Capitolo undici

La Beech Road School era il genere di tetra fortezza vittoriana in cui tanti scolari londinesi passavano le giornate. Su un lato, c’era una chiesa diroccata, con la parte lastricata del cimitero a fare da area giochi per gli scolari. Che razza di posto in cui permettere a un bambino di trascorrere l’infanzia preziosa, pensò Douglas. Povero piccolo Douggie.

Di fronte alla scuola c’era una sala da tè. In passato era stata un localino accogliente, che odorava di sigarette Woodbine, di pane imburrato e di latte condensato. Douglas la ricordava da quando era un giovane investigatore, con il bancone sepolto sotto strati di budino di pane, pesante come piombo e scuro come la pece. Ora il bollitore del tè, la placcatura ormai consumata e giallastra, produceva solo tè surrogato, e il calore all’interno non bastava a far appannare i vetri.

«Abbiamo quattro plotoni di fanteria di riserva» gli disse Huth. «Li tengo nascosti. Gli altri uomini hanno circondato la zona».

Douglas andò alla porta del caffè e guardò fuori. I soldati erano in assetto da combattimento, completo di giubbotto protettivo e granate agganciate alla cintura. Su Lisson Grove erano parcheggiati alcuni camion, con accanto le squadre specializzate nei rastrellamenti, con i loro tavolini pieghevoli, le macchine da scrivere portatili e le scatole di manette. Douglas sapeva che la politica ufficiale tedesca era quella di rendere «l’esercizio dell’ordine costituito una esibizione delle risorse a disposizione della potenza occupante», ma mai si sarebbe aspettato un simile dispiegamento.

«Avrebbe dovuto lasciarmi agire da solo» disse a Huth.

«Voglio dimostrare a questa gente che facciamo sul serio» rispose lui. «Andiamo a prenderlo, che ne dice?».

Attraversarono la strada. Un soldato rise. Douglas si girò a guardare il punto in cui le squadre d’assalto se ne stavano nella posizione rilassata che i soldati assumono quando ne hanno l’occasione. Si chiese se i soldati delle SS avrebbero obbedito all’ordine di aprire il fuoco sulla scuola. L’esperienza gli diceva che in quel momento i bambini erano tutti col naso schiacciato contro i vetri... o scalpitavano per ottenere il permesso di farlo. Divorato dall’angoscia, cercò di scorgere il viso del figlio, senza riuscirci.

Entrarono nell’atrio, dove li accolse un custode puntiglioso. Nell’aria regnava una calma artefatta, come se tutta la scuola avesse ricevuto l’ordine di ignorare le manovre militari all’esterno.

«Cosa posso fare per voi, signori?» chiese il custode.

«Si tolga dai piedi!» rispose Huth. «Dov’è il preside? Nascosto sotto la cattedra?».

«Standartenführer, l’uomo in questione è oggetto di una mia indagine. Insisto affinché i suoi diritti civili vengano rispettati. Sarò io a prenderlo in consegna» disse Douglas.

Huth sorrise. «Non gli spareremo “mentre cerca di fuggire”, se è questo ciò a cui mira il suo discorsetto». Si fece avanti, spalancò le porte a vento dietro cui era scomparso il custode e strepitò: «Maledizione, preside! Si sbrighi!», in direzione dei corridoi interminabili. Poi si girò verso Douglas Archer e disse: «Ci sono troppe questioni in sospeso che lo riguardano, per poterlo eliminare così presto».

Il preside arrivò, sfoggiando un’andatura da atleta. «Allora, a cosa si deve questa interruzione?» chiese, con un tono che Douglas non sentiva da quando era studente.

Huth si volse a guardarlo. Poi prese il bastone con l’impugnatura d’argento e lo tese fino a toccare il torace dell’altro. «Non...» esordì, prima di fare una lunga pausa, interrotta solo dall’affanno del preside, «... si rivolga a me...». Huth parlava molto lentamente, punzecchiandolo per accompagnare le parole più importanti. «... O ai miei ufficiali di polizia con questo tono. È un pessimo esempio per i suoi alunni».

Il preside sgranò gli occhi. Il timbro misurato e il tono solenne lasciarono il posto a un borbottio. «Si tratta di Spode? Rimpiango di avergli offerto un impiego. Ha portato solo guai, e non credo mi abbia detto la verità...».

«Dov’è?» chiese Huth, parlandogli ancora come se fosse un bambino.

«Spode?».

«Chi altro? Pensa che mi presenterei qui per informarmi sugli spostamenti del Reichsmarschall Göring?». Lunga pausa. «O su dove si trovino il re, la regina e le due principesse d’Inghilterra?».

«No, certo. Molto divertente, Herr colonnello. Il re... be’, so che il re è a Windsor con la famiglia reale e che tutti godono di ottima salute. Ho letto il bollettino in merito, e mi sono accertato che tutto il mio personale sapesse che non avrei tollerato le voci vergognose secondo cui Sua Maestà sarebbe confinato nella Torre di Londra».

«Dov’è Spode?» ripeté Huth tirando indietro il cappello di un millimetro, come se la fascia gli stringesse.

«Spode?». Un sorriso agitato. «Spode? Ebbene, lo sapete, dov’è. Alla stazione di polizia». Un altro sorriso che, mentre guardava Huth, si trasformò in una smorfia. «No? Un agente si è presentato stamattina e ha chiesto il suo indirizzo». Huth inarcò un sopracciglio rivolgendosi a Douglas, che annuì. Il preside seguì quello scambio in preda all’angoscia, poi proseguì. «Naturalmente, ho fornito tutto l’aiuto possibile, e non mi permetto certo di entrare nel merito del vostro operato. No, no. Prima della guerra trascorrevo le vacanze in Germania. Ammiravo il sistema, e ancora lo ammiro, ovviamente, soprattutto quello tedesco... cioè, con questo non voglio dire che non ammiri il sistema britannico...».

Douglas andò in fondo all’atrio, dove l’agente Dunn era in attesa. «Meglio tornare laggiù, a prendere il braccio finto, le foto e tutto il resto, Jimmy».

«Si dia un contegno, miserabile» disse Huth. «Dove si trova questo Spode?».

«Gliel’ho appena detto, Herr Oberst. È arrivata una chiamata dalla stazione di polizia, in cui si chiedeva di lui. Ovviamente, gli ho concesso il permesso di lasciare la classe».

«Chi ha preso la chiamata, preside?».

«La mia segretaria. Ho immediatamente mandato a cercare Spode e l’ho fatto parlare con la polizia. Abbiamo un solo telefono, capite?».

«Quanto tempo fa?».

Il preside consultò l’orologio, gli diede un colpetto e se lo portò all’orecchio. «Circa un’ora».

Huth andò all’ingresso, uscì e soffiò brevemente due volte nel suo fischietto. La fanteria entrò a passo di carica nel cortile, in un frastuono di stivali con le punte rinforzate. I soldati si schierarono di fronte a Huth come fossero in parata, l’ufficiale davanti con la mano alzata in quello che gli inglesi stavano imparando a chiamare saluto tedesco.

«Prendete questo idiota in custodia e tenetelo separato da tutti gli altri».

«Sta dicendo che a telefonare è stato uno dei suoi complici... oh, mio Dio!» esclamò il preside. Si aggrappò al braccio di Douglas Archer, senza mollarlo. «Questo Spode mi ha ingannato» dichiarò. «Glielo dica. Lei è inglese, la conosco... Gli dica che sono innocente».

Douglas si irrigidì per la vergogna. Un soldato aprì le dita del preside. «Almeno lasciatemi avvertire mia moglie» implorò lui. Ma i soldati lo stavano già spintonando oltre l’ingresso. «Prendete tutti gli insegnanti» ordinò Huth all’ufficiale delle SS «e anche i bambini più grandi. Chi ci dice che non siano coinvolti? Negli ultimi mesi i nostri soldati sono stati uccisi da dei quindicenni».

«Vedrò di scoprire dove possa essere andato Spode» disse Douglas.

«A questo punto sarà uccel di bosco» ribatté Huth. «Questi individui sono maledettamente efficienti».

«Quali individui?» chiese Douglas.

«I terroristi» rispose Huth, ricorrendo alla definizione ufficiale che i tedeschi davano della Resistenza, armata o meno. «No. Vada a prendere suo figlio... oggi è qui, giusto? Lo porti a casa. Gli dia una spiegazione».

«Una spiegazione!» esclamò Douglas. Non aveva idea di come spiegare la follia del mondo a suo figlio.

«I bambini sono creature duttili» disse Huth. «Eviti di addossarsi tutte le colpe, solo perché suo figlio ha perso la madre».

Douglas non replicò. Rimasero entrambi a guardare i soldati che trasferivano un gruppo di insegnanti nel cortile della scuola. I camion entravano in retromarcia dal cancello angusto. «Una manovra inutile. Questi insegnanti sono innocenti: non sanno nulla» osservò Douglas.

«Ormai non potrei più fermarmi» rispose Huth «anche qualora fossi d’accordo con lei».

Il portellone di uno dei camion fu abbassato rumorosamente. Poi il primo insegnante salì sul cassone. Era talmente anziano che un soldato fu costretto ad aiutarlo. Uno dei colleghi lo salutò debolmente e il vecchio sorrise, mite. Era sempre così con gli arresti di massa, pensò Douglas. I prigionieri si sentivano rassicurati dalla vicinanza con i conoscenti. Sentivano che non poteva accadere nulla di male, e li confortava il pensiero di non aver commesso alcun reato. La procedura d’arresto si trasformava in una gita, in un picnic, in una interruzione della monotonia quotidiana. I soldati ne erano consapevoli e incoraggiavano quella levità, sapendo che il loro compito sarebbe stato più semplice e meno fastidioso se i prigionieri avessero sorriso per tutto il tragitto fino al centro di detenzione.

«Ha avuto altre notizie dalla ragazza?» chiese Huth.

Douglas rimase interdetto, e non rispose.

«So della storia di Trafalgar Square, sciocco. L’ha contattata di nuovo?».

«Ha fatto seguire me... ma non lei?».

Huth si finse addolorato. «Lei tocca un nervo scoperto, amico mio. È stata rapida e astuta, più dell’uomo che le avevo messo alle calcagna».

«Un uomo?».

«La voce del mestiere! Sì, i miei sottoposti hanno molto da imparare. Non si sono resi conto di avere a che fare con un’agente di grande esperienza».

«Sylvia?».

«Non l’aveva capito, eh? Già, una signorina importante. Avremmo dovuto arrestarla quando ne avevamo l’occasione... ma quelli come lei subodorano i guai».

«Ha subodorato un guaio?».

«O qualcuno gliel’ha segnalato. C’è sempre qualcuno che informa qualcun altro. Qualcuno ha telefonato a Spode e gli ha detto di prepararsi alla fuga, giusto?». Tirò su col naso. «Non importa, ci riproveranno, perché vogliono disperatamente mettersi in contatto con lei, soprintendente».

«Davvero?».

«Direi proprio... Guardi i rischi che sono disposti a correre. La prossima volta probabilmente non useranno la ragazza. Potrebbe essere chiunque. Lei ascolti qualsiasi cosa le dicano. Accetti la loro proposta».

«Proposta?».

«Probabile che vogliano tentare nuovamente di far scappare il re».

«Dalla Torre di Londra?».

«Non è così assurdo. Ci hanno già provato all’inizio del mese scorso, dal fiume, e ce l’hanno quasi fatta».

«Santo Dio!». Douglas si spiegò finalmente una serie di cose. La custodia del re era la prima responsabilità del generale Kellerman. Douglas ricordò i grandi cambiamenti avvenuti il mese prima nei reparti di sicurezza delle SS, e la decisione del generale di rimuovere i suoi dipendenti di grado più elevato.

«Otterrebbero di più negoziando che con gli attacchi terroristici» osservò Huth.

«Dice?».

«Non è una mia opinione. È il messaggio che le chiedo di consegnare».

«Ecco mio figlio» disse Douglas.

«Prenda la mia Mercedes. Il bambino andrà pazzo per il compressore».

«Non abito lontano» declinò Douglas. «Una passeggiata all’aria fresca mi farà bene». Ma non si mosse. Indugiò, preoccupato che i bambini venissero maltrattati o che tutta quella storia potesse prendere una deriva violenta.

Era ancora lì, quando l’agente Dunn lo raggiunse attraversando il cortile di corsa, il volto arrossato e il fiatone. «Sparito, signore. Il braccio è sparito. E anche la busta di carta con dentro la macchinetta e gli accessori».

«Ne sei certo?».

«Non si è neanche preoccupato di rimettere a posto il tavolo dopo averli presi. Deve essere andato a casa mentre noi telefonavamo allo Yard».

«Che coincidenza» fu l’amaro commento di Douglas.

L’agente Dunn lo fissò, senza capire. «Non penserà mica che ad avvertirlo sia stato qualcuno dello Yard?» azzardò.

«Vorrei tanto saperlo. Be’, se non altro, gli manca ancora un pezzetto» disse Doulgas, infilando un dito nella tasca del panciotto per controllare di non averlo perso. «Quell’arto era del genere che il ministero fornisce alle vittime di guerra, giusto?».

«Così pare».

«Per ottenerlo bisogna dare le proprie generalità, Dunn. Il ministero controlla gli archivi, e chi richiede l’arto probabilmente deve fornire la prova di aver servito nell’esercito – nome, grado e matricola – o, se si tratta di un civile, esibire la propria tessera “sanitaria”. Vai al ministero, vedi quel che riesci a scoprire. Se farà richiesta per il pezzo mancante, voglio saperlo prima che gli rispondano».

«Potrebbe ritenerlo troppo pericoloso» osservò Dunn.

«Lo è. Come lo è sgattaiolare nel proprio appartamento con un soprintendente alle calcagna. No, questo tipo ha bisogno del suo braccio e penso che si infilerà in un bel pasticcio per aggiustarlo». Poi Douglas individuò suo figlio e lo raggiunse.

A quel punto, gli incaricati dell’arresto di massa avevano sistemato i tavolini e le sedie pieghevoli e stavano battendo a macchina i moduli che l’ufficiale in comando avrebbe sottoscritto. Le persone, i documenti, i registri e i fascicoli che le squadre di ricerca portavano fuori dall’edificio venivano schedati con diligenza certosina. I volti dei soldati tradivano la noia: sapevano bene che quell’operazione, come le altre decine che svolgevano quotidianamente, non avrebbe portato a nessuna scoperta di rilievo. Erano mere esibizioni volte a sottolineare che ogni opposizione agli invasori nazisti avrebbe portato disagi agli innocenti e ai colpevoli in egual misura.

Gli insegnanti ammassati sui camion si erano fatti seri. Alcuni scrutavano fuori, a caccia di amici e parenti, ma i soldati cacciavano di malo modo i curiosi. Uno dei bambini più grandi, sul camion più vicino, aveva le lacrime agli occhi. Un insegnante gli parlava, nel tentativo di consolarlo. Un uomo canuto con gli occhiali storti sorrise al ragazzo e, con voce esile e dolce, prese a cantare:

«Se sei felice e tu lo sai, batti le mani».

Batté le mani. La voce incerta e stonata risuonò nel silenzio da piazza d’armi del cortile della scuola. E altrettanto fece il battito di mani. Una seconda voce si unì alla vecchia canzone da boy-scout:

«Se sei felice e tu lo sai, batti le mani».

Si udì il battito di altre mani, poi i bambini cominciarono a cantare tra le lacrime. I tedeschi si guardarono intorno, in attesa dell’ordine di farli smettere, ma, visto che l’ordine non arrivava, non intervennero.

«Se sei felice e tu lo sai e mostrarmelo vorrai,

Se sei felice e tu lo sai, batti le mani».

Tutti i prigionieri batterono le mani.

«Andate!» ordinò Huth. I camion si accesero, e il primo cominciò ad avanzare. Ormai l’intero convoglio di prigionieri cantava. Era solo un coro stonato di persone spaventate, però la nota di sfida in quel canto dissonante si diffuse forte e chiara, rincuorando qualsiasi inglese in ascolto.

«Se sei felice e tu lo sai, batti i piedi.

Se sei felice e tu lo sai, batti i piedi.

Se sei felice e tu lo sai e mostrarmelo vorrai,

Se sei felice e tu lo sai, batti i piedi».

Douglas continuò a sentire i piedi dei prigionieri pestare sul piano dei cassoni, mentre il convoglio si allontanava rombando in direzione di Edgware Road. Prese la mano del figlio e la tenne stretta, come se al mondo non avesse altro. Fino a quel momento, la collaborazione con i tedeschi gli era parsa possibile. Tutto sommato, il suo mestiere era dare la caccia agli assassini, senza dover fare i conti con la coscienza. Ma ormai aveva la sensazione crescente di venir trascinato in un vortice cupo, al passo di lumaca tipico degli incubi. D’altro canto, non vedeva via d’uscita. Secondo la nuova normativa, ai poliziotti era vietato dimettersi, e gli uomini che tentavano di farlo venivano privati della tessera annonaria e del libretto di lavoro, diventando quasi dei mendicanti. Douglas strinse più forte la mano del figlio.

«Mi fai male» si lamentò il piccolo.

«Scusa». Si chiese se il bambino non lo giudicasse con la stessa imparzialità spietata di chiunque altro.

A Marylebone oltrepassarono un venditore di rape fritte. Il piccolo Douggie andò alla bancarella per guardare la friggitrice, seguito dal padre. I croccanti pezzi di rapa fritta saziavano, confortavano e non erano razionati, e un cartoccio piccolo costava solo due centesimi. Il vecchio che li vendeva aggiunse un pezzetto in più per Douggie.

«Ringrazia, Douggie» disse Douglas meccanicamente.

«Va bene così, signor Archer. Fa piacere vedere che il bambino sta bene».

Douglas si stupì. «È il signor Samuels, papà» lo informò il figlio. «Non te lo ricordi?».

Douglas rimase sconvolto nel constatare che si trattava del proprietario del Samuels’ Restaurant and Tea Rooms, un locale rinomato del West End, famoso prima della guerra per le torte alla panna. Aveva notato che di recente il locale era stato trasformato in un Soldatenheim, un circolo ricreativo per i soldati tedeschi. Si accorse che Samuels, dopo lo sfratto, era invecchiato, aveva la pelle coriacea e gli occhi infossati nelle orbite.

«Sono proprio sbadato» disse, cercando una giustificazione per il fatto di non aver riconosciuto Samuels. Prima della guerra portava regolarmente la moglie e il figlio nel suo locale, a mangiare la torta alla panna. «Posso averne un cartoccio anch’io? Sembrano appetitose».

Il signor Samuels versò i pezzi di rapa calda nel cartoccio di foglio di giornale. Douglas gli tese una sterlina. «Non ho da darle il resto, signor Archer. Spiacente».

«Sarà per la prossima volta».

«No» si oppose Samuels, prima di cambiare idea e di infilare con gratitudine la banconota in tasca. Rovistò tra i vecchi maglioni che indossava sotto il soprabito, e Douglas notò che portava la stella di tessuto giallo.

«Il suo ragazzo mi saluta sempre» disse Samuels, come a sottolineare che non erano in molti a farlo.

«Si aggiusterà tutto, signor Samuels. Glielo prometto».

L’altro sorrise, senza replicare.

Douglas accelerò il passo per raggiungere il figlio, che aveva il naso schiacciato contro la vetrina del sarto Benson. Il prezzo delle stoffe aveva spinto molti sarti ad abbandonare la professione, ma Benson – la cui figlia parlava un po’ di tedesco – prosperava: la vetrina traboccava di uniformi tedesche, bottoni e distintivi. Il piccolo Douggie prese la mano del padre e insieme proseguirono lungo High Street. «Papà, tu lavori per la Gestapo?» gli chiese di punto in bianco.

«No. Lavoro a Scotland Yard. Sono un investigatore della polizia metropolitana, come sempre... Lo sai, Douggie».

«La Gestapo è a Scotland Yard».

«Nell’edificio accanto, Norman Shaw North, e sono quasi tutti tedeschi».

«Ma tu lavori con la Gestapo...» insisté il figlio.

«Be’, io...».

«Ti capita, vero?».

«Dove l’hai sentito?».

«Lo dicono i miei compagni a scuola». Tirò la mano del padre. «Papà, io e gli altri bambini ci stavamo chiedendo...». Gli si affievolì la voce.

«Forza, Douggie, sputa il rospo. Siamo o non siamo amici?».

«Potresti procurarti un distintivo della Gestapo?».

«La Gestapo non ha distintivi; solo targhette identificative speciali».

«Be’, potresti procurarti una di quelle fasce per il braccio delle SS... o uno dei distintivi di filo d’argento delle SD?».

«Non credo proprio, Douggie».

«Oh, papà». Il bambino era sconsolato. «Sono certo che potresti. Scommetto che se lo chiedessi ai signori di Scotland Yard, te ne darebbero uno».

«Perché, Douggie? Cosa te ne faresti?».

«Oh, non saprei. Gli altri bambini fanno la collezione, ma nessuno ha un distintivo delle SS. Mi hanno detto di chiederlo a te».

Quando arrivarono a casa della signora Sheenan il tempo si era guastato e cominciava a piovere. Douglas starnutì. Temette di covare un’influenza. Sedette accanto al fuoco ormai flebile, curvo nel suo soprabito, le mani in tasca. Douggie si mise a fare i compiti al tavolo della cucina. Di tanto in tanto, chiedeva aiuto al padre. Alla fine, però, sentì il suo respiro profondo e capì che si era addormentato sulla sedia. Non lo disturbò. A cena consumarono una minuscola porzione di pesce bollito, e dopo aver messo il piccolo a letto, Douglas si ritirò a sua volta. Teneva da parte una riserva minima di scotch. Ne versò una dose per la signora Sheenan e si portò il suo bicchiere a letto, insieme a un romanzo di Agatha Christie. Ma, arrivato a malapena alla quarta pagina, l’investigatore si addormentò di sasso.