Capitolo quattordici

Mentre il Tatler, il Queen e altri rotocalchi dell’alta società testimoniavano di come l’aristocrazia cittadina e terriera britannica festeggiasse i matrimoni e la maggiore età con panini al formaggio e birra artigianale, la disastrosa sconfitta aveva portato alla luce una nuova classe sociale. Shetland, l’algido nobile, e Sydney Garin, ex armeno, erano l’emblema dei ricconi emergenti. Insieme ai loro invitati.

«Buonasera, signor Garin. Buonasera, signora Garin».

La moglie di Garin – una donnina riservata con un corpetto tempestato di perle e diamanti e i capelli acconciati alla perfezione – sorrise, lieta che qualcuno l’avesse notata. Anche il figlio era presente, e sorrideva diligente a ogni nuovo arrivato.

Immancabili, i tedeschi: generali, ammiragli e appartenenti all’esigua amministrazione civile che – alle dipendenze del comandante in capo militare – controllavano l’Inghilterra occupata. E c’erano gli inglesi: membri del parlamento e del governo fantoccio, che avevano imparato a svolgere il loro ruolo nel nuovo superstato nazista che si estendeva su buona parte dell’Europa. Il primo ministro mandò le sue scuse: doveva tenere un discorso a un convegno di insegnanti tedeschi.

C’erano anche gli uomini di Whitehall: alti burocrati i cui dipartimenti funzionavano altrettanto regolarmente sotto la bandiera tedesca, di quanto non avessero fatto con il governo conservatore o socialista. C’era l’aristocrazia, inserita nell’elenco degli invitati con l’abilità apparentemente casuale che il giardiniere riserva ai boccioli che fioriscono in pieno inverno; nobili polacchi, francesi e italiani, accostati alla varietà locale. E, come sempre, c’erano gli uomini d’affari: individui capaci di procurare mille paia di stivali di gomma o cento chilometri di recinto elettrificato; tre croci e nove chiodi lunghi.

Era come quando si riemerge da un incubo terribile, pensò Douglas. Gli abiti eleganti di seta pregiata, i ricami preziosi, i completi da sera di sartoria degli uomini e le divise impeccabili dei camerieri furono un vero trauma dopo l’atmosfera cinica e crudele che, dalla sconfitta, aleggiava oltre il cancello in ferro battuto, il vialetto di ghiaia ben curato e il prato perfetto, scintillante e rosato alla luce morente della sera.

Persino le voci erano diverse: gli scambi briosi e gli atteggiamenti rilassati in quelle grandi sale accoglienti erano assai lontani dai toni attutiti e i movimenti furtivi ormai radicati nella vita degli inglesi. Ma, più di tutto il resto, a stupire Douglas fu la luce che inondava ogni singola stanza. Una luce dorata e intensa, che si riversava sulle modanature, sulle mensole di marmo e sui mobili in stile Adam, che scintillava sui lampadari di vetro intagliato e brillava dietro le bollicine di champagne a fiumi.

Era una casa magnifica, paragonabile alla residenza Portman, dietro l’angolo, arricchita di splendori tali da ricordare un museo. E, come un museo, era affastellata di oggetti troppo ravvicinati, che si misuravano in una mostruosa gara di bellezza.

In fondo alla sala da ballo, oltre due anticamere di dimensioni ridotte e oltre le porte a libretto decorate di fiori seicenteschi, c’era la ribalta. Lì, montato su una pedana costruita appositamente, avvolto con discrezione in velluto rosso, c’era un piccolo dittico fiammingo che Garin aveva recuperato a Ginevra. Solo per quella sera, lo si concedeva al piacere privato degli invitati. Il giorno dopo sarebbe stato imballato e inviato alla galleria d’arte del Reichsmarschall Göring, a Karinhall. In cambio, Garin e Shetland avevano accettato otto dipinti surrealisti «degenerati» che Göring aveva confiscato ai possessori non ariani.

Nella sala da ballo c’erano gruppi di ufficiali di medio livello, resi impacciati e goffi dalle uniformi e dalla mancanza di familiarità con l’inglese. Di tanto in tanto, qualche portavoce volontario si presentava davanti a questi gruppi e si comportava come un accompagnatore che accudisca un manipolo di turisti attempati. C’erano gli alti ufficiali, uomini maturi e sicuri di sé, con i capelli grigi tagliati corti e magari un monocolo e le mostrine dorate dell’ammiragliato appuntate sulle giubbe bianche, o con le bande rosse sui pantaloni, segno distintivo dei generali. Alcuni erano accompagnati dagli interpreti personali nella divisa speciale dei Sonderführer.

C’erano le ragazze. Rotondette, con un trucco eccessivo e costoso e abiti dalle profonde scollature e aderenti sul fondoschiena. Altrove, ragazze del genere probabilmente sarebbero passate inosservate, ma in quella compagnia discreta spiccavano come forse desideravano. Quelle ragazze avevano già imparato a mettere insieme qualche frase in buon tedesco e, quando la lingua le abbandonava, compensavano con un sorriso o una risata. I sorrisi e le risate abbondavano e le coppie che faticavano a conversare si lanciavano nelle danze.

Douglas individuò una rappresentanza dei nuovi salottieri londinesi, raccolta in un cerchio protettivo sotto una magnifica crocifissione di Cranach. La fortuna li aveva baciati la notte in cui un messaggio di agenzia tedesco aveva trasmesso la richiesta di cessate il fuoco di Churchill.

Ecco un uomo il cui modesto ristorante a Soho aveva venduto più di duemila bottiglie di champagne nella prima settimana di festeggiamenti. Ed ecco, in uno scintillio di diamanti, una vedova che un anno prima scremava il grasso e rattoppava lenzuola nel suo cadente albergo di terza categoria a Bayswater. Situata nei pressi di un grosso circolo per ufficiali tedeschi, la topaia si era trasformata presto in un luogo di incontri tra ufficiali e ragazze – niente domande, preferibilmente soggiorni brevi – fino a quando l’aveva venduto a un consorzio di uomini d’affari tedeschi per una cifra che rasentava il milione di sterline.

Tutti gli alberghi famosi garantivano agli azionisti dei dividendi notevoli, ma c’erano altri fortunati per i quali i tedeschi erano arrivati come la fatina di una favola. Pottinger – un tipo bruno con barba e baffi studiati per farlo apparire francese – si era indebitato fino al collo con i corsi di inglese per corrispondenza. Ora le sue entrate lo mettevano in imbarazzo ed erano talmente consistenti da costringerlo a cercare consulenze su come reinvestire.

Il tipo rubicondo con la camicia di merletto, il kilt e il calzettone con il pugnale tempestato di gemme, era il proprietario di una fatiscente distilleria di Argyll. Gli era bastato un contratto a lungo termine di approvvigionamento agli ufficiali della EVM tedesca per fondare una società per azioni e ritrovarsi ricco da un giorno all’altro. E l’ufficiale tedesco che aveva a sua volta tratto beneficio da quell’accordo aveva assunto il cognato dello scozzese come responsabile degli acquisti. Quest’ultimo procurava cavalli irlandesi e foraggio al comando meridionale dell’esercito tedesco (GB). E quella magnifica congerie di individui in grande spolvero conversava allegramente ai piedi del Cristo tormentato.

Douglas cedette il passo a un anziano colonnello diretto verso i tavoli del rinfresco. Era seguito da un bel giovanotto in abito da sera nuovo di zecca. Alcuni piloti della Luftwaffe scoppiarono a ridere; il colonnello arrossì, evitando di guardarli.

«È un meraviglioso acquerello di Turner, soprintendente». Douglas distolse l’attenzione dal dipinto che stava contemplando e salutò Peter Shetland. «Non molti sanno che Turner era capace di raggiungere un simile realismo. Quella macchiolina che passa sotto l’Arco è Napoleone. Sì, un vero pezzo da collezione». Shetland aveva acquisito da Sydney Garin il modo curioso di parlare di certi oggetti come se fossero stati già venduti alla persona che li stava osservando.

«L’ho già visto».

«Ah, che gran memoria. Un tempo apparteneva alla Tate Gallery, ma hanno talmente poco spazio, ed è un peccato lasciare che un simile capolavoro ammuffisca nei loro magazzini».

«È in vendita?».

«Tutti i musei sono stati costretti a sbarazzarsi di qualcosa» disse Shetland, facendo spallucce. «Tanto meglio, davvero. Che trovi un acquirente, intendo».

Douglas guardò il dipinto.

Shetland si toccò il naso lungo, sottile e ossuto fino a sfoderare un’espressione dispiaciuta. «I finanziamenti statali sono quasi azzerati, e non possiamo certo aspettarci che l’amministrazione tedesca sovvenzioni i nostri musei d’arte, le pare?».

«Santo cielo, no» rispose Douglas, in modo talmente brioso che Shetland lo scrutò, in cerca di una traccia di sarcasmo. Douglas Archer era famoso per l’ironia. «E voi fate da intermediari?» aggiunse.

«Ci è parso più pulito, igienico e pragmatico acquistare dai musei. Poi, a tempo debito, rivendiamo ai clienti».

«Con maggior profitto, immagino».

«Non sempre» rispose l’altro, con leggerezza.

«Sono stupito».

«Lei pensa da poliziotto» osservò Shetland, sorridendo.

«Preferisco credere di pensare da contabile» ribatté Douglas. All’altro capo della sala, vide Garin presentare David, il figlio diciassettenne, a un colonnello tedesco dell’ufficio legale.

Shetland si congedò con un sorriso di circostanza.

«Bravo! Fa piacere trovare qualcuno capace di controbattere».

Douglas si voltò e vide Barbara Barga, fasciata in uno splendido abito di seta grigia con il corpetto ricamato. «Salve, signorina Barga. Che bella sorpresa».

«Potrebbe farmi i complimenti per l’abito» disse lei. «È uno Schiaparelli, direttamente da Parigi, e mi è costato tre mesi di stipendio. Qualche lusinga sarebbe gradita».

«Sono strabiliato».

«Bel tentativo, soprintendente». Rise. Quando rideva era particolarmente bella, constatò Douglas.

Si voltarono verso la pista da ballo, dove diverse coppie danzavano su una magistrale versione per orchestra di Red River Valley, la melodia che saliva, modulata dolcemente dai sassofoni in sordina.

«Mi fa tornare ai tempi della scuola» disse lei.

«In America?».

«Wisconsin. Il mio ragazzo giocava nella squadra di football e aveva le chiavi della Chevy nuova del padre. Io prendevo bei voti e la mia sola preoccupazione era diventare una cheerleader».

«Le va di ballare?».

«Proviamo».

Barbara Barga non era una gran ballerina, ma si muoveva con grazia, era felice e pronta a innamorarsi. «Perbacco, come balla bene, soprintendente!».

«Non deve credere a tutto quel che legge sui piedi dei poliziotti. Un tempo danzavo spesso».

«Ho saputo di sua moglie. Terribile. E ha un figlio piccolo, per giunta».

«Non sono l’unico sfortunato. Quindi ha indagato su di me?». Non nascose di essere lusingato.

«L’altro giorno sono stata sciocca. Avrei dovuto chiederle di presentarsi, e scoprire così che avevo davanti Archer dello Yard, è stato solo più tardi, che... Non le secca che una giornalista d’assalto non l’abbia riconosciuta?».

«Evitare di essere riconosciuto fa parte del mio mestiere».

Lei sorrise e sussurrò qualche parola della canzone.

«Che ne è stato del giocatore di football del liceo nel Wisconsin?» chiese Douglas.

«L’ho sposato. Qualche progresso nell’indagine su quell’omicidio?». Prima che Douglas potesse rispondere, aggiunse: «Ma che diavolo... non mi ha certo invitata a ballare per parlare di ammazzamenti».

«Be’...».

Barbara Barga gli posò la mano sulle labbra. «Ora, se mi risponde di sì, mi offendo a morte, signore».

«È ancora sposata?».

«Così va meglio» disse lei, e gli si fece più vicina, il capo che gli sfiorava la spalla. Lui respirò il suo profumo. «Amo questa canzone, sa? No, non sono più sposata. Non più».

Canticchiò la melodia sussurrandogli le parole all’orecchio. «Non staccarti da me se mi ami. Di dirmi addio non aver fretta. Ma ricorda la Red River Valley e la ragazza che lì ti aspetta».

Barbara Barga era una donna molto attraente. Quella sera, il suo corpo morbido e giovane, la sua intelligenza acuta e il sorriso sereno risvegliarono in Douglas Archer pensieri che sarebbe stato meglio mantenere sopiti. I capelli lavati di fresco gli ondeggiarono sul viso e lui la tenne più stretta. Lei si girò di scatto e gli sorrise timidamente. «Douglas» sussurrò «non torni a casa senza di me, va bene?».

«Va bene» rispose lui, e continuarono a ballare in silenzio.

Se Douglas aveva pensato di poter passare la serata monopolizzando una delle donne più affascinanti della festa, dovette ricredersi appena la musica cessò. Alcuni giornalisti appena arrivati da New York la chiamarono dall’altro capo della sala, e Douglas la lasciò a parlare di lavoro con i colleghi, intanto che andava a recuperare due bicchieri di champagne.

Sgomitò oltre un chiassoso gruppo di ufficiali dell’Armata rossa che annusavano con sospetto il caviale, ma che trangugiavano fiduciosamente un bicchiere di whisky dopo l’altro.

«Due coppe di champagne! Non sarà un po’ troppo, soprintendente?». Era la voce allegra e profonda di George Mayhew.

«Uno è per mia madre, signore. Mi aspetta in strada».

«Mi pare di averla intravista. Indossa una divisa da SS-Gruppenführer?».

Douglas accolse con poca convinzione la battuta crudele sul fisico vagamente giunonico del generale delle SS Kellerman, ma si concesse l’ombra di un sorriso.

«È un piacere vederla, Archer». George Mayhew combinava la grazia naturale dell’atleta con il portamento del militare di carriera. L’abito da sera, quasi antiquato, era stato confezionato rispettando i canoni della tradizione e aveva un colletto rigido al posto di quello ripiegato che secondo Mayhew era più adatto ai membri di un’orchestrina da ballo. Aveva ancora i capelli folti e scuri, corti e pettinati indietro, ed esibiva i baffi arrotondati che si era fatto crescere nel 1914 per poter sembrare abbastanza maturo da assumere il comando di una compagnia. Questo prima di fregiarsi dei nastri da ufficiale, della croce al valor militare e della mostreggiatura.

Tra le due guerre, il colonnello George Mayhew era diventato una figura di spicco nell’ambiente crepuscolare in cui le riunioni del commissario di polizia coincidevano con quelle del controspionaggio. Lo si vedeva spesso a Whitehall: frequentava regolarmente Scotland Yard, gli Affari interni, gli Affari esteri e la Camera dei Comuni. Aveva giocato spesso nella squadra di rugby della polizia metropolitana, e raramente si perdeva una partita importante, mentre la sua interpretazione baritonale di Old Man River era il pezzo forte dei concerti della polizia.

«Come se la cava Harry Woods, ultimamente?» chiese. All’epoca in cui anche Harry faceva parte della squadra di rugby, Douglas Archer e George Mayhew si erano trovati a coprire lo stesso ruolo in squadra.

«A fatica».

«Facciamo tutti fatica» ribatté Mayhew, strofinandosi le mani come se avesse improvvisamente freddo. Mayhew aveva sempre provato un affetto speciale per Harry Woods e la sua schietta filosofia da «sbirro di paese». Scrutò Douglas, notò l’abito da sera preso a noleggio e cercò di calcolare a che titolo quel soprintendente di polizia partecipasse alla serata di gala. Non si trattava solo di un’occasione per assaporare caviale e champagne: nessuno che conoscesse Douglas Archer, nemmeno i suoi nemici malviventi, l’avrebbe mai pensato.

«L’età gioca un ruolo importante» disse Douglas. «Per la generazione di Harry non è facile passare di colpo dal cuore di un impero all’avamposto di una colonia occupata».

«Povero vecchio Harry. Immagino che andrà presto in pensione».

«Con la pensione da sergente non si vive bene».

«Le cose cambieranno» disse Mayhew, come se avesse motivo di crederlo. Sorseggiò lo champagne. «Ma solo con il nostro impegno».

«Cosa dovremmo fare, signore?».

«Vuole proprio saperlo, Archer, ragazzo mio?».

«Sì».

«Ne potremmo parlare... più tardi?».

«Certo».

«Vorrei presentarle alcune persone».

Douglas annuì e controllò cosa stesse facendo Barbara. Il colonnello Mayhew se ne accorse, e disse: «Bel colpo, ragazzo. La signorina Barga pensa che i poliziotti di Londra siano fantastici».

«La conosce?».

«È un vero bocconcino, Archer... se avessi qualche anno in meno, le darei del filo da torcere». Douglas lo guardò, stupito. Mayhew si chiese se non avesse urtato il soprintendente e si affrettò ad aggiungere: «Niente di personale, Archer».

«Aspetto con ansia di vederla più tardi, signore».

Archer trovò che la serata scorresse più piacevolmente di tante altre cui aveva partecipato. Ballò con Barbara, mangiarono aragosta e concordarono sul fatto che Manet fosse meglio di Rubens, che le bollicine dello champagne facessero pizzicare il naso e che Londra non fosse più quella di una volta.

Fu Bernard Staines a raggiungere Douglas per comunicargli che il colonnello Mayhew lo stava cercando. Bernard era stato timoniere nella squadra di canottaggio dell’università quando lui ne era il campione. Aveva lo stesso fisico da volatile di allora, ma il contegno serioso, le spalle curve e gli occhiali avevano trasformato la cutrettola in un barbagianni.

«Non ti si vede mai a Oxford e a Cambridge, Douglas». A differenza di tanti vecchi compagni di Oxford, Bernard non lo chiamava mai Archer.

«Mi sento fuori posto, a dire il vero. Questi sono giorni in cui la gente vuole frequentare il proprio circolo e lasciarsi andare, senza doversi preoccupare dell’orecchio indiscreto di un poliziotto».

«Chiunque pensi che esista un solo posto in questa città in cui ci si possa sfogare senza che un poliziotto stia ad ascoltare è pazzo» osservò Bernard, con la stessa voce bassa e diffidente che aveva ingannevolmente indotto tanti a contraddirlo, sia all’università che in sala di consiglio.

«Hai ragione, Bernard. E assicurati di non dimenticarlo mai». Bernard fu lieto di essersi guadagnato l’approvazione dell’amico. Come molti che avevano raggiunto la posizione sociale cui era arrivato lui, rimpiangeva di non aver usato le proprie competenze in modo più scientifico. Il soprintendente investigativo Douglas Archer incarnava quelle nebulose ambizioni non realizzate e, benché Douglas ne fosse all’oscuro, Bernard invidiava e ammirava il suo amico.

La magione del diciottesimo secolo ospitava porte nascoste e scale anguste che permettevano ai servitori di spostarsi, silenziosi e invisibili, nei suoi meandri. Un valletto in livrea si fece da parte, mentre un altro apriva una porta mimetizzata ritagliata nel rivestimento della parete. Bernard fece strada per le scale. Al secondo piano c’era un altro domestico, un tipo alto e possente, con il naso schiacciato che spesso veniva associato ai lottatori professionisti.

«Mi è stato detto che si gioca a carte» disse Bernard.

Il tipo andò con lo sguardo da Bernard a Douglas prima di rispondere. «Sì, signore. L’altro gentiluomo è già qui». Si scansò e alle sue spalle comparve George Mayhew.

«Tutto a posto, Jefferson» disse il colonnello al domestico. «I signori sono con me».

I tre uomini percorsero un corridoio in ombra, oltrepassarono una grande sala da biliardo e diverse stanze con i mobili coperti di polvere. Douglas non dubitava affatto che quei luoghi un tempo avessero ospitato un giro di gioco d’azzardo illegale con poste altissime, difficile da individuare o sgominare. La sala in fondo al corridoio era illuminata. Mayhew li condusse all’interno.

La luce proveniva da una sola lampada ad arco, con il paralume di vetro verde. Proiettava un cono di luce gialla su un tavolo da gioco, lasciando il resto della stanza in una misteriosa giungla verdeggiante e tetra su cui si affacciavano le teste decapitate di enormi erbivori. Seduta all’antico tavolo da gioco, il volto inondato di luce riflessa, si stagliava l’inconfondibile sagoma di Sir Robert Benson. Douglas lo conosceva solo di fama: un uomo potente nelle sale di Whitehall, che schivava qualsiasi pubblicità e vinceva ogni diatriba senza mai alzare la voce. Di recente, Douglas aveva sentito parecchi chiedersi come facesse l’augusto Sir Robert a sopportare la sua nuova posizione, ridotto com’era a una specie di passacarte per il commissariato generale per l’amministrazione e la giustizia tedesco, che aveva inglobato gli uffici più vitali degli Affari interni. Douglas si chiese se quella serata non avrebbe fornito una risposta all’interrogativo.

«Bridge?» propose il colonnello Mayhew, prendendo il mazzo di carte. «Un penny a puntata?».

«Chi avrebbe mai immaginato che sarebbe arrivato il giorno in cui sarei stato costretto a cominciare una serata come questa con un mazzo di carte usate?» rifletté Sir Robert. Poi rise e disse: «Archer. Non vorrei nessun altro qui, stasera». Strinse la mano di Douglas con una presa ferma e breve.

«Grazie, Sir Robert. Ne sono lieto».

Una risposta cauta, che gli altri non mancarono di notare. Douglas si rivolse al colonnello Mayhew. «Credo che il mio bridge metterebbe a dura prova persino le note capacità di sopportazione e diplomazia di Sir Robert. Soprattutto se dovessi capitargli come compagno».

Sir Robert, che gli stava seduto di fronte, sorrise tetro.

«Whist, allora» disse Mayhew, come se si trattasse di una decisione di vitale importanza.

«Meraviglioso» commentò Sir Robert, senza entusiasmo. «Non ci gioco da quando ero in trincea».

Bernard Staines mescolò le carte, fece spaccare il mazzo a Douglas e poi cominciò a distribuirle. «Di solito giochiamo per soldi. Rende tutto più...» esordì, prima di fare spallucce e sorridere.

«Più divertente» intervenne Mayhew, da dove si trovava, in piedi.

«E inoltre...» disse Sir Robert.

«Il soprintendente capisce» tagliò corto Mayhew.

«Ma certo» disse Sir Robert.

Douglas annuì. Capiva che se si stava dando vita a una cellula della Resistenza e ci si incontrava regolarmente a un tavolo da gioco con dei soldi impilati davanti, si poteva far credere che il segreto che si stava celando fosse solo quello del gioco d’azzardo.

Mayhew si girò verso il buffet dove, a malapena visibile nella luce fioca, c’era un vassoio con quattro bicchieri e una brocca di vino. Il maggiordomo aveva lasciato la bottiglia vuota accanto al vassoio. Mayhew la prese e lesse l’etichetta prima di rimetterla a posto. «Sydney ci ha procurato un paio dei suoi Château Lafite del 1918». Prese la brocca e versò il vino con ossequio.

«Davvero urbano da parte sua» osservò Bernard. «Un bicchiere di bordeaux è quel che ci vuole. Temo che lo champagne mi procuri una certa acidità».

«Lo champagne è per i giovani» sentenziò Sir Robert. «Il bordeaux è l’unica bevanda per uomini della mia età».

Mayhew si volse a favore di luce, per poter scrutare il vino. Lo versò. «Sydney Garin è un brav’uomo» disse.

Douglas sapeva che era un’osservazione a suo esclusivo beneficio, ma non rispose, né Mayhew sollevò lo sguardo. Mayhew era lo stereotipo degli ufficiali che Douglas aveva conosciuto, uomini che condividevano la stessa postura: collo teso e mani frenetiche. Douglas sospettava che, persino in caso di ubriachezza assoluta, Mayhew avrebbe avuto il mento in dentro e i pollici persi nel tentativo di allinerarsi alle cuciture dei pantaloni. Erano uomini che non si rilassavano mai.

In quel quartetto, l’unico fuori posto sembrava Bernard: era delicato, tendente al paffuto, con le mani candide e i modi incerti. Si tolse gli occhiali con la montatura di corno e li pulì con il fazzoletto di seta che prese dal taschino. Mayhew gli mise davanti un bicchiere di vino. Bernard batté le ciglia e annuì per ringraziare.

Sir Robert assaggiò. «Buono, direi» dichiarò guardingo. Non era un’annata da cui si aspettasse troppo, ma si vantava di mantenere sempre la mente aperta. Sorrise, del genere di sorriso che elargisce chi è poco avvezzo a farlo. Aveva lineamenti duri e granitici, eccezion fatta per i capillari sulle guance e sul naso. I capelli erano canuti e tanto lunghi da arricciarsi dietro le orecchie e sul collo. La fronte bassa e le sopracciglia cespugliose vicine all’attaccatura dei capelli. E, sotto le sopracciglia folte, le orbite erano talmente infossate e bordate di scuro che gli occhi quasi si inabissavano nell’ombra densa.

Sir Robert Benson aveva sessant’anni, ma l’energia di un uomo molto più giovane. Si diceva che fosse capace di restare sveglio per diverse notti di seguito, senza perdere un briciolo di efficienza. Ma a rivelare la mente acuta erano solo gli occhietti azzurri, perché si muoveva con lentezza deliberata, come un invalido. Parlava con tono rude, quasi burbero.

«George era a Harrow con il mio fratello più piccolo» disse, indicando il colonnello Mayhew. «Erano due bei furfanti, a quel che so... avevano organizzato un giro di scommesse, quindi si faccia un’idea di quel che l’aspetta».

«E l’altro fratello di Sir Robert era a Harrow con Winston» disse Mayhew.

«Sir Robert» intervenne Bernard «è vera la voce secondo cui Winston Churchill sarebbe stato giustiziato?».

Sir Robert annuì, grave. «Processato da un tribunale militare segreto nel quartier generale della prima flotta aerea della Luftwaffe, a Berlino. Gli avevamo tutti sconsigliato di indossare quella maledetta divisa della RAF, ma non ci ha dato ascolto». Sir Robert sospirò. «E così, ha offerto ai tedeschi il pretesto legale per portarlo davanti alla corte marziale». Prese le carte che aveva davanti e le dispose senza vederle. «Alcune tra le massime cariche politiche britanniche ne sono state già informate, ma l’annuncio ufficiale dell’esecuzione verrà ritardato di un po’». Batté le carte sul tavolo.

«Sta dicendo che Churchill è morto?» chiese Bernard.

Sir Robert si grattò la testa, prese le carte di Bernard e guardò anche quelle. Gli altri tre videro quel che aveva fatto ma evitarono di farglielo notare. «Fucilato! Da un plotone della Luftwaffe nella caserma del Berlin-Lichterfelde. L’esecuzione marziale è avvenuta su dispensa speciale del Führer» aggiunse seccamente Sir Robert. «Dicono che Winston abbia rifiutato la benda, e che abbia alzato le dita in segno di vittoria. Mi piace pensare che sia vero». Sistemò le carte di Bernard in base al seme. «Allora, cominciamo? Cosa stiamo aspettando?». Guardò gli altri tre e poi le carte sul tavolo, prima di rendersi conto di aver preso quelle sbagliate. «Oh! Che idiota sono!».

Il colonnello Mayhew radunò le carte, parlando in fretta per coprire l’imbarazzo di Sir Robert. «E il giovane Bernard, qui, è sposato con la cugina di mia moglie. Ragazzaccio fortunato... è una bellissima donna».

«Siamo cresciuti insieme» disse Bernard. «La mia famiglia trascorreva l’estate in Scozia; i suoi parenti avevano una fattoria in zona».

«Ahimè, ormai tutto è andato perduto» constatò Mayhew. «Le fattorie sono in stato di abbandono e i campi in rovina».

«E nel condurre la sua compagnia sulla linea del fronte, prima della battaglia di Amiens nel 1918, Sir Robert è subentrato a mio padre, che comandava un’altra compagnia» aggiunse Bernard.

Esercito, famiglia, scuola: fili intricati che univano l’alta società britannica più strettamente del denaro e degli affari. Gli oltranzisti di destra o di sinistra sentono il bisogno di descrivere costantemente la fede che li accomuna. Ma per questi uomini, e altre migliaia come loro, il mezzo era il fine: il gioco di squadra era più importante della partita stessa, sempre che si giocasse tra affini.

«E io ero con Douglas a Oxford» disse Bernard, inserendo l’amico nel cerchio. «Quanto ti ho invidiato per la laurea in discipline umanistiche mentre io ancora mi incaponivo sul diritto continentale».

Sir Robert fissò Douglas abbastanza a lungo da farlo sentire vagamente a disagio. «Ho conosciuto suo padre, Archer» si decise a dire.

«Davvero, signore?». Il padre di Douglas era morto quando lui era ancora un bambino. «Quando?».

«Siamo stati grandi amici, dal 1916 fino alla sua uccisione. Suo padre aveva ventott’anni quando l’ho conosciuto: troppi per essere un subalterno di fanteria. Lo so bene, perché avevo lo stesso grado e dieci anni più di lui». Sir Robert fece una risata asciutta. «Eravamo i matusa del battaglione; i più giovani erano sempre costretti a districarci dal filo spinato e a farci sedere per riprendere fiato mentre avremmo dovuto seguire l’addestramento. Suo padre era un ingegnere civile, giusto?».

Douglas annuì.

Sir Robert proseguì. «Avrebbe dovuto essere con i genieri, ma gli pareva di deludere il battaglione. Si è meritato la Victoria Cross almeno una decina di volte, suo padre, lo sapeva? I suoi uomini ne erano consapevoli, e il sergente maggiore della sua compagnia lo venerava».

«Mia madre ha ricevuto una lettera dal sergente maggiore» confermò Douglas. «La conserva ancora».

«Avrei dovuto dirle queste cose tanto tempo fa» si rammaricò Sir Robert «ma mi pareva troppo sfacciato irrompere nel privato altrui. E non ero sicuro che desiderasse parlare di suo padre».

«Lo apprezzo molto».

«Sarebbe stato fiero di lei. Archer dello Yard, la chiamano, giusto?».

«Temo di sì, signore».

«Be’, al giorno d’oggi va così. Risolvere un paio di omicidi non è certo un danno per le forze dell’ordine. Tanto vale che lo si legga sui giornali».

«Sono certo che abbia ragione, signore».

Mayhew arruffò le carte. «Vuole giocare, Archer? Sicuro?». La domanda andava ben oltre una partita a carte.

«Una mano».

«Spaccate per il compagno» disse Mayhew, posandogli le carte davanti. Douglas alzò e scoprì il due di picche. Sir Robert pescò la stessa carta, e gli altri giocatori due figure.

Calò il silenzio, poi Sir Robert disse: «Siamo in coppia», con lo stesso tono usato per annunciare la morte di Winston Churchill.

Mayhew aprì con il quattro di cuori, Douglas calò il sette, Bernard il re e Sir Robert prese la mano con l’asso.

«Rimpiango di non aver studiato legge» disse. «Una laurea con lode in storia non mi è di grande aiuto quando cerco di districarmi nella selva di regolamenti tedeschi. Uno dei miei subalterni oggi mi ha detto che i membri della Gestapo sono immuni all’arresto. Non sarà mica vero?». Nessuna risposta. «Archer, lei queste cose le sa di sicuro. Che ne dice?».

«No, Sir Robert. Nessuno è immune all’arresto nel sistema tedesco. Probabilmente la persona con cui ha parlato si riferiva al fatto che i membri delle SS possono essere processati solo dai loro tribunali. Ma la Gestapo non fa parte delle SS».

«Ah» esclamò Sir Robert. Regnavano i fiori, e lui aprì la mano, inarcando le sopracciglia quando la regina di Douglas cadde sul suo asso. Esaurito il seme, conquistò quattro mani con il suo seme lungo, i quadri. Vinsero la partita dieci a tre. «Spiacente per la sua regina» disse. «Mi è toccato sacrificarla. Ho dovuto essere spietato».

Mayhew continuò a parlare, mentre dava le carte. «Davvero? La Gestapo non fa parte delle SS?».

«Nient’affatto. La Gestapo fa parte delle forze di polizia. Alcuni uomini della Gestapo sono anche membri delle SS, alcuni fanno parte del partito nazista, altri non sono né l’uno né l’altro».

«Mi faccia capire» disse Mayhew, protendendosi. «Il corpo delle SS non fa parte del partito nazista?».

«Tecnicamente parlando, sì. Su ogni carta di identità delle SS c’è l’intestazione Schutzstaffel der NSDAP, ma di fatto non c’è nessun vero collegamento. E le SA – le camicie brune – prendono ancor più le distanze dal partito».

«Il che spiega molte cose» commentò Mayhew, meditabondo. «E l’SD, di cui fa parte il suo capo, Huth?».

«Sono i servizi segreti dei nazisti. Una conventicola selezionata, gli unici cui sia permesso di curiosare nelle vite di chiunque altro» disse Douglas. «Fanno quel che vogliono».

«Tranne con la Wehrmacht» disse Bernard.

«Esatto, le forze armate tedesche hanno un sistema legale a parte. Nessun membro della Gestapo, o dell’SD, può muovere accuse dirette a un soldato». Douglas calò una carta bassa.

«Avanti» disse Sir Robert. «Stiamo facendo una partita, qui». E vinse la mano. «Sono lieto di questa conferma. Alcuni rappresentanti delle forze armate ci sono stati d’aiuto. Con la Gestapo alle calcagna, forse dovranno muoversi con maggiore circospezione».

Douglas annuì. Gli sarebbe tanto piaciuto sapere in quale situazione Sir Robert aveva fatto ricorso all’aiuto dell’esercito tedesco, ma non si azzardò a indagare.

«E che mi dice di quei tipi con i gradi onorari delle SS, o degli ufficiali delle SS impiegati nell’amministrazione civile?» chiese Sir Robert. «Ne abbiamo diversi che lavorano con noi. Anche loro rispondono solo al sistema giuridico delle SS?». Spinse la sua scatola di sigari verso Douglas, che ne prese uno e ringraziò con un cenno del capo.

«Himmler è al comando dell’organo di polizia e delle SS» spiegò. «Quindi la decisione spetta a lui. In ogni caso, gli uomini impiegati nelle SS a tempo ridotto sono soggetti al tribunale civile ordinario». Accese il sigaro e diede un paio di boccate prima di proseguire. «Ma Himmler usa i gradi onorari delle SS per comprare i suoi antagonisti e imbavagliarli. Alcuni di questi uomini sono suoi acerrimi nemici».

«Cielo, ho vinto la mano» disse Mayhew. Proseguì, senza interrompersi. «Cosa pensare di quel tipo, il contrammiraglio Connolly?». Una domanda buttata lì, ma Douglas sapeva che gli altri avevano già affrontato l’argomento.

«Un tipo imperturbabile, a quel che si dice. Sbarcare da una portaerei a Halifax, in Nuova Scozia, e autoproclamarsi capo della “Britannia Libera” è prova di un’audacia straordinaria». Douglas fece una pausa. Tutti gli altri parevano concentrati sulle carte. Continuò. «Soprattutto quando – stando al servizio di propaganda tedesco – Connolly non è altro che un comandante della marina».

Sir Robert calò l’ultima briscola. «Il resto è tutto nostro, mi pare». Scoprì le carte.

«A qualcuno torna in mente quell’ufficiale dell’esercito francese, De Gaulle, che è fuggito qui, in Inghilterra, quando la Francia è caduta? Ha fatto più o meno la stessa cosa, se ben ricordo; si è autoeletto generale e ha dichiarato di essere la voce della Francia. Senza ottenere nulla. A quanto ne so, i tedeschi non si sono neanche scomodati a inserirlo tra i ricercati principali» disse Douglas.

«Si sbaglia, sa?» lo apostrofò Sir Robert con grazia. «Connolly ha seguito le istruzioni del gabinetto di guerra. È stata un’idea di Winston, quando lui stesso, alla fine, si è rifiutato di salire su uno degli idrovolanti diretti in Islanda. La promozione di Connolly al grado di contrammiraglio è stata firmata dal re in persona. L’ho vista io stesso. E benché nel comunicato stampa diffuso da Goebbels si sostenga che Connolly si sia rivolto al Congresso dichiarandosi capo della “Britannia Libera”, il Registro del Congresso riporta che ha preso la parola in qualità di portavoce della nazione britannica e ministro della difesa, nominato dal gabinetto e designato dal re. Alla fine del suo discorso ha ripetuto di essere un suddito leale di Re Giorgio e di tutti i suoi successori legali».

«Ma quanta gente su questa sponda dell’Atlantico sa la verità? E quante probabilità esistono che la sappia mai?» intervenne Douglas.

«Questione di poco conto» disse Sir Robert. «Il nostro scopo principale è quello di proteggere la posizione del contrammiraglio Connolly a Washington da procedimenti legali o dall’ufficio del protocollo. La scorsa settimana ha dovuto sventare alcuni tentativi di invasione dell’ambasciata. E i tedeschi hanno inviato i loro avvocati migliori in America».

«A tutt’oggi, il caso è ancora aperto. Se i tedeschi si impadroniranno dell’edificio, sarà un duro colpo per il prestigio di Connolly a Washington» aggiunse Bernard.

«Quindi siete in contatto con lui?» chiese Douglas. Non riuscì a dissimulare lo stupore nella voce.

Nessuno rispose. Dopo aver rifiutato i sigari Upmann di Sir Robert, Mayhew prese tempo ad accendere uno dei suoi Romeo y Julieta. Bernard! pensò Douglas. Doveva essere lui, il corriere.

Continuarono a giocare, scambiando di tanto in tanto una parola gentile, come fa chi è totalmente immerso nelle carte ed esclude tutto il resto. Sir Robert era l’unico che giocava con l’acribia di chi non ama perdere.

«La Torre di Londra è un tantino sguarnita, ultimamente» buttò lì Mayhew, come se stesse valutando l’affluenza di pubblico a un’amichevole contro l’Australia.

Ecco qua, pensò Douglas, Huth aveva ragione. Quegli uomini progettavano la fuga del re. «Il battaglione operativo di sicurezza delle SS è di stanza lì» disse.

Gli occhi di Sir Robert si aprirono di un infinitesimo. Mayhew si concesse un accenno di sorriso. Se il soprintendente Archer non stava sottintendendo che si sarebbe sottratto a qualsiasi tentativo di affrontare i soldati delle SS, il suo era quantomeno un caldo invito alla cautela.

«Se il re fosse libero e in grado di confermare pubblicalmente il rango e il ruolo di Connolly, la posizione dell’Inghilterra nel mondo cambierebbe» osservò Bernard.

Davvero? si chiese Douglas. Era tanto cinico da sospettare che sarebbe servito solo a cambiare la posizione di Connolly e dei suoi sodali. Guardò gli altri tre, infastidito dalla cortese altezzosità dei loro modi. «Non starete seriamente ipotizzando un assalto alla Torre di Londra?».

I tre si agitarono, a disagio. Poi Mayhew disse: «Con tutto il rispetto, Sir Robert, e contrariamente a quanto stabilito nelle nostre precedenti conversazioni, saremo costretti ad aggiornare il soprintendente».

«Ci stavo giusto pensando» rispose Sir Robert.

Bernard tacque. Evitò di sottolineare che era quanto lui stesso aveva suggerito.

«L’esercito tedesco ci aiuterà come potrà, sempre che non si debba entrare in conflitto» disse Mayhew.

«Perché mai?».

«Ritengono inaccettabile per l’onore della Germania che il re d’Inghilterra sia posto in custodia sotto il controllo delle SS».

«E la fuga del re dalla loro custodia farebbe cadere le SS in disgrazia, rafforzando il potere del comandante in capo dell’esercito sul territorio britannico» aggiunse Sir Robert.

«Non solo sul nostro territorio» ribadì Mayhew. «Le ripercussioni arriverebbero a Berlino. In questa vicenda, possiamo contare sul sostegno dello stato maggiore».

Douglas annuì. Per quanto assurdo apparisse ai britannici, il ragionamento calzava con quel che aveva sperimentato e sapeva dei tedeschi. «Penso di potervi fornire un alleato ancor più illustre» disse. «Credo che lo SS-Standartenführer, dottor Oskar Huth, darebbe la sua benedizione a tutta la faccenda».

«Huth?» si stupì Mayhew. «Perché?».

«Kellerman è l’ufficiale delle SS più alto in grado in Inghilterra, e anche il capo della polizia. Se il re sfuggisse alla sua custodia, verrebbe inevitabilmente liquidato. Credo che Huth ambisca alla posizione di Kellerman, ma i due provano un odio talmente velenoso l’uno nei confronti dell’altro, che l’ambizione passa in secondo piano».

«Mi prenda un colpo!» esclamò Sir Robert.

«Per me ha una sua logica» disse Mayhew. «Con un tipo del genere disposto a chiudere un occhio, le cose si semplificherebbero parecchio».

«Prossima mossa?» chiese Sir Robert. «Potrebbe sondare il terreno con Huth?».

«Non senza fare nomi» rispose Douglas. «Sarà opportuno nominare qualcuno dei vostri che funga da tramite».

«Troppo rischioso» osservò Mayhew. «E se fosse una trappola?».

«C’è poco da fare ipotesi» ribatté Douglas. «Potrebbe essere una trappola, eccome».

«Fungerò io da tramite. Vale la pena di correre il rischio» si offrì Bernard. «Cosa devo fare?».

«Niente» rispose Douglas. «A me serve solo il nome di un vostro portavoce. Ma riflettici un poco, Bernard. Sir Robert e il colonnello Mayhew potrebbero ritenerti troppo prezioso per esporti in questo modo».

«Proprio così» disse Sir Robert. «Spiacente, Bernard, ma non posso permetterlo». Sulla stanza calò un lungo silenzio. La discussione era conclusa.

«Ebbene, fatemi sapere» disse Douglas. «Ovviamente proteggerò l’intermediario come meglio potrò».

Mayhew raccolse le carte con decisione. «Chiudiamo la partita».

Douglas controllò l’orologio. «Dovrei andare».

«Un attimo, prego» intervenne Sir Robert. «Questi signori ci devono dei soldi».

Seguì un passaggio di mano di centesimi. Douglas diede la buonanotte a Sir Robert, poi Bernard e Mayhew lo scortarono nel corridoio buio. Si fermarono in cima alle scale. «Buonanotte, Archer» disse Mayhew, indugiando come se mancasse qualcosa.

«Non mi ha chiesto di lasciar perdere l’indagine sull’omicidio di Shepherd Market» disse Douglas.

Mayhew ebbe un sussulto. «Sarebbe meglio per tutti gli interessati» disse.

«Incluso il sottoscritto?».

«Alla lunga, sì». Sorrise. «Sapeva già cosa stavo per dire?».

«Sembra che metà della popolazione di Londra si preoccupi che io possa risolvere il caso. Non vedo perché lei dovrebbe fare eccezione».

Il sorriso sul volto di Mayhew era fisso come una maschera di cartapesta da due soldi. «Ebbene, ci rifletta su, Archer».

«L’ho già fatto. Buonanotte». Non gli strinse la mano.