Capitolo diciassette

Douglas si era appena addormentato, che il pensiero di Jimmy Dunn si insinuò nel suo sonno, turbandolo. Cosa ne era stato della foto nella busta marrone da cui era partita l’indagine di Dunn?

Si sollevò a sedere, ormai del tutto sveglio. Dove nasconderei una busta con un indirizzo? si chiese. Ma certo, la buca delle lettere più vicina. Era un’ipotesi azzardata, ma Douglas sapeva che non si sarebbe dato pace se non avesse controllato. Guardò la sveglia sul comodino. Era già troppo tardi per intercettarla all’ufficio smistamento. A quell’ora, ormai, era in viaggio verso la sua destinazione.

Mafeking Road, dove lo Spode più giovane era vissuto, aveva qualcosa di minaccioso. Il nome della via ricordava un successo militare e, a inizio secolo, era stato inserito nei dizionari britannici come sinonimo di festeggiamento gioioso. Lì, però, la gioia latitava, e l’odonomastica tradiva l’età delle sudicie casette di mattoni rossi.

Non c’era cancello. Era stato requisito durante una delle raccolte di metalli che si erano fatte sempre più pressanti con il trascorrere dei mesi. Tra le rovine della vicina casa bombardata erano stati piantati dei cavoli, ma, a raccolto ormai concluso, le piante marroni erano marcite, soffocate dalle erbacce.

Douglas non trovò nessun campanello, e bussò forte sull’asse inchiodata davanti alla finestra del salotto. Passarono quasi cinque minuti prima che qualcuno rispondesse, ma alla fine gli aprì un tizio grasso e non rasato in canottiera lurida e pantaloni di velluto a coste. Sbadigliò, tirò le bretelle e disse: «Sì, che c’è?».

«Sono già stato qui. L’insegnante al piano di sopra, Spode».

«E adesso che vuole?»

«Entrare» rispose Douglas.

«Prima mi dica di cosa si tratta» insisté il ciccione, senza retrocedere di un millimetro.

Douglas posò la mano sul ventre dell’altro e spinse. La mano quasi scomparve nella carne flaccida, prima che il tipo si muovesse. «Mio caro poltrone, non vorrà mica lambiccarsi il cervello sul motivo della mia visita?» celiò Douglas. «Torni pure a dormire comodo comodo».

«Sono in piedi da ore» si risentì il ciccione. Douglas lo oltrepassò, attraversò il corridoio e aprì la porta del piccolo santuario ben illuminato e caldo da cui era uscito il ciccione. Odorava di corpi non lavati e di cavoli stantii. Si guardò intorno. La credenza massiccia ospitava un assortimento di piatti, tazze e piattini, conti da pagare, una confezione di pastiglie di aspirina consumata a metà, un bicchiere di vetro con dentro i pezzi di un orologio da taschino rotto, un apriscatole e una legione di mosche morte. Sul ripiano più in alto, c’era un calendario macchiato di escrementi di mosca, aperto su una veduta del Monte Snowdon e sul mese di ottobre 1937.

In un angolo, un letto sfatto senza lenzuola, con un cuscino colorato al posto del guanciale. Sul letto, un numero del fumetto Dandy. Su una sedia, a poca distanza dal letto, un vassoio con i resti di un’abbondante colazione; macchie di uova e una mezza dozzina di cotenne di pancetta. C’era solo un tavolinetto pulito e in ordine, con le penne e le matite sistemate accanto a un foglio di carta assorbente azzurra. Dietro al telefono, uno schedario con l’etichetta «Contributi Mafeking Street, 1941». Tuttavia, a dominare su quella stanza caotica era il fuoco di carbone che ardeva vivace, visione assai rara, dati i tempi ingrati.

«Fuori stamattina fa un freddo del diavolo, vero sergente?» disse il ciccione.

«Soprintendente» lo corresse Douglas. «Soprintendente investigativo Archer, di Scotland Yard». La radio con l’altoparlante a forma di sole nascente trasmetteva la replica di un’intervista del programma In città stasera. Douglas la spense.

Il ciccione ruttò e raccolse l’energia necessaria per massaggiarsi ruvidamente le braccia nude, prima di tornare a controllare la porta per accertarsi che fosse ben chiusa e che non entrassero spifferi dal corridoio. «Soprintendente, certo, è quel che volevo dire. Soprintendente».

«È entrato qualcuno nella stanza al piano di sopra?» si informò Douglas, a caccia di tracce della posta del mattino. Quel tizio era un «guardiano di quartiere». I tedeschi si erano impadroniti dell’organizzazione contro le incursioni aeree per tessere una rete di agenti del partito nazista simile a quella che avevano in Germania. Questi uomini venivano usati per distribuire buoni pasto supplementari, la posta dai campi di prigionia, aiuti per l’inverno e i tagliandi per la minestra ai bisognosi. Ci si aspettava che, in cambio del potere e dell’influenza acquisiti, i «guardiani» collaborassero, segnalando gli «elementi antisociali». Parte essenziale di quella collaborazione consisteva nell’attento esame della posta dei vicini.

«Certo che no. La stanza è rimasta chiusa, come ha ordinato la polizia».

«Eviti le complicità da veterano» tagliò corto Douglas, aprendo lo schedario delle offerte di Mafeking Road. «Questa è un’indagine per omicidio».

«Be’, non creda che proteggerei il piccolo bastardo» disse il ciccione, indignato. Douglas gli scoccò un’occhiata. Non riusciva a immaginarlo nell’atto di proteggere nessuno. «Aristocratico del cazzo!» disse quello. «Sempre a spadroneggiare, con quell’accento ripulito, e a dare ordini sulla spazzatura da portar fuori». Il ciccione seguiva Douglas per la stanza. «Non c’è tempo da perdere dietro agli aristocratici del cazzo... non ora, con questo regime, eh?».

«Ruttare, scorreggiare e mangiare due o tre uova e una mezza dozzina di fette di pancetta a colazione, in una camera calda abbastanza da potersene stare in canottiera! Conosco un bel po’ di aristocratici che ambirebbero a un simile lusso!» rispose Douglas.

«Ah, be’. In una casa bombardata come questa, bisogna ingegnarsi per tenere alla larga l’umidità».

«Il postino è arrivato?».

Il ciccione aprì un cassetto e consultò una sveglia di latta. «Arriverà a momenti, soprintendente» rispose, con un’ombra di sarcasmo.

Douglas andò alla credenza e scorse le cartoline illustrate e le lettere non consegnate. Tutte indirizzate ad altri. «Colleziono francobolli» spiegò il ciccione. «Me li regalano i vicini». Aprì gli sportelli sotto la credenza. «Gradirebbe qualcosa per allontanare il freddo, soprintendente?».

«Una pelliccia di visone?».

Il ciccione ridacchiò. «Lei è proprio un bel tipo, altroché». Trovò una bottiglia di rum, la stappò con uno schiocco e ne versò una dose nel tè che stava bevendo da una tazza con sopra scritto Savoy Hotel. Stabilito che con la sua risposta Douglas aveva declinato l’offerta, mise via il rum e si sedette con un sospirone.

Qualche minuto dopo, sentirono sbattere la buca delle lettere. L’uomo fece per alzarsi, ma Douglas gli premette con forza la mano sulla spalla, spingendolo contro la morbida poltrona. «Per oggi, ha fatto anche più del suo dovere, guardiano. Ci penso io, a ritirare la posta». Uscì dalla stanza e prese la chiave dell’appartamento di Spode, appesa al gancio.

L’ipotesi azzardata di Douglas si rivelò esatta. L’ultima azione compiuta da Jimmy Dunn prima del rapimento, era stata quella di gettare in una cassetta della posta la grossa busta di manila con il timbro «Fotografie – Non piegare». La prese e la portò di sopra. Attese un attimo, prima di aprire la busta nella stanza in cui avevano trovato il braccio finto nascosto sotto il tavolo della cucina.

All’interno, c’era la foto del professor Frick e dei suoi colleghi scienziati, accompagnata da una lettera di Jimmy Dunn. L’aveva scritta a matita, sul retro di un grande modulo marroncino per le richieste di razioni supplementari di sapone per i lavoratori del settore primario. Quasi tutti gli uffici postali ne avevano in abbondanza, dato che, per qualche errore di chissà quale amministrativo, mezza Londra era stata sommersa da una valanga di carta da appunti, da pacchi e igienica.

All’attenzione del sergente Woods.

Poiché queste consegne passeranno a lei da domani, ho ritenuto di elencare tutte le biblioteche e gli archivi cui ho telefonato o dove sono andato di persona per indagare sull’attuale ubicazione degli scienziati che lavoravano col defunto professor Frick. Come vedrà dal foglio allegato, mi sono dato da fare. Ma qualcuno si è impegnato ancor più duramente di me per eliminare ogni riferimento al professore e al suo lavoro. Tra giri e ricerche, non sono stato in grado di individuare neanche una copia di un suo scritto. Inoltre, sono spariti tutti i documenti che lo riguardano.

Poiché ritengo che si tratti dell’esecuzione di un ordine ufficiale, ho controllato l’ufficio del registro di Scotland Yard, i fascicoli della Gestapo e gli archivi centrali delle SS, ma non risulta che le opere del professor Frick siano state censurate, bandite o confiscate, e non sussiste un ordine vigente che riguardi la sua persona o la sua famiglia.

Le sarei grato se volesse segnalarmi omissioni o errori da me compiuti nella ricerca. E spero che sarà in grado di fornire una risposta a quello che ai miei occhi appare come il più grande rompicapo in cui io sia mai incappato nella mia breve carriera di poliziotto.

Tra l’altro, la prego di voler riferire al soprintendente investigativo Archer che ho rintracciato il perno per il gomito dell’arto artificiale. Un uomo che si è identificato come Spode ha fissato un appuntamento per una riparazione presso il Little Wittenham Depot (Campo di prigionia generale), nel Berkshire, alle 15:30 del 17 novembre.

Distinti saluti,

James Dunn

Col senno di poi, Douglas si chiese se a spingerlo verso la finestra per rileggere la lettera fosse stato un presentimento, una pura curiosità o solo il bisogno di luce. Sollevando lo sguardo dal foglio, notò un cavallo e un carretto sull’altro lato della strada. Un tizio, che aspettava all’angolo della via con una poltrona appena recuperata, la issò sul carretto e si arrampicò a sua volta. La copertura di tela nascose l’uomo alla vista di Douglas. Una cinquantina di metri più in là, due ciclisti si erano fermati a parlare. Cominciò a piovere: la via si costellò di chiazze scure. Gli uomini si allacciarono i colletti.

Douglas aprì la valigetta e vi ripose la lettera e la foto. Poi le estrasse di nuovo. Rilesse l’appunto per la terza volta. Era famoso tra i colleghi per la cura con cui tutelava le prove, ma ormai stava imparando delle nuove regole. Con un sussulto di coscienza, ridusse la lettera in pezzettini e la gettò in bagno, tirando lo sciacquone. Poi fece lo stesso con l’elenco di biblioteche che Dunn aveva contattato.

Tornò alla finestra. Il vetturino era scomparso e le redini del carretto erano state legate a un lampione. Il cavallo se ne stava paziente sotto la pioggerella. Douglas chiuse la ventiquattrore e scese le scale. Il piano di sotto era deserto, eccezion fatta per dei mobili spaccati e accatastati per farne legna da ardere.

Premette l’interruttore nell’ingresso in ombra, ma non si accese nessuna luce. Aspettò che gli occhi si abituassero al buio. L’unico chiarore proveniva dallo spiraglio sotto la porta della stanza del guardiano, da cui usciva anche la musica trasmessa dalla radio: l’orchestra da ballo di Harry Roy che eseguiva Somebody Loves Me, I Wonder Who». Come in risposta ai passi sulle scale, il volume della radio aumentò.

«Si avvicini, agente!». Douglas riuscì a distinguere una sagoma in ombra, ferma immobile sullo zerbino, con le spalle appoggiate contro l’interno della porta.

«Chi diavolo è lei?».

«Sono una Colt calibro 45 puntata sul suo ombelico, agente! Quindi si avvicini». Un accento dell’ovest, Devon, forse. E a chiamare «agenti» i poliziotti erano coloro che volevano passare per membri rispettabili della borghesia. Douglas scese un gradino, molto lentamente. Il tizio gli andò incontro. Sul terzultimo scalino, Douglas gli lanciò addosso la pesante valigetta e fece un balzo.

Poi vi fu lo schiocco attutito di una pistola silenziata, seguito da un’esplosione di vetri, mentre il proiettile trapassava la lunetta della porta sul retro. Douglas gli si avventò contro. Non era in forma smagliante, ma, come tanti che trascuravano l’esercizio fisico, era massiccio. L’impeto del suo slancio gettò l’altro indietro, mandandolo a colpire la porta con un fracasso che quasi la scardinò. Il tipo respirò con un gemito basso contro l’orecchio di Douglas, che lo colpì al ventre, per evitare che riprendesse fiato. Si ritrasse, lasciando il suo avversario piegato in due nel tentativo disperato di riprendersi, con una mano a tenersi la pancia e l’altra che brandiva la pistola.

Douglas calciò la pistola con tanta violenza da graffiarsi la scarpa, poi si chinò per recuperarla. La puntò contro l’uomo. La Colt, con un enorme silenziatore raccogliticcio fissato sulla canna, aveva le dimensioni di un archibugio ed era parecchio più sbilanciata. Con una pistola più piccola, l’uomo sarebbe riuscito a sparare di nuovo.

«Alzati!» ordinò Douglas. «Mettiti sotto la luce, vediamo chi sei». Si scansò per fargli spazio. Se l’uomo a terra fosse stato meno confuso, forse l’avrebbe avvertito, ma stava carponi sul pavimento, la testa piegata, sul punto di vomitare.

Douglas fu improvvisamente bloccato da due braccia come cavi d’acciaio. Cercò di divincolarsi, ma non gli riuscì di muovere un muscolo, né di girare la testa. La carta da parati sporca fu inondata di luce mentre la porta alle sue spalle si apriva e la musica di Harry Roy si faceva più forte.

«Chi cazzo ha sparato?». Era la voce del ciccione.

«Torna nella tua gabbia, gorilla» disse una voce vicinissima all’orecchio di Douglas. «È questione di un attimo».

Douglas avvertì un odore dolciastro e vischioso, poi si sentì premere sul viso un panno umido che gli fece lacrimare gli occhi. Annaspò in cerca d’aria, ma poté solo inalare quell’odore. Cercò di divincolare il capo, ma la mano gli premeva sul volto con durezza. La luce si affievolì e Douglas sprofondò in un lento vortice senza fondo.

Tornò in sé, sorretto da Harry Woods. «Non serve l’ambulanza, sta rinvenendo» disse qualcuno.

Harry Woods accostò il viso al suo. «Come ti senti?».

«Stupido» rispose Douglas, chiudendo nuovamente gli occhi.

«Ho la macchina, pensi di farcela, se ti sostengo?».

«La mia valigetta».

Harry Woods scosse il capo. «Ho già guardato, immaginavo l’avessi con te... devono averla presa».

«Il guardiano?».

«Se l’è data a gambe!».

«Usciamo di qui» disse Douglas. Scrutò Harry Woods, chiedendosi se fosse vero che non aveva trovato la valigetta e, cosa ancor più importante, la foto del professor Frick al suo interno. Lanciò al suo sergente uno sguardo che era una muta accusa di complicità per tutto quanto era andato storto in quell’indagine, ma Harry Woods ricambiò l’occhiata con aria innocente.

«Ti stai consumando» commentò. «Quando si è stanchi si diventa negligenti. Ascolta il mio consiglio: mettiti a letto e dormi un giorno intero».

«Vado in ufficio».

«Ti prego, Douglas». Era raro che Harry Woods si rivolgesse al suo superiore chiamandolo per nome. «Lo dico per te: hai bisogno di riposo».

Per quanto la logica gli urlasse a gran voce che Harry Woods era implicato con qualche cellula della Resistenza, Douglas non riuscì a non considerare la devozione e la lealtà che il suo sergente gli aveva sempre mostrato, da bambino e poi da soprintendente di polizia. Harry Woods era come un padre. Indipendentemente da quanto il solco tra loro si fosse allargato, quel rapporto resisteva. «Devo tornare allo Yard, Harry. Poi però corro a casa e mi metto subito a letto».

«Sarà meglio» rispose Harry, fingendosi severo.