti fanno parte dello staff del generale». Sorrise, divertito dalla sua stessa battuta. Douglas non sapeva se dovesse unirsi a quella rozza denigrazione dell’alto comando tedesco. Annuì, fingendo di non aver ben compreso.
«Avremo parecchio lavoro in più» disse Kellerman. «Berlino insiste affinché l’esercito disponga i suoi soldati lungo tutto il percorso. Ho idea che ne resteranno ben pochi per marciare nella sfilata». Ridacchiò di nuovo. A quanto pareva, niente come l’esercito tedesco in difficoltà metteva Kellerman di buon umore. «E progettano di disporre dei reparti di Gendarmerie ogni trecento metri. Come pensano di fare?».
«E la polizia metropolitana?».
«Servizio di routine, tranne per l’emissione di lasciapassare».
«Come funzionerà, signore?».
«I residenti dell’anello esterno di Londra avranno il permesso di raggiungere il centro ogni giorno, solo per quella settimana. Temo che toccherà alle stazioni di polizia locali emettere i lasciapassare. Giornalieri».
Douglas annuì. Era facile immaginare il caos che avrebbe regnato nelle stazioni di polizia periferiche. Mezza Londra aveva parenti stretti che non poteva vedere per via delle restrizioni sugli spostamenti. «Il lavoro si ridurrebbe della metà se le stazioni di polizia potessero produrre dei lasciapassare settimanali». Kellerman sollevò lo sguardo e lo fissò. «E se fossero concessi solo in caso di assoluta necessità» ribadì Douglas.
Kellerman rimase a guardarlo per un po’, prima di rilassare il volto in un lieve, enigmatico sorriso. «Ma certo, soprintendente. Solo in caso – com’era? – di assoluta necessità». Prese il FK-Befehle e trovò i paragrafi relativi all’emissione di lasciapassare. «Non vedo perché non introdurre questa postilla negli ordini». Sorrise a Douglas. Sapevano entrambi che quella scappatoia avrebbe ridotto drasticamente la mole di lavoro delle stazioni di polizia locali.
«E i lasciapassare sarebbero degli splendidi ricordini» aggiunse Kellerman. «Metto subito all’opera un progettista del dipartimento di propaganda. Tantissime decorazioni e pochissime parole stampate sulla matrice».
«Sì, signore» disse Douglas. Era un modo per impedire alla Wehrmacht di analizzare a fondo le matrici.
«Naturalmente, niente di tutto ciò la vede direttamente coinvolto, ma apprezzo sempre il suo punto di vista su queste faccende».
«La ringrazio, signore».
«So che il suo lavoro con lo Standartenführer è di importanza capitale per il Reichsführer-SS. Ho quindi ritenuto di alleggerirla di tutti gli altri compiti».
«Davvero cortese da parte sua, generale».
«Ha l’aria stanca, soprintendente. Suppongo sia andato a dormire molto tardi».
«Non ho dormito affatto, signore».
«Ma è terribile! Non posso permetterlo. Neanche un giovane ufficiale brillante come lo Standartenführer Huth può permettersi di sfinire a tal punto i miei agenti. Men che meno uno dei più abili al mio comando».
«Il generale è troppo generoso».
Kellerman si diresse alla minuscola torretta che corredava la sua stanza. «Ha visto?». Douglas lo raggiunse. Guardarono il Westminster Bridge. Schiere di tinteggiatori lo stavano dipingendo d’oro. Qualcuno stava sistemando le bandiere rosse con le svastiche sul perimetro di un’impalcatura a tre metri d’altezza. Douglas immaginò fosse un modo di celare il ponte, il fiume e la strada; forse perché le unità mobili della Gendarmerie si sarebbero concentrate sia sulla via che sul fiume, pronte a entrare in azione in caso di problemi.
«Le piace?» chiese Kellerman. Douglas ricordò una citazione classica sul costruire ponti d’oro al nemico, ma evitò di farne parola.
«Sono un londinese» disse. «Mi piace che le cose restino come sono sempre state».
«Apprezzo un agente che dice la sua. Desidero ricordarle, soprintendente Archer, che qui a Scotland Yard lei è tenuto in gran conto. Qualsiasi suggerimento o lamentela avrebbe un certo peso, per chi siede ai vertici». Kellerman prese l’humidor e lo aprì. Stavolta tralasciò il rituale di accendere il sigaro a Douglas, che ebbe la sensazione di essere sottoposto a un trattamento tutto nuovo.
Kellerman attese che Douglas scegliesse, tagliasse e accendesse il suo sigaro. Poi, quando quello ebbe preso per bene, disse: «Più in conto di quanto lei stesso non sappia, soprintendente Archer. Berlino si congratula con noi per i rapporti sui reati. E lei vi ha avuto un ruolo di rilievo».
«Solo per quanto riguarda gli omicidi».
«E crede che leggano altro? Le forze di polizia e i loro comandanti...» sorrise e si grattò la guancia rosea «vengono valutati in base alle quantità di omicidi risolti. Nessuno si interessa dei reati veramente importanti: frode, sabotaggio, incendi dolosi, furto, ricatto e via dicendo. No, tutti si preoccupano solo dell’assassinio, l’unico reato raramente commesso da criminali. Quindi voi della squadra omicidi siete di importanza capitale, ed ecco perché le vecchie volpi scaltre come me si assicurano che ai casi di omicidio vengano assegnati gli investigatori migliori».
«Capisco, signore» disse Douglas, dubbioso.
«Quel che voglio dire, soprintendente, è che la spalleggerò, sempre e comunque. Non lo dimentichi. Se le piace lavorare per questo tizio, Huth, tanto meglio. Ma se dovessero insorgere difficoltà, venga a dirmelo e io gli assegnerò un altro agente».
«Grazie, generale. Non ho nulla di cui lamentarmi».
«Non sarebbe da lei, soprintendente. Questo lo so abbastanza bene. Ma la mia porta è sempre aperta... Per lei, intendo».
«Grazie, signore».
Douglas uscì dalla stanza di Kellerman, frastornato dalla mancanza di sonno, dal fumo dolce del sigaro e dalla scorpacciata di lusinghe.
Di ritorno nel suo ufficio, vide Harry Woods sepolto tra le carte. La Gendarmerie era rimasta all’oscuro del fatto che l’omicidio di Peter Thomas potesse ricadere sotto la giurisdizione della Wehrmacht, fino a quando Harry Woods non si era presentato con una manciata di buoni per la benzina della Luftwaffe e una dichiarazione scritta in cui si faceva riferimento al Feldwebel e alle sue attività di borsa nera.
La polizia militare e la sua controparte civile generalmente trovavano un accordo su quel tipo di reato e, di norma, la faccenda veniva gestita dal reparto di polizia, dotato degli strumenti migliori per indagare sugli aspetti più intricati del reato stesso. Quindi, a indagare sull’omicidio in questione, sarebbe stato chiamato il dipartimento di polizia investigativa metropolitana.
Ma poi la telescrivente aveva trasmesso il messaggio di massima priorità inviato dall’Oberkommando der Wehrmacht di Berlino, in cui si ordinava, con una profusione di massima sicurezza, priorità assoluta e via dicendo, che tutti i fascicoli, i documenti e le relazioni passassero allo SS-Standartenführer Huth, a Scotland Yard.
Chiunque fosse a conoscenza di quel nuovo sviluppo, sapeva che negare l’esistenza di fascicoli, documenti e persino relazioni, sarebbe stato interpretato come un segno di ignavia, quando non di inettitudine, o, nel peggiore dei casi, come un intenzionale rifiuto di obbedire all’ordine dei vertici.
Date le circostanze, era illogico che Harry Woods imprecasse contro chi gli stava inviando quei fascicoli.
Douglas lo aiutò a sbrogliare alcuni dei passaggi più intricati. Molti dei moduli, stampati in tedesco, costituivano una novità per entrambi. Douglas chiese a uno degli inservienti di portar loro tè e panini, per poter lavorare anche durante la pausa pranzo. Trovavano sempre un’armonia quando dividevano un compito e, per una volta, Harry Woods tornò a essere quello di un tempo. Di Huth, neanche l’ombra. Aveva fatto sapere di essere a una conferenza, ma Harry sentenziò che probabilmente dormiva nel suo letto.
Alle due e mezza del pomeriggio, arrivò una chiamata dall’agente Jimmy Dunn. «Ho localizzato l’uomo, signore» disse a Douglas. «Non gli ho parlato, ovviamente, ma ha incontrato l’amico, l’insegnante di musica, durante l’intervallo per il pranzo a scuola. A quel che dice il preside, parteciperà alla lezione del pomeriggio. si chiama John Spode».
«Ottimo lavoro» disse Douglas.
«Non è un insegnante, gli è stato offerto un lavoro temporaneo su base giornaliera. La scuola mi ha dato il suo indirizzo. Ho detto che ero stato inviato dal Provveditorato agli studi, ma non sono certo che mi abbiano creduto. Poi sono andato a dare un’occhiata ai suoi alloggi, in un edificio vetusto e fatiscente su Mafeking Street, a Marylebone, a due passi dalla scuola. Le porte sono prive di serrature che si possano definire tali, e il custode era fuori, così sono entrato e ho fatto un giro».
«E?».
«Due stanze, bagno in comune. Niente male, davvero, dati i tempi. Un tantino sudicio, ma c’è una deliziosa scrivania intarsiata e alcuni dipinti alle pareti hanno l’aria di valere un bel po’. Cioè, non sono un esperto d’arte e di antichità, signore, ma queste cose sono tanto vecchie quanto in ottimo stato. E penso che questo significhi che sono di valore».
«Ma lui è pulito?».
«Be’, non gli ho fatto pelo e contropelo, signore. Ma direi che è pulito: pulito ma non immacolato».
Era l’espressione con cui quel poliziotto descriveva i reati su cui avrebbe chiuso un occhio.
«Rimani lì, Jimmy. Ti raggiungo e do un’occhiata io stesso».