Capitolo ventuno

Le nuvole che avevano trattenuto sulla terra i rimasugli del tepore estivo si erano dissipate. L’aria era fredda. Douglas fece colazione con i bambini e la signora Sheenan prima di dirigersi verso il campo di detenzione di Little Wittenham, nello Berkshire.

Si fece assegnare una delle macchine della squadra mobile per compiere il viaggio lungo la Thames Valley, fino a Wallingford e al campo. Era una Railton Special e sulla provinciale Douglas premette sul pedale dell’acceleratore superando i centoquaranta. Arrivò ben prima di mezzogiorno.

Era il luogo ideale per un campo di prigionia. Un terreno annidato all’interno di un’ansa del Tamigi, il cerchio che si chiudeva con la strada tra i due villaggi costieri di Wittenham. A ovest, le nuvole veloci promettevano altra pioggia, mentre sull’orizzonte a est il grappolo delle Sinodun Hills, con le loro fortificazioni preistoriche, scintillava nella luce fredda del sole.

Era un posto triste. Persino un tocco di squallore l’avrebbe rallegrato. Quasi trecento ettari di baracche di legno prefabbricate del dipartimento della guerra, del tipo noto a ogni soldato britannico. Solo che erano ormai circondate dagli alti recinti di filo spinato che separavano il campo di prigionia dall’area destinata alla fabbricazione degli arti artificiali e dalle baracche vicino al Day’s Lock, dove i mutilati andavano a ritirarli.

L’ufficio del comandante si trovava nell’area di detenzione di massima sicurezza, una bella casa d’epoca nel villaggio di Long Wittenham. Douglas fu accolto con cortese formalismo, ma non era il benvenuto, e nessuno si sforzò di celarlo. Il Kommandant gli fece a malapena un cenno e lo consegnò a un ufficiale di scorta.

Il capitano d’artiglieria era giovane. Alto e magro, aveva quel colorito privo di pigmento che lo manteneva pallido con ogni clima. I capelli erano biondi e sottili e le sopracciglia quasi invisibili. Aveva gli occhi infossati e cerchiati e le labbra diafane ed esangui. Il suo, però, non era l’aspetto di chi avesse vissuto un’esistenza dissoluta; piuttosto, aveva i tratti fragili e delicati, cari ai pittori preraffaelliti.

«Dopo di lei» disse il capitano, aprendogli la porta con cortesia esagerata.

Parlava con la stessa frenesia con cui le padrone di casa intrattengono i visitatori importanti. Era di Colonia. La sua chiacchiera e il suo accento sofisticati contrastavano nettamente con quelli della maggioranza del suo Füsilier-Regiment e, a dire il vero, con tutta la 35. Infanterie Division, costituita nella regione della Foresta Nera, con base a Karlsruhe. Non solo il capitano apparteneva a un altro rango sociale, ma era un militare di carriera con molta esperienza, che aveva lavorato al ministero della guerra, a Berlino, e servito per un certo periodo nel gruppo divisionale. Era tra i pochi ufficiali artiglieri che vantavano esperienza di combattimento con i nuovi semoventi cingolati. Il ruolo di aiutante in un campo di prigionia lo irritava molto. E si accertò che Douglas lo capisse.

Il posto era monotono, con le pietre tinteggiate di bianco a bordare i sentieri, le corde a demarcare il piazzale dell’edificio del corpo di guardia e gli estintori sistemati nell’ordine maniacale che gli eserciti impongono a uomini e cose. Quando passarono nel secondo recinto, Douglas notò i cartelli che guidavano i visitatori verso l’ufficio del capoposto e capì che non si trattava di un campo di prigionia generale ma del campo di prigionia per generali, dove i tedeschi confinavano gli ufficiali inglesi e alleati dal grado di brigadiere in su.

«Li facciamo lavorare» spiegò il giovane capitano d’artiglieria. «Vengono condotti qui ogni giorno per assemblare e riparare gli arti artificiali per i mutilati di guerra».

«Lavorano anche gli ufficiali prigionieri di guerra?».

«Si riferisce alla Convenzione di Ginevra?». Si sistemò la sciarpa di seta grigia e sollevò il colletto del pesante cappotto dell’uniforme. «All’inizio era un problema, poi il dipartimento legale ha trovato il cavillo. Abbiamo destituito questi generali dall’esercito britannico. Tecnicamente, ora sono dei detenuti civili».

«In tal caso, dovrebbe prenderli in custodia la polizia civile» osservò Douglas.

«Ed ecco l’astuzia. Li tratteniamo qui intanto che indaghiamo sul loro operato nell’esercito. Il che giustifica la loro permanenza nel campo di prigionia militare».

«Molto arguto».

«E non possono subire un processo per via della corte marziale» spiegò l’altro. «Secondo il sistema giuridico internazionale, un prigioniero di guerra vanta gli stessi diritti processuali di un soldato parigrado nell’esercito che lo cattura. E nell’esercito tedesco questo significa il diritto di essere giudicati da uomini appartenenti allo stesso rango. Se lo immagina? Sottoporre a processo uno di questi prigionieri richiederebbe un tribunale di generali dell’esercito tedesco». Ridacchiò al pensiero.

Procedevano rapidi. Il vento strattonava i loro cappotti e sferzava gli alberi, costringendoli a una danza forsennata. Raggiunsero la barriera e il filo spinato. Le sentinelle fecero il saluto e il capitano invitò Douglas all’interno del primo capanno. «È un lavoro facile» disse. «E hanno un tetto e del cibo. Stanno meglio di molti civili».

«Lo pensa veramente, capitano?».

Il capanno era privo di riscaldamento. Ai tavoli, i prigionieri anziani assemblavano gli arti artificiali usando strumenti semplici come torchi manuali, trapani e martelli. L’eco delle loro fatiche riecheggiava nell’aria. Nessuno sollevò lo sguardo sui visitatori.

«Vuole vedere cosa fanno?» chiese il capitano, alzando la voce sopra il frastuono.

Douglas scosse il capo. Poi però scorse un volto che aveva visto sui giornali e nei cinegiornali negli ultimi giorni di battaglia. «Vorrei parlare a quell’uomo» disse.

Il capitano afferrò il poveretto indicato da Douglas. «Tu!» disse. «Nome, ex grado e matricola di detenzione!».

Il vecchio si mise sull’attenti, le dita tese e il mento in dentro, come viene insegnato ai cadetti nelle scuole militari prussiane. «Sissignore!» strepitò, senza alzare lo sguardo. «Wentworth, Maggior Generale, detenuto numero 4583».

«Era al comando della Unità W?» chiese Douglas.

«Sì, sono quel Wentworth» rispose l’anziano. Si era agli sgoccioli, con l’esigua, raccogliticcia brigata mobile di Wentworth schierata in una linea sfilacciata lungo il fiume Colne. I blindati tedeschi tentavano di aggirare Colchester, per sferrare un attacco dal lato sul mare. L’esito della battaglia era ormai scontato, ma la tenace formazione di Wentworth permise a una flottiglia di cacciatorpedinieri della Home Fleet di salpare a tutto vapore da Harwich. All’epoca, girava voce che Churchill e il re fossero a bordo di quelle navi da guerra. E alcuni si ostinavano a crederlo.

«Ha combattuto bene, generale» disse Douglas.

«Ho fatto ciò per cui ero pagato».

«Non solo. Ha fatto la storia».

L’uomo si illuminò. Gli brillarono gli occhi mentre scrutava Douglas per capire se l’altro gli volesse far intendere che Churchill e il re erano riusciti a scappare. Poi annuì e girò il capo, improvvisamente attratto dal metallo che stava lucidando. E Douglas fu lieto di constatare che era commosso. Il martellare era quasi cessato e nel capanno era sceso il silenzio. La conversazione era praticamente conclusa, ma gli uomini non si mossero.

«C’ero anch’io» disse il capitano. «Comandavo una batteria di artiglieria semovente – la StuG III, dotata di cannoni d’assalto – gli unici semoventi sul posto».

«Avanzavate dalla strada per Londra, intorno alle cinque del pomeriggio» puntualizzò Wentworth. Annuì. «Il comandante dell’Artiglieria reale mi chiamò al telefono per dirmi che il fuoco di controbatteria sarebbe stato inutile – eravate in continuo movimento».

«Ero di sostegno al battaglione Panzer in avanscoperta» disse il capitano. «Avevamo l’ordine di attaccare della linea di difesa di Colchester, e di tenervi lì. Indipendentemente dalle perdite, ci avevano detto».

«Quando siete arrivati, ormai era praticamente finito tutto» disse il generale. «Sono rimasto stupito dalla resistenza dei miei ragazzi. Erano bravi soldati, sa?». Una raffica di vento scosse i vetri delle finestre e le porte con un fracasso tale che l’uomo sollevò lo sguardo, impaurito. «Alle sette di quella sera ho ordinato ai mitraglieri di distruggere gli otturatori. Ho detto ai miei comandanti di reparto di scegliere una linea d’azione. La fanteria, intrappolata su Mersea Island, sventolava già bandiera bianca dagli alloggi. E la marina riferiva che i vostri cannoni pesanti stavano devastando il porto di Harwich».

«Vuole che porti un messaggio a qualcuno?» chiese Douglas all’anziano. Guardò il capitano, quasi aspettandosi che obiettasse. Ma quello si era allontanato, come se avesse perso interesse per il vecchio generale.

«A mia moglie. Le dica che mi ha visto e che sono vivo e vegeto». Slacciò a fatica un bottone della camicia dell’esercito ed estrasse un foglietto con l’indirizzo e il telefono della moglie. Forse portava con sé quel pezzetto di carta consunto da mesi, in attesa di un’occasione simile.

Douglas lo prese e seguì il giovane capitano, che si era già avviato verso la porta in fondo alla sala. Si girò a guardare Wentworth e si trovò a incrociare lo sguardo dei vecchi in fila, i volti che esprimevano diversi gradi di stupore, disprezzo, odio e gelosia.

«Perché proprio lui?» chiese il capitano. «Perché Wentworth?».

Douglas si frugò nel taschino ed estrasse il lasciapassare SD con sopra l’inconfondibile firma del Reichsführer-SS. Era una scrittura curiosamente irregolare, che ricordava in modo inquietante le rune delle SS. Mise il lasciapassare sotto il naso del capitano, che fece un sorrisetto e annuì. Fine delle domande su Wentworth.

«Vuole ancora visitare il reparto distribuzioni?».

«Sì».

Tornarono fuori, al gelo. Oltrepassarono file di capanni identici, tranne per il numero che li contrassegnava. Le Sinodun Hills cominciavano a sparire nella nebbia e, in alto, le nuvole cupe si spostavano veloci come locomotive a carbone, e assai più luride. Quando raggiunsero il quarto dei capanni collegati tra loro e adibiti a ufficio spedizioni, sentirono aria di pioggia.

Il capanno più lungo era percorso in lunghezza da un bancone. Dietro il bancone, file di scaffali con dentro documenti, attrezzi e parti di ricambio, gestiti da una decina di anziani in grembiule marrone da magazziniere. Davanti al bancone, i mutilati, in attesa del loro turno.

«A chi vanno gli arti?».

«Agli ex militari inglesi di tutti i gradi che vivono nella zona di controllo sud-orientale» rispose il capitano. Il tono era secco e formale. L’entusiasmo con cui aveva descritto il ruolo giocato nella battaglia di Colchester era svanito.

«O a chi ci abitava all’epoca della richiesta?».

«Sì».

«Di quali documenti hanno bisogno per poter accedere?».

«Nessuno oltrepassa neanche il cancello esterno se non è munito di uno statino che dimostri il congedo dall’esercito britannico senza obbligo di lavoro coatto, e di una convalida che provi l’assenza di procedimenti del tribunale dei crimini di guerra a carico. Inoltre, serve una carta d’identità valida, che attesti la registrazione del luogo di residenza presso la polizia locale. Poi, ovviamente, si deve produrre il tagliando di conferma dell’appuntamento».

«Mi pare corretto».

«Lo è» ribatté il capitano. Si lisciò il colletto dove sarebbe stata appesa la croce di cavaliere se avesse ottenuto quella decorazione tanto ambita.

«Mi ha appena raccontato la teoria» disse Douglas. «Quando è stata l’ultima volta in cui si è accertato che nessuno provasse a entrare senza tutti quei documenti?».

Il capitano fece una smorfia e annuì. «Vuole che allerti le sentinelle?».

«Tutt’altro. Voglio che il mio uomo passi». Douglas si girò e lanciò uno sguardo lungo il bancone. «Ora mi mostri dove tenete le giunture e i perni».

«Vuole scherzare?».

«Quando scherzo agito le orecchie».

«Le sostituzioni vengono eseguite in fondo a quel bancone. Oltre quella porta c’è un laboratorio in cui si inseriscono parti nuove e si effettuano piccole riparazioni». Si girarono entrambi a guardare un giovane che provava per la prima volta una gamba artificiale nuova di zecca. Forse aveva sperato che bastasse allacciarla per tornare a casa correndo. Il viso tradiva una profonda delusione. A reggerlo, passandogli un braccio intorno al corpo gracile, c’era un vecchio con indosso il grembiule marrone del magazzino. «All’inizio è sempre difficile» gli disse dolcemente. La fronte del ragazzo era madida di sudore e dolore.

«Mi lasci!» disse, in un sussurro deciso. «Mi lasci!».

«Nessuno ce la fa, la prima volta» lo ammonì il vecchio. Aveva una voce calda e intensa: una voce autorevole. Non poteva fare altro che sostenere il peso del ragazzo, le labbra arricciate per lo sforzo.

«Ce la faccio» insisté il ragazzo, la voce altrettanto stremata del corpo da cui usciva.

«Cadrai, figliolo!».

Erano vicinissimi alle sbarre orizzontali e il ragazzo protese la mano per afferrarle. Ma il vecchio lo trattenne.

«Mi lasci!». La voce del giovane era stridula. Si dimenò. «Non è più un cazzo di generale. Mi lasci, vecchio idiota!».

Il vecchio si irrigidì e mollò il ragazzo, la mano a mezz’aria, come per tirare un filo invisibile. Il giovane testardo barcollò, artigliando il vuoto e mordendosi le labbra. In un primo momento parve farcela, ma, prima che riuscisse ad afferrare la sbarra, la gamba di metallo si torse e lui rovinò a terra con un fracasso terribile, che gli tolse il respiro. Rimase un attimo immobile e inerte, poi prese a tremare, scosso dai singhiozzi e travolto da una disperazione muta e inconsolabile.

Il vecchio attese. Fissava intensamente il ragazzo, dimentico della stanza in cui si trovava. Poi si inginocchiò con tutta la cautela degli anziani e sussurrò: «Un altro tentativo, eh?».

Il ragazzo non rispose. Aveva il viso nascosto tra le braccia, ma la nuca si mosse in un cenno di assenso quasi impercettibile. Il vecchio gli arruffò i capelli con le dita, in un gesto di affettuoso rimprovero.

«Le parti delle braccia sono da questa parte» disse il capitano.

Ce ne erano rastrelliere piene, che arrivavano fino al soffitto, i componenti più grandi in vassoi bassi e quelli più piccoli raccolti in scatole di latta, con un campione di ognuno fissato sul davanti.

Douglas individuò la scatola che cercava. Spostò la scala a pioli e si arrampicò fino al ripiano su cui era poggiata. All’interno trovò un componente simile a quello che aveva raccolto da terra nell’appartamento di Shepherd Market. Evidentemente non era molto richiesto, la scatola ne conteneva solo uno. C’era legata un’etichetta: «John Spode – urgente». Douglas lo esaminò. Non era proprio identico a quello che aveva trovato lui. Questo pezzo era più semplice e leggero, privo del tubo di gomma che rafforzava e appesantiva l’altro. Se lo fece scivolare in tasca. Abbassò lo sguardo sul capitano d’artiglieria, ma quello rimase impassibile. «Le manca molto?» chiese. «Se non ci si presenta a pranzo all’una spaccata, si è costretti a mangiare con gli ufficiali di servizio nella mensa di transito e quello è un pasto che non si dimentica facilmente».

«Io non pranzo» disse Douglas. «Ho intenzione di compiere un arresto». Scese dalla scala.

«Non qui» fu la tagliente risposta del capitano.

«Prego?».

«Ha detto che desiderava parlare con un civile, e su questo non ci sono obiezioni. Ma questa è una struttura militare, estranea alla polizia civile o alle SS. Qui dentro non vale nemmeno l’autorità di Heinrich Himmler in persona. Noi riceviamo ordini solo dal Comando supremo di Berlino, attraverso il comandante in capo dell’esercito d’occupazione e il Kommandantur. Quindi, lei non arresta nessuno».

«Sto indagando su un omicidio» spiegò Douglas. «L’esercito britannico permette sempre alla polizia civile...».

«La storia antica non mi interessa» tagliò corto il capitano. «Se c’è da arrestare qualcuno, lo fa l’esercito tedesco. Ma lei dovrà produrre tutti i documenti e dimostrare di essere autorizzato a prelevare il prigioniero».

«Allora lo intercetterò prima che varchi il cancello e lo arresterò fuori dalla zona militare».

«Splendido» commentò il capitano. Aveva l’espressione compassata, ma la voce aspra. «Tuttavia, se lei è armato e ci sarà una sparatoria, ordinerò alle mie sentinelle di compiere tutti i passi necessari per salvaguardare se stesse, la struttura, il personale e i detenuti. E questo significherà un’ulteriore sparatoria, di cui lei sarà responsabile. Inoltre, riterrò un arresto avvenuto nelle vicinanze del nostro recinto un atto provocatorio, cosa che scriverò nel rapporto su di lei».

«Sono un agente di polizia da quando lei andava ancora a scuola» ribatté Douglas. «Non mi è mai servita un’arma per effettuare un arresto e non mi servirà neanche oggi».

Il capitano annuì e guardò nuovamente l’orologio, per controllare quanto mancasse all’ora di pranzo. «Perché non si mette comodo nel corpo di guardia?» disse con tono più conciliante. «Vedrà il suo uomo arrivare da Clifton Hampden, che è l’unica via di accesso, e lo acciufferà molto prima che si presenti qui».

«Benissimo» accettò Douglas.

Il capitano aprì la porta e affrontarono nuovamente il freddo, diretti verso il corpo di guardia. «Le dispiace se vado a mensa?» chiese. «Stamattina ho saltato la colazione».

«Ha dormito fino a tardi?» si informò Douglas con una punta di sarcasmo.

«Sono andato a messa» rispose altezzosamente l’altro. «Le manderò un vassoio al posto di blocco. Ha preferenze?».

«Una volta, sì. Ormai ho dimenticato quali fossero».

«Con le costolette di maiale si va sul sicuro» suggerì il capitano.

«Gentile da parte sua».

Il giovane capitano si sfiorò la visiera in un saluto fin troppo beffardo, lo sguardo duro e ostile. «È sempre un piacere aiutare i gentiluomini della Sicherheitspolizei» disse. Aprì la porta del corpo di guardia e gli fece cenno di entrare. Il fabbricato in legno, al centro dello stretto sentiero di campagna, somigliava a una cabina di manovra, con finestre su ogni lato. Da una parte c’era un piccolo bancone con uno sportello di vetro scorrevole attraverso cui i visitatori mostravano le loro credenziali.

Il casotto era avvolto nel tepore, l’aria odorava del calore della stufa a paraffina e delle ultime tracce delle sigarette spente in fretta. All’interno c’erano tre uomini. Quello allo sportello scorrevole fissava il sentiero fino alla strada che portava alle delizie di Oxford. Gli altri, seduti a un tavolo, cercavano di riparare l’ala danneggiata di un modellino di aeroplano su larga scala. I soldati scattarono sull’attenti. «Questo è il soprintendente Archer, di Scotland Yard» disse il capitano. «Resterà nel casotto per un paio d’ore, ma non farà nulla che possa interferire con il regolamento interno, vero soprintendente?».

«No, certo».

Una volta uscito il capitano, gli uomini si rilassarono e offrirono a Douglas una sedia accanto alla stufa. Lui si sistemò in modo da avere una visuale quasi completa fino in fondo al sentiero. Dopo una pausa di circostanza, il soldato al bancone si accese una sigaretta e gli altri due tornarono a lavorare con la balsa e una colla dall’odore pungente.

Gli appostamenti erano noiosi e Douglas accolse con piacere il cameriere della mensa in grembiule bianco che gli portava un vassoio di cibo: brodo in un thermos e costolette di maiale con verza, insalata verde, formaggio Liederkranz e pane di segale.

Il capitano tornò alle tre e un quarto, mentre lui finiva il formaggio. «Ancora niente, eh?». Lasciò gli uomini sull’attenti, e sistemò una sedia davanti a Douglas. «Per quanto intende restare di vedetta?».

«Arriverà» disse Douglas. Il capitano si lasciò cadere sulla sedia.

Le nuvole scure si erano addensate e aveva cominciato a piovigginare. Il capitano sbottonò il cappotto bagnato, allungò i piedi calzati di stivali ed emise il sospiro che di solito segue un pasto pesante. «Ricordo quando avevo la responsabilità di ottocento prigionieri, a bordo del traghetto che da Harwich portava in Germania. Era notte... ovvio che tentassero la fuga, avevano mogli e famiglie in Inghilterra. Alcuni riuscivano quasi a vedere casa loro; facevano parte di un reggimento reclutato in quella zona. Sapevo di dover vegliare. Nel viaggio precedente, l’ufficiale in carica aveva subito la corte marziale per aver perso due prigionieri di guerra...». Il capitano parve non notare i tre soldati, che costrinse a restare sull’attenti. «E c’erano prove abbastanza sostanziali del loro annegamento, ma l’ufficiale aveva comunque fallito: sfortuna del diavolo».

«Sfortuna del diavolo» ripeté Douglas, con un sarcasmo che cadde nel vuoto.

«I vostri Highlander erano i più tosti, uomini duri, e sulla nave ne avevamo ben due compagnie. Non gli andava giù il trasferimento in un campo di prigionia...».

Douglas captò un che di insolito nel tono e nei modi del capitano. Lo vide lanciare sguardi obliqui. Si alzò per scrutare oltre la finestra alle sue spalle. A circa trenta metri di distanza, vide un uomo con indosso il grembiule marrone di molti prigionieri. Nascondeva la testa dietro la grossa scatola di cartone che portava in spalla.

Douglas andò alla porta, sotto lo sguardo attento del capitano, che gli gridò: «Aspetti!». Ma Douglas aprì e uscì.

La scatola impedì all’uomo di vedere Douglas che correva sull’erba, schiacciando il terreno ammorbidito dalla pioggia incessante. Douglas mise la mano nella tasca posteriore. «Non spari, o farò fuoco» gridò il capitano, pensando che Douglas stesse per estrarre una pistola.

Douglas afferrò l’avambraccio dell’uomo. In mano teneva le manette. Ne fece scattare una sul polso di Spode, prima ancora che l’altro lasciasse cadere la scatola di cartone. La manica destra del grembiule di cotone si agitava nel vento freddo. «D’accordo» disse Spode. «D’accordo». E la scatola cadde a terra con un tonfo.

Douglas si girò a guardare il capitano che si era fermato all’esterno del corpo di guardia, imbracciando un fucile preso dalla rastrelliera. Douglas non sapeva se fosse per sparare a Spode, a Douglas o per difendere il sacro suolo di Little Wittenham, campo di detenzione dell’esercito tedesco. Gli sorrise e chiuse la seconda manetta sul proprio polso. «Spode, lei è in arresto».

«Per cosa?».

«Omicidio. Sono un soprintendente di Scotland Yard e la informo che qualsiasi cosa lei dirà potrà essere usata contro di lei».

«Ah, per omicidio» commentò Spode, sconsolato.

Douglas diede un calcio alla scatola di cartone, rovesciandola: all’interno c’erano i pezzi del braccio finto. Si chinò a raccoglierlo, impedito nei movimenti dal polso ammanettato a quello del prigioniero. Il capitano li raggiunse. «Cosa aveva detto in merito agli arresti effettuati su suolo dell’esercito, capitano?».

Il capitano spostò lo sguardo dalle manette al prigioniero, prima di fissarlo su Douglas. «E ora cosa vuole, soprintendente? Un bell’applauso?».

Douglas aveva giocato d’astuzia, aggirando il capitano e le sue regole. Per impedire all’agente di polizia di riportare il prigioniero a Londra, l’ufficiale avrebbe dovuto trattenere anche lui. Non aveva la certezza che Douglas avesse con sé le chiavi delle manette, e una perquisizione sarebbe stata equiparabile a un’aggressione o a un arresto. Persino il capitano respingeva l’idea.

«Mi serve una stanza per l’interrogatorio» disse Douglas.

«Sì, e mi chiedo come farà a guidare» ribatté il capitano. Sorrise. «Troviamo un compromesso» propose. «Presenzierò all’interrogatorio. Se mi convincerà di essere in possesso di elementi di prova sufficienti a carico del prigioniero, le fornirò un autista e una scorta armata fino a Londra».

«Benissimo» accondiscese Douglas. Forse il prigioniero era a digiuno di tedesco, ma, una volta che si avviarono, parve capire dove fossero diretti. Oltrepassarono il capanno di smistamento e i corridoi angusti del magazzino. Douglas notò che la scatola di latta con i perni era ancora sul bancone, aperta e vuota, come l’aveva lasciata lui. Ma il campione attaccato all’esterno era sparito. Evidentemente era stato tutto organizzato per l’arrivo di Spode, pensò Douglas. Talvolta ammirava senza riserve le risorse che i suoi connazionali sapevano sfoderare.

Il capitano fece strada verso una delle baracche di legno trattato. C’era poca differenza dai tempi della RAF: trenta letti di ferro, quindici armadietti ammaccati, due spartani tavoli di legno, quattro sedie rigide, una stufa e un secchio di metallo per il carbone. Solo che, prima dell’armistizio, nessun occupante della RAF si era mai preoccupato di tirare a specchio il linoleum crepato, lucidare alla perfezione la stufa di metallo, strofinare il tavolo di legno fino a diffondere nell’aria l’odore di resina, o ripiegare le coperte con precisione certosina.

Sopra ogni letto, una cornicetta di legno con all’interno un rettangolo di carta su cui era vergato con cura il nome di un generale britannico. Il capitano si diresse verso la stanza in fondo alla baracca, che in altri tempi aveva ospitato il sottufficiale incaricato. Douglas si accorse che sotto la mano di vernice ancora si intravedeva il nome di qualche caporale della RAF caduto nell’oblio. Sopra il nome c’era una cornice di ottone con all’interno un biglietto da visita stampato in caratteri gotici, che recitava: «Dieter Scheck, Unterfelderwebel 34. Füsilier-Rgt».

«Scheck è uno dei miei» spiegò il capitano. «Un ex artigliere, a casa in licenza. Possiamo usare la sua stanza». Aprì la porta.

Era una cameretta, ma questo tedesco aveva fatto del suo meglio per renderla confortevole. Sulla parete spiccava un minuscolo crocifisso antico, un Cristo teso e spigoloso, inconfondibilmente tedesco nella sua agonia stilizzata. Appesa sopra al letto di metallo, c’era una cartolina a colori raffigurante una Madonna con bambino di Giotto. Douglas esaminò la libreria: una biografia di Wagner, una traduzione di Wordsworth, una Bibbia, alcuni gialli tedeschi e libri sugli scacchi. Sul comodino, una scatola con i pezzi, una scacchiera ripiegata, qualche modulo del Feldpost, la posta militare, e la fattura di un mercante di tessuti di Oxford.

«Può andare?».

Era troppo piccola, ma Douglas disse che andava abbastanza bene. «Rimane?» chiese al capitano, sperando che avesse cambiato idea.

«Sì». Douglas girò la chiave nella toppa e se la infilò in tasca.

«È armato, capitano?».

«No. Perché?».

Douglas voleva solo sapere se ci fosse un’arma nella stanza, ma si limitò a fare spallucce, senza replicare. Detestava fornire spiegazioni. A Harry non doveva mai spiegare nulla. Tolse la manetta a Spode. «Non faccia sciocchezze, figliolo» disse.

Spode sorrise. Aveva un viso da bambino: era il genere d’uomo che a trent’anni ne mostrava sedici, non fosse stato che quello stesso genere d’uomo detestava l’aria infantile conferita dalle guance rosse e dai boccoli. Non era bello come gli attori, non aveva presenza, né una voce profonda o tratti distinti. Ma l’innocenza e la calma fanciullesca nei modi erano qualità difficili da ignorare.

«Lei si chiama Spode ed è il fratello di...».

«Non si stia a scomodare» disse lui. Sorrise. «Le dispiace se...». Si tolse il grembiule dalle spalle. Senza un braccio era un gesto goffo, ma se la cavò. Mise l’indumento di cotone, umido di pioggerella, sullo schienale della sedia. Indossava abiti vecchi, ma di buona fattura, e Douglas notò la mano bianca e soffice da bambino. «Mi dica, come è risalito a me?» chiese Spode. Douglas aveva visto pochi sospetti in pace con se stessi come quel ragazzo.

«Il perno del suo braccio finto. L’ho trovato nell’appartamento di Shepherd Market. Era rotolato sotto la sedia».

«Sapevo che presentarmi qui oggi sarebbe stato rischioso, ma è maledettamente difficile cavarsela senza un braccio».

«È stato sfortunato» disse Douglas, comprensivo.

«Già». Parve trovare consolazione in quel commento. «Sapevo che c’era la possibilità che fosse caduto nell’appartamento, ma era una su un milione».

«Una su un milione» ripeté Douglas. «Lei lavora in questo campo, vero?».

«Il mio congedo è a posto e sono inabile ai lavori forzati in Germania; quelli sono per gli uomini sani tra i diciotto e i quarant’anni. Aspettava che passassi, eh? Ce l’avevo quasi fatta, giusto?».

«Giusto».

«E alla Beech Road School sono riuscito a seminarla».

«Sono stato negligente» disse Douglas.

«Cercavo solo l’occasione per agganciarla. Suo figlio è un bravo bambino. Gli ho chiesto quando potevo trovarla a casa, in modo da venire a parlarle».

«Per consegnarsi?».

«Dicono che lei sia una persona rispettabile. Sui giornali scrivono che acciuffa sempre i sospetti. Mi sa che è vero». Sorrise.

«Ha ucciso suo fratello?».

«Sì» rispose Spode, il sorriso ormai svanito.

«Perché?».

«Qualcuno ha una sigaretta?».

«Certo» disse Douglas, ma il capitano d’artiglieria aveva già sfoderato un portasigarette pesante, del genere che, nella speranza delle madri, protegge il cuore dai proiettili.

«Perché non provate entrambi le mie? Quali preferisce, soprintendente? Ne ho di francesi, turche e americane».

Douglas lo fissò un secondo in silenzio. Poi disse: «È da molto che non mi gusto una sigaretta francese».

Il capitano gliene tese una e gliel’accese, prima di dire: «Permette al prigioniero di fumare?».

«Certo».

Spode sedeva su una piccola sedia con lo schienale rigido accostato alla porta della stanza. Il capitano gli tese il portasigarette aperto. «Turche a sinistra... queste sono le francesi, il tabacco esce sempre... le americane a destra».

«Grazie» disse Spode. Il capitano accese anche la sigaretta del ragazzo. Dopo aver esalato una voluta di fumo azzurrino e dolciastro, Spode parlò. «Amavo mio fratello... più di chiunque altro al mondo». Guardò fuori dalla finestra, al sole rosso del pomeriggio che si tuffava nel ribollire furioso delle nuvole cariche di pioggia. «Mio fratello voleva che diventassi un musicista». Si fermò, come se tanto bastasse a far comprendere a Douglas la portata del suo amore.

«Mio padre non aveva fede in me. Mi voleva bene, ma non aveva fede in me, in Dio, in niente». Contemplò la sigaretta, con i pensieri che vagavano lontano. «Provo tristezza per lui, Dio lo benedica». Ancora immerso nei suoi pensieri, si portò la sigaretta alla bocca con delicatezza e inalò a fondo.

«Allora perché ha ucciso suo fratello?». Douglas voleva essere brutale e ci riuscì.

Spode non si lasciò scalfire. Fumava e sorrideva. «L’ho fatto. Non basta? Desidera una confessione scritta?».

«Sì».

Spode usò l’unica carta da lettere a disposizione, un modulo del Feldpost che era sul tavolo. Tirò fuori una penna dalla tasca e scarabocchiò sul foglio, che pareva sfuggire alle maldestre dita bianche del giovane senza un braccio. «Ho ucciso mio fratello» scrisse, e firmò. Passò il foglio al capitano tedesco. «Mi faccia da testimone, capitano».

Il capitano scrisse nome, grado, matricola e data sotto la confessione, e lo passò a Douglas. «Grazie. Ma aspetto ancora di conoscere il motivo».

«Lei sembra proprio il protagonista di un vecchio giallo» commentò Spode. «Un ispettore cerca il mezzo, il movente e l’occasione. Non è questo che vi insegnano ai corsi di formazione?».

«No, lo insegnano solo nei polizieschi».

«La sigaretta migliore da anni» disse Spode. «Anche la sua è così buona, soprintendente? Immagino che in prigione non ce ne siano». Non era una frase provocatoria. Era un ragazzo semplice, privo di falsità o doppiezze. Douglas non faticò a comprendere come tante persone fossero disposte a proteggerlo dalla legge.

«Era nell’esercito?» gli chiese.

«Mio fratello e io facevamo ricerche di laboratorio. Ma quando sono arrivati i carri armati tedeschi ho tentato di dar fuoco a uno con una bottiglia di benzina. Le milizie territoriali le chiamavano cocktail Molotov. L’istruttore l’aveva fatta sembrare facile ma la Molotov che ho usato io non si è accesa. Ha preso parte ai combattimenti anche lei?».

«No. I primi tedeschi che ho visto erano una banda militare che sfilava su Oxford Street, e ho ricevuto la notizia che Londra era stata dichiarata città aperta durante la notte». Non voleva certo scusarsi, ma dover arrestare qualcuno che aveva perso un braccio affrontando da solo un carro armato lo spinse quasi a farlo.

«Non si è perso niente. È finito tutto prima ancora di cominciare. Solo un povero pazzo cercherebbe di bloccare la ruota dentata di un Mark IV con una leva alzatalloni. Mi ha superato senza neanche notarmi... e si è portato via il mio braccio». Sospirò e sorrise. «Parola mia, soprintendente, se lei fosse stato lì avrebbe fatto la differenza».

«Tuttavia...».

«Vuole una confessione o un’assoluzione?». Sorrise.

Il capitano si tolse il berretto e pulì il nastro di pelle. Era affetto da calvizie precoce, e i capelli biondi radi e sottili facevano ben poco per coprire il pallido cuoio capelluto. L’atto di togliere il berretto lo invecchiò di vent’anni: il suo non era certo lo sguardo di un giovane. Quello non era un posto adatto per un interrogatorio, pensò Douglas. Spode pareva non dare il giusto peso all’arresto.

«Suo fratello è stato ustionato dalle radiazioni» disse Douglas. «Sa di cosa si tratta?».

«Sono un fisico. Certo che lo so».

«Lavorava con lui?».

«Eravamo nella squadra del professor Frick».

«Dove?».

«In un laboratorio».

«Non sia sciocco, figliolo. Prima o poi dovrà dirmelo».

«Cosa sono le radiazioni?» chiese il capitano.

«Una sorta di emissione da nuclei atomici instabili» rispose Douglas. «Possono essere letali».

«È stato il nostro primo diverbio» disse Spode. «Mio fratello si è sempre occupato di me. Mi aiutava a fare i compiti, mi proteggeva dai bulli, si assumeva le mie colpe, togliendomele dalle spalle. Lo ammiravo e lo amavo... non abbiamo mai litigato, fino a quando abbiamo cominciato a lavorare su quel maledetto esperimento per la bomba atomica. Io non volevo partecipare. Gli avevo detto che ci avrebbe ucciso, e così è stato».

«A ucciderlo è stato un proiettile».

Spode rifletté per un attimo, poi concordò con un cenno del capo. «Ha con sé il perno?» chiese.

Douglas si frugò in tasca e lo trovò. Lo mostrò a Spode che lo esaminò come se non lo avesse mai visto prima. «L’ha trovato nell’appartamento?».

«Esatto». Spode maneggiava il componente in lega con aria meravigliata. La cosa non stupì Douglas. Aveva conosciuto altri uomini affascinati dalla prova che infine li tradiva, portandoli alla morte. Fu solo dopo aver rimesso in tasca il pezzo che sentì qualcosa di duro nell’altra tasca. Si rese conto di avergli mostrato il campione più leggero, senza il tubo di gomma, e non quello che avrebbe dovuto produrre come prova. Ma Douglas evitò di rettificare. Sul momento, non gli parve fondamentale.

«Sono arrivato lì sul presto» disse Spode. «Sapevo che aveva l’abitudine di lasciare la chiave sotto lo zerbino. Sono entrato e ho aspettato che tornasse».

«Con una pistola?».

«La pistola era sua, soprintendente. L’aveva comprata in un pub dalle parti della stazione ferroviaria di Euston. Gli era costata tre sterline».

La stanzetta si fece più buia e un improvviso scroscio di pioggia sferzò i vetri. La luce grigia che filtrava dalla finestrella si rifletté sul tavolo e colse i contorni del crocifisso.

«Perché?».

«Soffriva molto. E oltre alla fisica aveva studiato medicina. Sapeva che dipendeva solo da lui».

«Mi sta dicendo che si tratta di suicidio?».

«Difficile da spiegare. Conoscevamo entrambi i rischi. Una volta che si dà il via a un’impresa del genere, il flusso neutronico comincia a salire e, prima di capire cosa stia succedendo, si scatena una reazione a catena».

«Ma avete litigato».

«Lui non aveva protezione, io sì». Spode si fece il segno della croce. «Abbiamo discusso perché ero preoccupato per lui, per lui e per la sua anima».

Il capitano si rimise il berretto. «È omicidio, soprintendente?».

«L’omicidio è l’uccisione premeditata, intenzionale o implicita».

«Quindi non è omicidio?».

«Sarà il tribunale a deciderlo. Andiamo, figliolo. Si rimetta il grembiule». Douglas si alzò. Guardò fuori dalla finestra. Pioveva ancora.

«Eleazaro» disse Spode. «Si consegnò alla morte per salvare il suo popolo».

«Chi è Eleazaro?» chiese Douglas. Si girò verso Spode e vide che era inginocchiato in preghiera. Attese, goffo e imbarazzato, come molti davanti a una devozione profonda. La preghiera era un sussurro quasi impercettibile, attutito dalla mano che Spode teneva accostata al volto. Poi il ragazzo si ripiegò dolcemente contro le ginocchia di Douglas. Rotolò su un fianco e si accasciò a faccia avanti sul pavimento, con uno scricchiolio.

Douglas si chinò e lo afferrò per il colletto, le dita che frugavano nella bocca inerte. Avvertì l’odore aspro e inconfondiblie di mandorle amare. «Cianuro» disse. «Si è avvelenato!». Girò il corpo e cercò dell’acqua per lavargli la bocca. «Chiami l’unità medica» ordinò al capitano. «Forse possiamo ancora salvarlo».

Il capitano sollevò la cornetta. «È spacciato» disse con calma. «Ho visto l’effetto di quelle capsule di cianuro nei primi giorni dell’armistizio, quando le squadre specializzate arrestavano i criminali di guerra». Abbassò l’interruttore del telefono. «Forza, forza» disse, senza ottenere risposta.

Il corpo esanime di Spode non reagì al tentativo di Douglas di indurre il vomito. Gli occhi erano vitrei e non c’era polso.

Il capitano ripose il telefono cui nessuno aveva risposto. «Maledetti centralinisti. L’esercito sta andando a rotoli, ora che la guerra è finita. Si pensa solo a tornare civili il più in fretta possibile».

«Povero ragazzo» disse Douglas mentre chiudeva gli occhi di Spode.

«Lei non è cattolico, vero?».

«No, io non sono niente».

«Quindi non capirebbe».

«Mi metta alla prova».

Il capitano soppesò Douglas, meditabondo, poi guardò il cadavere di Spode. «Tommaso d’Aquino sosteneva che il suicidio fosse un peccato, un reato ai danni della società. Privandosi della vita, un uomo priva la società di qualcosa che le appartiene di diritto. La tecnologia moderna induce alla compassione nei confronti di chi si sacrifica per un bene più grande... i medici che rischiano deliberatamente la vita durante le epidemie, gli uomini di chiesa che si espongono alla repressione in paesi senza Dio. E le sante vergini, che si immolano per non essere stuprate. Tutti venerati come martiri».

«Eleazaro. L’ho sentito dire Eleazaro».

«Che si è sacrificato per mettere in salvo il suo popolo. Sì, per il suicida non tutto è perduto. L’essenza e la bellezza del sacramento è, e dovrà sempre essere, la riconciliazione. E se fossimo abbastanza caritatevoli da credere di aver scorto il pentimento prima della morte, gli potremmo persino concedere una sepoltura ecclesiastica».

«Ma?».

«Ha ucciso il fratello. Un cattolico non vive a lungo con un simile peso sulla coscienza».

«Avrei dovuto perquisirlo».

«Cosa le importa? Ha ottenuto la confessione e una dichiarazione scritta. Ora può archiviare il caso, non crede?».