Capitolo diciotto

A metà pomeriggio, il generale Kellerman chiese a Douglas se si sentisse in grado di fare «una chiacchierata». Douglas si presentò nel famoso ufficio al piano di sopra e trovò il generale in preda all’euforia postprandiale che Harry Woods definiva eufemisticamente «da banchetto».

Il guardaroba di abiti britannici di Kellerman continuava ad arricchirsi. Quel giorno indossava un levigato completo spina di pesce con giacca monopetto, corredato di panciotto e di camicia di cotone Sea Island color panna, con un farfallino di foulard e un paio di scarpe brogue. Il genere di abbigliamento che uno straniero avrebbe trovato perfetto per un professore di Oxford, considerazione che di sicuro aveva attraversato la mente di Fritz Kellerman quando l’aveva scelto.

Sul tavolinetto c’era un vassoio d’argento su cui campeggiava una grande caffettiera da cui saliva un aroma di vero caffè che riempiva la stanza. Accanto, un servizio Limoges da due e un assortimento di stuzzichini. Kellerman preparò con calma il caffè, aggiungendo un abbondante cucchiaio di panna che spolverò con del cacao in polvere. «Ah, Vienna» disse, ricordando che Douglas beveva il suo caffè nero e amaro. «Tanto superata, tanto antiquata, tanto decadente... ma rimane la città più incantevole del mondo. Nel mio cuore, sono un viennese».

«Davvero?» rispose Douglas cortesemente, sorseggiando il caffè con gusto. Tutti gli austriaci che aveva conosciuto a Londra parevano ansiosi di definirsi tedeschi. Forse solo gli uomini che, come Kellerman, indossavano il piccolo distintivo d’oro conferito ai primi cento membri del partito nazista e che ostentavano l’inconfondibile accento di Monaco, trovavano divertente definirsi viennesi.

«Proprio così. Vienna è una città con l’anima». Persino quando parlava in inglese, Kellerman riusciva a infilare nella pronuncia il lieve raglio nasale con cui si sbeffeggiavano gli austriaci. «Le verrà un livido» disse, di punto in bianco. «Sta già cambiando colore. Maledetti delinquenti! Sicuro di non voler fare un salto al St George’s Hospital di Hyde Park Corner?». Per rispetto nei confronti del suo subalterno inglese, evitò di chiamare l’Ospedale generale delle SS con il suo nuovo nome.

«Alla stazione di polizia di Canon Row mi hanno dato dell’aspirina che avevano nella cassetta di pronto soccorso» rispose Douglas. Bevve dell’altro caffè. «E la ringrazio del regalo per mio figlio. Glielo darò il giorno del compleanno. Le scriverà un biglietto».

«I bambini adorano le macchine, e ho immaginato che lei avrebbe preferito che non si trattasse di un giocattolo militare».

«Davvero premuroso».

«Va a pesca, soprintendente?».

«No, signore».

«Peccato. Il passatempo migliore per un agente di polizia, a mio parere. La pesca è un esercizio di pazienza e insegna molto sulla natura umana». Attraversò la stanza e tamburellò il dito su una teca di vetro. All’interno c’era una trota di dimensioni notevoli, impagliata nell’atto di fare una smorfia. «L’ho catturato io, questo esemplare, soprintendente».

«Davvero, signore?» rispose Douglas, benché il generale gli avesse ammannito quel racconto almeno dieci volte, e le circostanze che avevano condotto quella sfortunata creatura alla morte fossero vergate a caratteri d’oro sulla teca.

«Lo Standartenführer Huth, d’altra parte» proseguì Kellerman, tornando alla scrivania senza sedersi, «è uno sciatore provetto». Sollevò la caffettiera e sorrise a Douglas.

Convinto che ci si aspettasse una reazione, Douglas disse: «Non lo sapevo, signore».

«Ha partecipato alle Olimpiadi a Garmisch, nel 1936» insisté Kellerman che, a dispetto dell’astio, non riuscì a celare un velo di orgoglio nella voce. «Discesa libera e slalom maschile. Non ha vinto nessuna medaglia, ma già gareggiare è un bel premio, non le pare?».

«Senza dubbio» rispose Douglas. Cominciava a dolergli la testa: i postumi dell’etere con cui era stato drogato.

«Lo sport che scegliamo dice molto della nostra personalità». Kellerman sorrise. «Lo Standartenführer Huth va sempre di furia. Io mai. Capisce quel che intendo, soprintendente?».

«Certo, signore».

«Ancora del caffè» decise Kellerman, versandoglielo. Quando gli si avvicinò, Douglas percepì l’odore della mentina che il generale usava per rinfrescarsi l’alito.

Fuori, a Whitehall, le bande militari del quartier generale del Gruppo d’armata L (Distretto di Londra) cominciarono le prove per le celebrazioni della Settimana dell’amicizia tedesco-sovietica. Douglas riconobbe la Marcia di Pietroburgo sulla quale un tempo solo la 2 Garde-Infanterie Brigade poteva avanzare, e che i berlinesi intonavano con un testo notoriamente assai volgare.

«Sicuro di non volere della panna?».

Douglas scosse il capo. Kellerman chiuse meglio la finestra, senza riuscire a ridurre la musica. «Il Reichsführer-SS mi ha chiesto ragguagli sulla sua indagine per l’omicidio di Shepherd Market. Gli ho detto che ne sapevo ben poco... A dire il vero, mi sono sentito uno sciocco». Kellerman giocherellò con lo zucchero grezzo nella zuccheriera.

«Non c’è molto da riferire» disse Douglas.

«Mi sfugge il motivo per cui lei è tornato in quella casa stamane».

Douglas prese tempo bevendo il caffè. Huth gli aveva ordinato di mantenere il riserbo sull’indagine ma, senza un ordine scritto di un ufficiale di grado più elevato, reputò il generale Kellerman suo diretto superiore. «Uno dei miei agenti, Dunn, che lavorava in borghese...».

«Quello che è stato ucciso la notte scorsa?».

«Sì, signore. Dunn stava aiutando me. Abbiamo trovato una fotografia a casa del sospettato, che ritrae il professor Frick e i suoi collaboratori prima della guerra. Ho chiesto a Dunn di indagare su di loro. Credo che abbia capito di essere pedinato e che abbia fatto scivolare la busta, già indirizzata alla casa di Mafeking Street, nella buca delle lettere, consapevole del fatto che in una simile indagine la posta sarebbe stata inoltrata a me, qui allo Yard».

«Ma lei è andato a prenderla a casa?».

«Sì, signore».

«Non le sembra strano che questi uomini della Resistenza – gruppi del genere trovano sempre il modo di rubare la posta in transito – non solo siano stati costretti a presentarsi sul posto per prendere la busta, ma che siano addirittura arrivati troppo tardi per intercettare il postino?».

«Il custode della casa deve averli avvertiti al telefono» rispose Douglas. «Si è volatilizzato insieme ai miei aggressori».

«E lei ha perso la foto del professor Frick e dei suoi colleghi?».

«Sì, signore».

«Non si stupisca di quel che so, soprintendente. Il suo agente di polizia ha chiamato l’ufficio del registro, gli archivi centrali delle SS e la Gestapo per fare domande sul professor Frick. È ovvio che mi sia stato riferito».

«Certo, signore». All’esterno, le bande tedesche tacquero. Dopo una breve pausa, intonarono Tannembaum, O Tannembaum. O forse era Bandiera rossa, rifletté Douglas. Comodo, che la melodia fosse la stessa.

«Il professor Frick è morto. Durante i combattimenti, l’anno scorso. I suoi collaboratori stanno svolgendo alcune ricerche specifiche per il Reich».

«Ricerche specifiche?».

«Oh, questo non significa che lei debba rallentare il passo delle sue indagini. Significa solo che dovrà tenerne fuori gli scienziati collaboratori del professor Frick». Kellerman raccolse col cucchiaio un rimasuglio di panna montata e se lo portò alla bocca. «Per ordine diretto del Führer. Cui neanche il Reichsführer-SS si può opporre. Sono stato sufficientemente chiaro, soprintendente Archer?».

«Cristallino, signore».

«Bravo!» disse Kellerman, allontanando il bricco della panna ormai vuoto, come se non ne volesse più. Sollevò lo sguardo, sorrise e gettò indietro il capo per respingere la ciocca canuta che gli era ricaduta sulla fronte. «Come sempre, a buon intenditor poche parole».

«Sempre che l’intenditor non sia sordo, signore» celiò Douglas.

«Carina, questa, soprintendente» ribatté il generale Kellerman.

Alle piogge del mattino seguì il sole giallo polveroso di cui Londra si tinge in autunno. Douglas si soffermò nel corridoio dell’Embankment a guardare fuori dalla finestra le bande che marciavano insieme lungo la via. Erano magnifiche nelle alte uniformi, con decine di ottoni che scintillavano al sole e gli Schellenbaum tintinnanti, ornati delle code di cavallo che facevano risalire quello strumento a percussione al corpo dei giannizzeri. C’era in loro uno splendore imperioso. I tedeschi usavano la loro musica militare ad arte, per intimorire e pacificare i popoli assoggettati d’Europa. Quando Douglas tornò in ufficio, stavano intonando Greensleeves.

La porta di comunicazione con l’ufficio di Huth era aperta, e Douglas vide Harry Woods scorrere i documenti ufficiali impilati sulla scrivania dello Standartenführer. «Cosa combini, Harry?». Sedette alla sua scrivania e cominciò a sfogliare le carte arretrate.

«Tempismo perfetto, signore».

«Se non erro, mi chiami “signore” solo quando ne stai combinando una grossa».

Harry sorrise. A dispetto delle generose razioni di brillantina, i capelli corti rifiutavano di stare in ordine. Il che gli conferiva un’aria comica. «Guarda qui» disse, agitando la copia carbone rosa di un rapporto scritto a macchina. «Non riesco a decifrare tutto questo tedesco, ma mi sono fatto un’idea». Douglas entrò nell’ufficio di Huth, rifiutando di prendere il foglio che Harry gli offriva. «Leggilo. Morirai dalle risate. Dai! Machiavelli non tornerà prima di cinque minuti: ho cronometrato le sue funzioni corporali».

Douglas prese il rapporto.

SCHEDA PERSONALE

RAPPORTO RISERVATO. INFORMAZIONE SECRETATA.

Soprintendente investigativo Douglas Archer.

1. Laddove pochi agenti di polizia metropolitana sono in possesso di un titolo di studi universitario o di qualifiche professionali, l’agente di cui sopra dimostra la validità di una simile preparazione, a dispetto dell’opposizione al suo ingresso con il grado di ispettore manifestata dalla maggioranza degli appartenenti alla polizia.

2. Le difficoltà cui va incontro qualsiasi laureato allo Hendon Police College nel richiedere il trasferimento al CID (dipartimento di polizia investigativa) è prova di politica miope di fronte all’eccezionale attitudine al lavoro investigativo del soprintendente investigativo Archer.

3. Douglas Archer è figlio di un ingegnere civile moderatamente capace, ancorché mediocre, ucciso sul fronte occidentale. La madre è figlia di un noto pilota automobilistico. Archer ha frequentato uno dei collegi meno rinomati come studente diurno, per poi studiare alla Oxford University, prima di passare allo Hendon Police College. L’educazione e l’istruzione severe hanno forgiato una personalità equilibrata, priva di guizzi, dedita ai metodi lenti, inefficaci e datati ancora in vigore nelle procedure della polizia britannica.

4. Benché lo si ritenga dotato di notevoli capacità intuitive nello svolgimento del suo lavoro, una spiegazione razionale della ottima carriera nella polizia investigativa è da ricercarsi nel suo studio approfondito dei metodi scientifici dei teorici forensi, ivi incluso il nostro grande pioniere, dottor Hans Gross. Il suo operato meticoloso e le lunghe ore di lavoro denotano una personalità nevrotica, ossessionata dalla pertinacia nel voler catturare il malfattore. Per questo e per altri motivi, si eleva l’informazione secretata relativa all’agente in oggetto da Ba ad Aa.

5. Occorre aggiungere che questo agente è uno dei più popolari e rispettati in servizio nella polizia metropolitana e che, in contraddizione con quanto rilevato in questo rapporto, i suoi colleghi inglesi lo considerano dotato di arguzia e di notevole vis narrativa.

Fritz Kellerman, Gruppenführer

(Höherer SS und Polizeiführer)

«Che ne dici?» lo stuzzicò Harry. «A quanto pare ti stanno selezionando per qualche lavoretto di squadra a Hendon». Era più una critica a Hendon che un encomio al suo collega.

«Ho davvero una personalità priva di guizzi ed equilibrata?».

«Per niente, prima che arrivassero questi bastardi» rispose Harry. «Con gli unni che ti alitano sul collo, stai perdendo tutto il tuo senso dell’umorismo». Prese il rapporto e lo infilò nello schedario. «E guarda qua» aggiunse.

«No, basta» rispose Douglas. All’esterno, la banda suonava D’ye ken John Peel.

«Questi bastardi tedeschi godono nel rigirare il dito nella piaga, eh?» osservò Harry. Douglas si accigliò, ma l’altro sorrise e rettificò. «Volevo dire che ai nostri visitatori tedeschi piace rigirare il dito nella piaga».

«Forse pensano che suonare vecchie melodie della tradizione inglese sia un segno di sensibilità e rispetto».

Harry Woods si produsse in una pernacchia.

«Sono in parecchi a pensarla come te» ribatté Douglas. «Ma evitano di sbandierarlo ai quattro venti».

«Sarebbe meglio che lo facessero, invece» ribatté Harry, aspro. Si accostò ulteriormente a Douglas. «Ti andrebbe di conoscere alcuni dei miei amici? Sono certo che ne saresti affascinato».

A Douglas sarebbe piaciuto potersi fidare di Harry e raccontargli dell’incontro con Mayhew, raccontargli che era già in contatto con dei gruppi antinazisti. Si era fidato ciecamente di Harry, sin da quando era bambino. L’aveva consultato ogni volta che aveva dovuto compiere una scelta nella sua carriera in polizia, e aveva confidato prima a lui che a sua madre la decisione di sposarsi. Quando Jill aveva scoperto di essere incinta, si erano fermati da Harry per dargli la bella notizia mentre andavano dai suoceri.

Ma non si fidava più del suo vecchio amico. «Ti è sempre piaciuto aderire alle confraternite, Harry. Ai bei tempi, erano la squadra di rugby e il pugilato. Poi sei diventato segretario del Circolo di collezionisti di francobolli...».

«Società filatelica» lo corresse Harry con sussiego.

«Ti è sempre piaciuto incontrare gente, conversare e...».

«Sbevazzare, stavi per dire, giusto?».

Douglas alzò la mano in segno di rispetto. «È questo a fare di te un bravo poliziotto, Harry. Ed è questo a fare di noi un’ottima squadra. Tu hai sempre svolto il lavoro di piedi, attaccando bottone con i ceffi, chiacchierando con i cattivi e archiviando tutto nella tua memoria. Io sono diverso, io sono l’uomo della legge».

«Parla con i miei amici, Doug. Ti prego».

«Harry, mi rendi le cose difficili. Sono venuto qui determinato a convincerti a scrollarti di dosso questa gente. E tu invece cerchi di tirare dentro anche me».

«Ti prego, Doug». Era poco più di un sussurro, ma veniva dal cuore, e Douglas fece a malincuore l’unica cosa logica e ragionevole. Scosse il capo.

Sentirono un paio di stivali risuonare sul pavimento di mosaico del corridoio, e la sentinella armata scattare sull’attenti e sussurrare «Heil Hitler!». La porta si aprì e Huth fece il suo ingresso. Indossava un giubbotto della Luftwaffe di pelle nera con la chiusura lampo e un paio di pantaloni militari. Solo la camicia e la cravatta appartenevano all’uniforme d’ordinanza.

«Uno di voi conosce un sarto? Mi serve una nuova uniforme». Parve non notare che i suoi due subalterni erano curvi sulla scrivania.

«C’è un tizio a Lambeth Road» rispose Harry, che aveva sempre una risposta a quel tipo di domande. «Confeziona uniformi tedesche. Un sacco di gente di Savile Row gli subappalta le giacche. Ottima qualità».

«Non devo partecipare a un concorso di bellezza» ribatté Huth. «È veloce? Mi serve per domani sera».

«Gli faccio uno squillo, capo». Huth non reagì nel sentirsi chiamare capo e Douglas ne dedusse che doveva essere diventato un appellativo abituale. Harry non aveva dimestichezza con le intricate gerarchie delle SS.

«Harry» disse Huth, affabile. «Potrebbe portare questo al laboratorio fotografico e chiedere tre dozzine di copie e il negativo? Mi serve entro un’ora. Sto preparando dei manifesti da “ricercato”». Passò a Harry la foto del professor Frick che era stata rubata. «Inserisca chiunque compaia nella foto nell’elenco degli arresti prioritari, poi venga a farmelo firmare».

«Il generale Kellerman è l’unico autorizzato a firmare gli elenchi dei ricercati» obiettò Harry.

«Non più» disse Huth. Douglas guardò Harry, che inarcò un sopracciglio.

Harry Woods andò al laboratorio fotografico e Douglas tornò al lavoro dietro la sua scrivania.

Huth si avvicinò e si appoggiò al davanzale. «Il sergente Woods è un lavoratore instancabile» disse.

«È il miglior poliziotto dell’edificio».

«Il che servirebbe a ben poco, se lei non fosse qui a coprirgli le spalle».

«Che intende?» chiese Douglas, senza interrompere il lavoro che stava facendo.

«Il sergente Woods per lei è un peso... un peso nocivo. Ecco cosa intendo. Per quanto tempo ancora pensa di poterlo proteggere dall’inevitabile?».

«Secondo lei?» indagò Douglas con una calma che era lungi dal provare.

«Poco». Douglas sollevò lo sguardo in tempo per scorgere uno dei sorrisi taglienti di Huth. «Poco».

«Qui ci vuole la sua firma» disse Douglas. Girò il modulo sulla scrivania, in modo che Huth potesse leggerlo. Ma Huth firmò il foglio senza neanche guardare.

«Non vuole leggerlo?».

«È un promemoria di Kellerman. Mi dice che una delle sue riunioni amministrative d’ora in poi si terrà il martedì, invece di chissà quale altro giorno della settimana. Il martedì diventerà il giorno di alcune grandi decisioni. Veda se non ho ragione, soprintendente Archer».

Huth prese un pacchetto di Players dalla tasca e ne accese una con l’abilità disinvolta di un cowboy da film. Inalò ed espirò il fumo dalle narici. «Perché io non sarò mai qui il martedì» spiegò. «Il generale teme che le mie osservazioni possano scompigliare l’ordine del giorno delle sue riunioncine». Mise via il pacchetto senza offrire una sigaretta a Douglas. «Il generale Kellerman si preoccupa del fatto che qualcuno possa soffiargli il bell’impiego a Londra. Lusinghiero che mi ritenga il candidato più probabile, non le pare?».

«Molto, signore».

«Lei è uno sciocco, giusto, Archer?».

«Ultimamente è opinione diffusa, signore».

Huth si alzò e si girò verso la finestra. Il telefono di Douglas squillò. Era la linea diretta. «Soprintendente investigativo Archer? Sono il colonnello Mayhew».

Douglas lanciò un’occhiata ansiosa a Huth, che non pareva interessato alla telefonata. «Sì?» chiese, guardingo.

«Ho saputo che farà visita alla signorina Barga stasera».

«Sì» rispose lui sommessamente. Si chiese se il centralinista stesse filtrando la chiamata.

«Ci vediamo lì, intorno alle nove?».

«Molto bene». Douglas riappese senza salutare. Occhieggiò Huth, ma lo Standartenführer stava ancora guardando fuori dalla finestra.

«Mi pare di capire che ordinerà di arrestare tutti coloro che appaiono su questa fotografia».

«Esatto» disse Huth, senza voltarsi.

«Per l’omicidio del dottor Spode?».

«Per interrogarle sulle circostanze dell’omicidio».

«Abbiamo motivo di credere che a ucciderlo sia stato il fratello minore. Era sicuramente nell’appartamento, quel giorno».

«Non posso escludere nessuna possibilità. Voglio che siano tutti arrestati».

«Ma vuole che arresti qualsiasi collaboratore del professor Frick e che lo interroghi?». Douglas era esasperato dalla reticenza di Huth.

«Non troverà il professor Frick, e dubito che arresterà i suoi collaboratori».

«Perché?».

Huth si volse lentamente e lo squadrò. «Perché i collaboratori del professor Frick godono della protezione dell’esercito tedesco».

«Ma gli avvisi di ricerca che ha appena commissionato a Harry...?».

«Un espediente per costringere quegli idioti dell’esercito a rivelare dove li tengono nascosti... e a lasciarceli incontrare».

«Capisco» rispose Douglas, che non capiva affatto. Huth non aveva visto il biglietto ferroviario per Bringle Sands trovato nella tasca del morto? Harry Woods doveva averlo distrutto. Douglas però non aveva più dubbi sul fatto che il gruppo del professor Frick lavorasse per l’esercito tedesco da qualche parte nei dintorni di Bringle Sands, luogo di provenienza del morto.

«Scopra dove l’esercito ha nascosto i collaboratori del professor Frick e garantirò a Harry Woods una protezione che nessuno oserà scalfire». Inalò il fumo, lo sguardo fisso su Douglas. «A Berlino avevo un omosessuale alcolizzato alle mie dipendenze. Alcune delle sue osservazioni sovversive avrebbero fatto impallidire persino lei».

«Impallidisco facilmente, io».

Huth non lo ascoltava. Era intento a trapanargli la testa con quegli occhi grigio acciaio. «Sa cosa ho fatto?» proseguì, senza attendere una risposta. «Gli ho ordinato di comportarsi da agente provocatore». Fece una breve risata. «Una difesa perfetta. Da quel momento, non ha dovuto temere più nessuno».

«Harry Woods deve temere qualcuno?».

«Be’, di certo non quel paparino canuto di Fritz Kellerman. È un gentiluomo prussiano della vecchia scuola». Huth rise, si alzò, indossò il soprabito e prese il foglietto su cui Harry Woods aveva scritto il nome e l’indirizzo del sarto di Lambeth. Arrivato alla porta, si volse e disse: «Mi farà il favore di trovare il giovane Spode?».

«Ci proverò».

«Il tempo fugge» sentenziò Huth prima di uscire.