Capitolo tredici

Bertha’s era un circolo privato su Old Compton Street, a Soho. In realtà, si trattava di un localetto angusto al secondo piano, tra sale di montaggio e la vecchia sartoria di Charlie Rossi. La luce del giorno era offuscata da una giungla di piante in vaso che parevano nutrirsi delle cicche di sigarette e dell’alcol versato sulle loro radici da ragazze prudenti e poliziotti determinati.

Bertha presiedeva sul barista e i clienti dal suo sgabello dietro la cassa decorata. La lingua tagliente e il vocabolario ruvido le avevano fatto guadagnare il rispetto dei malfattori più rudi. I tedeschi usavano il bar come postazione d’ascolto e capitava spesso che un giovane turista educato, di poche parole ma con le orecchie aperte, si sedesse in un angolo dietro al pianoforte.

Quando Douglas arrivò, c’era una mezza dozzina di frequentatori abituali. Erano stati tutti alle corse di cavalli di Epsom, una delle poche sopravvissute alla guerra nel sud dell’Inghilterra. Erano tutti lì a calcolare le perdite e a discutere delle vincite. Sul bancone troneggiava una bottiglia di champagne francese, e un’altra riposava nel cestello del ghiaccio nell’acquaio. Gli uomini accolsero affabilmente il soprintendente Archer, benché lui ne avesse spediti due in prigione per tre anni e avesse messo nei guai gli altri quattro. C’era Roger «il Dritto», con la sua aria malinconica: un baro australiano che si guadagnava regolarmente da vivere con i dadi, benché usasse dadi puliti. Vinceva grazie ai dadi usati dal suo gonzo, che erano truccati e davano sempre punteggi bassi.

Il gioco d’azzardo di Jimmy «il Terribile» era ancora più onesto. Generalmente, Jimmy e i suoi compari perdevano forte con i gonzi. Sfortuna voleva che la bisca illegale di Jimmy subisse puntualmente una retata della polizia, che sequestrava carte, dadi e soldi. Di norma, le sue vittime erano ben felici di non farsi più vedere.

«Bertha, un bicchiere per il mio vecchio amico, il soprintendente Archer dello Yard».

L’ordine partì da quello che era chiaramente il capo. Indossava un costoso completo alla moda di tweed Donegal, la trama trapuntata di fili marroni e neri. Dal taschino spuntava un fazzoletto di seta color oro scuro, un tantino troppo appariscente. La faccia strideva con quell’insieme così accurato: il colorito era giallognolo e cereo, gli occhi piccoli e furtivi. E neanche i baffi si accordavano all’abbigliamento da gentiluomo di campagna: erano sottili e ben curati, del genere che un attore si sarebbe fatto crescere per interpretare un ruolo da sciupafemmine.

«Dacci un taglio, Arthur» disse Douglas. Stava per ribadire quanto detestasse essere chiamato Archer dello Yard, ma decise di tralasciare.

«Senza offesa, vecchio briccone» ribatté Arthur, strappando lo champagne al barista e rabboccando un bicchiere già colmo. «Si bagni l’ugola, soprintendente, è roba buona». Girò la bottiglia gocciolante per mostrargli l’etichetta.

«Ti credo, Arthur» rispose Douglas. Arthur, il re del tabacco, commerciava in vino e sigarette rubati. Lui e i suoi sodali stavano vivendo un periodo d’oro.

«Abbiamo saputo che lascia lo Yard e va a fare un lavoretto speciale per i crucchi».

«Spiacente di deludervi» ribatté Douglas. «Ma, a quanto ne so io, resterò in circolazione ancora per un po’». Sorseggiò lo champagne. «Molto buono, Arthur».

«Beva, la vita è un soffio» rispose Arthur.

«Ti sei dato ai motti di spirito?».

«No, io sono nel campo del tabacco, quello dello spirito è Scotch-Johnny».

I delinquenti scoppiarono a ridere e Bertha chiocciò. Persino Douglas sorrise.

«Bella battuta, Arthur» osservò Douglas.

«Si rilassi, soprintendente, è stata una giornata proficua... e assolutamente legale».

«Salute» disse Douglas, e bevve.

«Ora sì che riconosco il soprintendente Archer» disse Arthur.

Tutti brindarono. Anche Bertha sollevò il bicchiere da dietro la cassa, limitandosi a bagnare le labbra, come faceva chi viveva in mezzo agli alcolici.

«Quanto hai vinto, Arthur? Non ti facevo interessato ai cavalli».

«E ha ragione, soprintendente. Siamo arrivati fin lì per incontrare dei vecchi amici, e abbiamo piazzato una scommessa, ma quel che ho vinto non mi ha ripagato neanche il taxi». Arthur bevve nel modo convulso di chi deve ancora finire di raccontare. «La mia vecchia mamma – Dio la benedica e la conservi – dice sempre che l’istinto per le corse è quello che impedisce ai cavalli di scommettere sugli uomini... capisce?».

«La tua vecchia mamma ha un bel senso dell’umorismo» osservò Douglas, affabile.

«L’ha conosciuta» disse Arthur. «L’ha conosciuta, soprintendente. Qui, da Bertha: vigilia di Natale del 1938. La adora. Le ha offerto un porto e limone e le ha detto che io ero un gran lavoratore, onesto, che si era andato a impelagare con la compagnia sbagliata». Arthur rise talmente forte da rovesciare lo champagne sulla manica di Douglas. Gliela tamponò, senza smettere di ridere. «Ecco, le mie scuse più sentite, soprintendente. Ne prenda ancora. È roba buona, francese».

«Al contrario di tutto quello champagne francese che produci in un certo seminterrato che hai preso in affitto a Fulham».

«Suvvia, soprintendente... faccia il bravo. A ognuno il suo mestiere. Io non le insegno mica come acciuffare i cattivi».

«Se non hai vinto alle corse, cosa stiamo festeggiando? E da dove viene il denaro?».

Arthur notò che c’erano ancora delle macchie di champagne sulla manica di Douglas. Prese il fazzoletto di seta dal taschino e le asciugò. «È una cosa legale, soprintendente. Legalissima. Ha presente Sydney Garin?».

«Chi non lo conosce? Il piccolo mercante d’arte armeno».

«Il piccolo mercante d’arte tedesco, ormai» lo corresse Arthur. «Graf von Garin, famoso esperto di arte ariana». Risero tutti. In risposta, Arthur versò ancora champagne nei bicchieri. «Ebbene, Garin è entrato in società con Peter Shetland, che l’anno scorso, quando il padre è morto, è diventato duca di non so che. Peter Shetland, soprintendente, lo conosce: alto, magro, di tanto in tanto veniva a bere qualcosa qui».

«Sì, ricordo».

«Peter Shetland, che ora va in giro con un monocolo...», Arthur fece una smorfia, «è pappa e ciccia con i crucchi. E a quei mangiacrauti piace un tocco di classe! Sydney Garin è la mente e Peter Shetland il braccio, e i due se la cavano piuttosto bene».

«In cosa?».

«Compravendita di dipinti e tesori d’arte per i tedeschi. Quando un nazista al vertice pizzica una pala d’altare da una cattedrale in Polonia, è Garin a fungere da intermediario e ad andare in Svizzera o a New York per immetterla sul mercato senza troppe indagini sulla provenienza. Fanno i soldi, quei due. Cioè, alcuni di quei dipinti valgono un mucchio di sterline... e può immaginare la commissione che ci ricavano».

«Posso immaginare, sì».

«Tengono la refurtiva nella residenza di campagna di Peter Shetland, dalle parti di Newmarket. Un gran bel posto, ci ha dormito Elisabetta e roba del genere. Portano i crucchi a caccia e pesca per il fine settimana e gli vendono quella roba a vagonate».

«Ancora non capisco cosa c’entri tu. E come mai sto gustando questo splendido champagne».

«Lei ha una certa classe, capo, gliel’ho mai detto?».

«Non che mi ricordi, Arthur. Invece, ricordo distintamente le minacce che mi hai gridato dal molo, mentre andavi a scontare una pena di tre anni per lesioni personali aggravate a un allibratore».

«La mia natura esuberante» disse Arthur umilmente. «All’epoca ero giovane, soprintendente. Ora, come dicevo, lei ha classe. Se avessi lei a coprirmi e a tenermi lontano dai guai con la legge, farei affari d’oro».

Douglas ignorò quel tentativo di corruzione. «Hai venduto champagne a Sydney Garin?».

«Champagne? Almeno cinquanta casse. Stasera daranno il ricevimento più sfarzoso che questa città abbia visto in tutta l’estate. Soprintendente, se stasera si presenta a Portman Square, risolve la metà dei delitti insoluti di Londra».

«Potrei farci un pensierino, Arthur. Tu ci sarai?».

«Spiritoso! Mi chiamano “bottegaio”. Non mi farebbero passare dalla porta principale neanche per riscuotere i soldi dello champagne».

«È lì che Peter Thomas si procurava i pezzi per il suo negozio?» chiese Douglas d’impulso.

Arthur andò al bancone, afferrò un pacchetto di sigarette e tornò per riprendere la conversazione. «Scherza? Non esiste nessun Peter Thomas, ma questo lo sa di sicuro. Il nostro Sydney non si occupa di quel genere di merce. Garin e Shetland sono mercanti di belle arti, comprano e vendono pezzi da museo».

«E Peter Thomas?».

«Peter Thomas non è mai esistito. Peter Thomas è solo una facciata per la Resistenza. Usavano quel negozio per maneggiare il denaro e pagare la gente. Capitava che dei benintenzionati dessero loro dei pezzi antichi da vendere per la causa». Si girò e colse lo sguardo severo di Bertha. «Ormai è finita, Bertha, non c’è niente di male nel raccontare una storia vecchia».

«Quindi chi era il morto? Sembri parecchio informato».

«So solo quel che si dice in giro» ammise Arthur. Si lasciò sfuggire un piccolo rutto, aveva bevuto troppo. «Era il maggiore dei fratelli Spode, uno scienziato. Prima della guerra era coinvolto in quella follia della scissione dell’atomo. Pare fosse un geniaccio».

«E lavorava nel negozio di antiquariato?».

«Naaa! Tutti quegli scienziati sono stati acciuffati dai crucchi cinque minuti dopo l’invasione. Lo sa, soprintendente. Alcuni sono stati mandati a lavorare in Germania; altri, come Spode, progettano armi segrete per i crucchi qui, in Inghilterra».

«Spode?».

«Un grosso deposito tedesco di armi segrete nel Devon. Sembra stiano cercando di produrre un nuovo gas letale».

«A Bringle Sands?».

«Può essere. Ecco, ancora un bicchiere».

Douglas continuò a far parlare Arthur, ma presto capì che sapeva poco altro, e che quel che sapeva si avvicinava molto al puro pettegolezzo.

Telefonò a Sydney Garin nella sua residenza di Portman Square dal telefono di Bertha’s.

«Soprintendente Archer» disse Sydney Garin, morbido come la seta e due volte più scivoloso. «Quale incredibile coincidenza. Mentre parliamo, ho qui sul tavolo un pacchetto da mezzo chilo di tè di Ceylon che stavo per inviarle. So quanto gradisca una tazza di quello buono, e non avrebbe senso regalarlo a gente che vi aggiungerebbe latte e zucchero». Parlava con cura, esibendo un lieve accento.

«Molto cortese da parte sua ricordarsi di me, signor Garin, ma sa come la penso in merito a certi regali».

«La prego, non mi fraintenda, soprintendente» disse l’altro, senza scomporsi. «Questo è un dono personale del capo di una delegazione d’affari indiana appena arrivato a Londra. Ne ho ricevuto alcuni pacchetti da distribuire ai palati in grado di apprezzarlo».

«Forse potremmo berne una tazza insieme, signor Garin».

«Un duplice piacere, soprintendente».

«Ho saputo che stasera darà una festa».

«Una cosetta, rispetto ai fasti anteguerra. Ma sono stato tanto fortunato da incappare in cibi e bevande ormai rari».

«Ho appena finito di parlare con uno degli ostacoli in cui lei è incappato. Arthur, il re del tabacco».

«Ah, certo. Carina, questa, soprintendente. Arthur, sì, che splendido individuo. Ha fatto un paio di commissioni per me». Douglas sentì una voce in sottofondo mentre parlavano. Riconobbe il tono ben modulato di Peter Shetland, che, avendo finalmente letto il nome Archer scarabocchiato sul sottomano da Sydney Garin, disse: «Che diavolo vuole?».

Ma Sydney Garin aveva vissuto troppe situazioni pericolose per non sapere quando rassegnarsi all’inevitabile. «Senta, Douglas» disse, quando gli riuscì di recuperare il nome del poliziotto dai meandri della memoria, «perché stasera non passa di qui, a vedere come va? Incontrerà delle persone piacevoli e alcuni dei suoi superiori di Scotland Yard».

«Si direbbe una compagnia davvero eclettica» commentò Douglas.

«Molto arguto, Douglas». Sydney Garin rise. «Ah, ah. Che dice, riuscirà a passare?».

«Mi duole deluderla, signor Garin, ma penso proprio di sì. A quanto pare, le serve qualcuno che tenga d’occhio i diademi di diamanti».

«Non può lavorare ventiquattr’ore al giorno, soprintendente».

«Vorrei che lo spiegasse al mio capo».

«E chi sarebbe?» indagò l’altro, aspettandosi una nuova battuta.

«Il dottor Oskar Huth, SS-Standartenführer».

«Il ricevimento avrà inizio alle otto e trenta» disse Garin, la voce ormai serissima. «Abito da sera, ovviamente».

«O divisa?».

«O divisa, soprintendente, bella battuta. Ora però devo lasciarla. À tout à l’heure».

«Arrivederci, signor Garin» ribatté Douglas, in italiano.