Capitolo ventidue

«Dovrei farla fucilare» lo apostrofò Huth, appena premuto il pulsante anti intercettazioni.

Douglas rimase in silenzio.

«Se ne va da solo, senza lasciare un contatto telefonico, senza dire a me o al sergente Woods cosa le passa per la testa. Poi si introduce a forza in una struttura militare...». Huth si fermò, come se gli mancassero le parole. «Quei bastardi dell’esercito non aspettano altro che un nostro errore, e lei fornisce loro l’occasione perfetta per un reclamo. Si rende conto che ho passato gli ultimi dieci minuti a scusarmi con una nullità di colonnello? Ha proprio una bella faccia tosta, Archer. Perché diavolo tace? È rimasto senza parole?».

«Ho la confessione firmata».

«Razza di cretino. Ho mille uomini al lavoro su questa storia. Ho aperto inchieste che vanno dall’impianto di acqua pesante in Norvegia al Laboratorio Curie a Parigi. Crede che mi interessi una confessione scarabocchiata su un omicidio dell’accidenti? Quando l’omicida è già morto, per giunta?».

«Mi ha detto lei di trovare l’assassino. E io l’ho fatto, a differenza degli altri novecentonovantanove uomini di cui non fa che parlarmi. In più, ho ottenuto una confessione scritta. Si può sapere cos’altro vuole?».

Un breve silenzio, poi Huth disse: «Oh! Così va meglio. Questo suo aspetto mi è nuovo. È la prima volta che la sento alzare la voce».

«Ottimo, e visto che le piace tanto, non la smetterò più di strillare».

«Mi ascolti bene, Archer. Con quest’indagine ha combinato un disastro. Non volevo il cadavere di Spode. Volevo solo scoprire qualcosa in più sul suo conto: quel che sapeva, quel che faceva, con chi parlava al telefono. E avrei intercettato la sua posta, a caccia degli elementi che mi permettessero di sgominare gli altri membri di questa banda di balordi». Prima che Douglas potesse replicare, Huth aggiunse: «L’ha presa dalla tasca o era impiantata nella bocca la capsula di cianuro? Dove se l’è procurata?».

«Fa qualche differenza?».

«Fa differenza, eccome» ribatté Huth, nuovamente alterato. «Se l’aveva in tasca, mi servono agenti più esperti negli arresti. Se questi individui conoscono il modo di impiantarsi le capsule di cianuro nei denti, saremo costretti a rivedere tutte le procedure di fermo. E vorrei passare l’ordine alle telescriventi prima che faccia giorno».

«Dalla tasca. Si è fatto il segno della croce e ha recitato una preghiera. Potrebbe averla messa in bocca in quel momento».

«E lei se ne è rimasto lì a guardare, razza di imbecille?».

«Sì».

«E quel demente del capitano d’artiglieria ha fatto lo stesso?».

«Sì».

«E nessuno dei due l’ha visto prendere la capsula?».

«No».

«C’è la possibilità che questo ufficiale dell’esercito gliel’abbia passata?».

«Certo che no, signore».

«Non faccia il permaloso, con me non attacca. Ho dato ordine di controllare gli archivi della Gestapo a Berlino, intanto che siamo al telefono. Mi è appena arrivata una risposta via telescrivente. Il capitano Hesse è cattolico. Lo sapeva?».

«Non abbiamo parlato di teologia».

«Magari l’aveste fatto. Sapeva che anche Spode era cattolico?».

«A questo punto, ho motivo di crederlo».

«Non faccia del sarcasmo con me, Archer. Non mi piace. Le sto facendo una semplice domanda e voglio una risposta onesta. Dal momento in cui ha arrestato Spode, il maledetto capitano dell’esercito ha avuto anche solo la minima occasione di passargli qualcosa?».

«Nessuna, signore».

Douglas sentì un fruscio di fogli, mentre Huth scorreva i fascicoli che aveva sulla scrivania. «Non scriva nessun verbale, nessun appunto, per ora» disse infine. «Ce ne occuperemo insieme. Un solo errore, soprintendente, e lei finisce a Dachau. Sa cos’è?».

«Mi sono giunte delle voci».

«Tutte vere, mi creda». Douglas captò una nota d’angoscia nella voce dell’altro. «Il Reichsführer-SS potrebbe richiedermi un resoconto personale. Voglio assicurarmi che sia corretto. Stasera butterò giù qualcosa io stesso».

«Molto bene, signore».

Un’altra pausa interminabile. «Ottimo lavoro investigativo, Archer. Questo glielo concedo».

«Grazie, signore». Huth però aveva già riappeso. Douglas rimase a lungo seduto nell’ufficio che il capitano gli aveva messo a disposizione. Era quello dell’ufficiale addetto ai trasporti. L’esercito tedesco utilizzava ancora quasi solo i cavalli, e dalla finestra Douglas vide le file di stalle prefabbricate e sentì l’odore del letame ammucchiato in cortile. Era quasi buio, ormai, ma lui aspettò ad accendere la luce. Rimase a guardare fuori. Le lampade sopra le porte delle baracche si riflettevano nelle pozzanghere scure, che scintillavano nel vento freddo. C’era un silenzio mortale. Douglas stentava a credere che diverse centinaia di prigionieri – o di detenuti, come li chiamavano i tedeschi – e la maggior parte dei reduci del 34. Füsilier-Regiment, ora assegnati al servizio di guardia – fossero alloggiati in quel grande complesso.

Accese la lampada da tavolo e lanciò uno sguardo svogliato ai quotidiani e alle riviste impilati sul sottomano. C’erano copie confezionate dei giornali nazionali provenienti da Stoccarda e un Signal appena uscito.

Sula copertina, una foto a figura intera del generale Fritz Kellerman, in posa sotto l’insegna all’esterno di Scotland Yard. La didascalia recitava: «Sulle orme di Sherlock Holmes. Un generale di polizia tedesco al comando di Scotland Yard, a Londra».

Douglas sfogliò la rivista. La storia si dipanava su tre doppie pagine di foto. Douglas in persona spiccava su quella più grande, scattata mentre studiava con Kellerman l’Angler’s Times, titolo che era stato rimosso con l’aerografo dalla copertina. «Il generale Kellerman impartisce ordini al famoso Archer dello Yard, l’arguto giovane ispettore soprannominato “lo Sherlock Holmes degli anni Quaranta”. Come molti poliziotti di Londra, Archer apprezza i metodi d’indagine innovativi e rigorosi introdotti dal nuovo comandante tedesco. Il soprintendente Archer e i suoi colleghi spendono per il generale parole affettuose e tra loro lo chiamano “Padre”».

L’articolo proseguiva sullo stesso tono vellutato. Douglas raggelò all’idea che i suoi amici potessero credere a simili sciocchezze. E comprese il curioso consiglio di Mayhew, di stare alla larga dalle riviste patinate. Ma certo! Magari era stato proprio quell’articolo a causare l’aggressione nella stazione metro di Piccadilly. Chiuse la rivista e la distese sotto le mani aperte, come per schiacciarne il contenuto. Maledetto Kellerman. Era l’ennesima mossa della sua guerra contro Huth e l’SD. O forse era un altro bel passo verso la carica di Reichskommissar, sempre che Kellerman vi ambisse. Douglas era rimasto invischiato in una lotta per il potere cui si sarebbe sottratto volentieri e che metteva a repentaglio la sua vita.

Al diavolo, pensò. Al diavolo Scotland Yard e Harry Woods, Mayhew e tutti gli altri. Erano una banda di egoisti. Persino Harry sembrava inseguire il desiderio adolescenziale di diventare un eroe. E al diavolo il capitano d’artiglieria. Forse aveva sbagliato a non alimentare il sospetto di Huth, negando che fosse stato lui a procurare la capsula di cianuro. Forse il giovanotto avrebbe meritato di sperimentare in prima persona un interrogatorio della Gestapo.

Di colpo, capì quel che inconsciamente aveva sempre saputo: era stato proprio il capitano a passare la capsula di cianuro a Spode. Doveva essere nella sigaretta. Aveva scelto la sigaretta per Douglas e gliel’aveva presa lui stesso, poi aveva offerto il portasigarette a Spode. Douglas ricordò la storia del tabacco che si disperdeva. Dipendeva forse dal fatto che aveva dato un colpetto al fondo della sigaretta per rivelare la capsula nascosta tra il tabacco sparso? Gli sarebbe stato facile procurarsi strumenti tanto sofisticati. Aveva persino ammesso di essersi imbattuto in situazioni del genere durante gli arresti a guerra appena finita. Un ufficiale al comando di un reparto di rastrellamento di sicuro aveva trovato delle capsule di cianuro inutilizzate.

Tutto quadrava. Quel lagnarsi nervosamente del suo lavoro nascondeva la preoccupazione di vedersi piombare tra capo e collo un agente della SIPO. Il capitano si era offerto di scortarlo, e poi aveva cercato di ostacolare l’arresto, vietandogli di effettuarlo in una zona militare. Forse era stato lo stesso ufficiale a fornire a Spode – suo complice – il lasciapassare per accedere al deposito dall’ingresso del personale.

Ed era stato il capitano a staccare il perno dalla scatola di latta, per consegnarlo personalmente a Spode. E a confinare Douglas nel corpo di guardia, per poi distrarlo con la sua presenza ingombrante, mentre Spode arrivava all’appuntamento non dalla strada pubblica ma attraverso i campi. Il lungo pranzo e l’aria alticcia erano pura finzione; probabile che avesse passato la pausa a setacciare il posto a caccia di Spode. Non essendo riuscito a intercettarlo, era tornato al corpo di guardia e aveva avviato una conversazione interessante con Douglas per distogliere la sua attenzione dal punto in cui l’altro sarebbe comparso. Persino lasciare i soldati sull’attenti era stato un atto premeditato, che mirava a ridurre al minimo la loro efficienza. E, durante l’arresto, aveva afferrato un fucile di fanteria, forse con l’intento di far fuori il suo complice prima che parlasse.

Le frecciate ciniche sulla Convenzione di Ginevra e la durezza con cui aveva trattato Wentworth non erano stati altro che un diversivo. Il discorso sulla sua fede, invece, era stato vero. Aveva deliberatamente portato Spode nella stanza di un Unterfeldwebel cattolico, in modo che la vista del crocifisso gli procurasse un po’ di conforto negli ultimi istanti di vita. E le sue elucubrazioni teologiche sul suicidio e l’omicidio non tendevano ad assolvere solo Spode. Douglas comprese il motivo per cui nel tono del capitano era comparsa una vena di angoscia: lui stesso avrebbe dovuto convivere con un simile peccato.

Andò alla finestra. L’edificio era instabile, e lui avvertì le vibrazioni causate dai cavalli irrequieti nelle stalle più in là. Il cortile era bagnato, ma aveva smesso di piovere. Intravide una manciata di stelle tra le nuvole che si rincorrevano. Gli parve di capire il tormento dei credenti, perché, per la prima volta in vita sua, sentì vacillare la sua fede di poliziotto.

Un mezzo pesante passò rombando dalla rimessa in fondo alle stalle. Era nascosto alla vista, ma lui guardò l’orologio: a quell’ora l’ambulanza da Londra doveva essere arrivata.

Trovò due uomini di servizio nella rimessa. Uno era un impiegato dall’aria anemica, tempestato di brufoli e con un sorriso tranquillo. L’altro era un meccanico, un sessantenne muscoloso, con i baffi arricciati e gli occhiali con la montatura di metallo. Nessuna ambulanza, dichiararono. Douglas sedette con loro e chiese come si trovassero in Inghilterra. Loro gli domandarono dove avesse imparato a parlare un tedesco tanto elegante.

«E si è presentato con quella Railton» disse il grosso Oberfeldwebel. «Ecco quella che io chiamo una vera automobile. Niente a che fare con i catorci che ci tocca aggiustare qui». Puntò il dito macchiato di nicotina contro le file di vecchi camion Opel Blitz, le Austin requisite e le VW militari nuove di zecca, su cui era stato dipinto un pesce stilizzato, simbolo della divisione. Molti degli uomini che ne facevano parte erano stati reclutati nello Schwarzwald e il meccanico parlava con l’accento cantilenante tipico di quella zona.

Douglas studiò l’ufficio. Sul muro, la solita schiera di portablocchi e, sopra, un ordine firmato dall’ufficiale in comando. Era l’elenco degli ufficiali del campo, cui venivano assegnate le vetture per uso privato. «Ho già visto la sua faccia» disse il più anziano, di punto in bianco.

«Mi pare improbabile» rispose Douglas. Lesse l’elenco delle vetture.

«Non dimentico mai una faccia, io. Giusto Walter? Mai».

«È famoso per questo» disse l’impiegato, pieno d’ammirazione. «Non dimentica mai una faccia».

«Trovato! Lei è un poliziotto». Esibì un sorrisone compiaciuto. «È di Scotland Yard. Archer dello Yard. Dove diavolo ho letto di lei di recente...?».

Douglas decise di non aiutarlo a ricordare.

L’Oberfeldwebel scosse il capo, entusiasta fin quasi all’incredulità. «Lei è l’ispettore che ha risolto l’avvelenamento di Bethnal Green e che ha catturato “lo Squartatore di Rottingdean” prima della guerra».

Non si lasciò scoraggiare dal fatto che Douglas non confermasse. Né smise di parlare.

«Archer dello Yard! Be’, mi venga un colpo. Sono un appassionato di delitti misteriosi. Nella finzione come nella realtà. Nel mio appartamento di Forbach ho una stanza piena di libri, riviste e ritagli di giornale». Si tolse il berretto di tessuto bisunto e si grattò la testa. «Ho letto di lei proprio di recente... la conoscevo già, ovviamente, è famoso... ma ho letto di lei. Dove, Walter?».

«Su Signal, Oberfeldwebel» disse l’impiegato.

«Ma certo» esclamò il vecchio, battendosi un pugno enorme nel palmo della mano. «La prima volta che ho sentito parlare di lei è stato per quel caso di Camden Town. Il marito che uccide la moglie con del pesce andato a male – granchi, mi pare – e che la fa quasi franca. Ottimo lavoro investigativo, davvero. Doveva essere il 1938, più o meno».

«Dicembre del 1937» rispose Douglas. «Non Camden Town, ma Great Yarmouth».

«Great Yarmouth, sì, e lei ha scoperto che la donna era allergica al pesce grazie alla sorella». Lo misurò con lo sguardo e scosse nuovamente il capo. «Chi l’avrebbe mai detto che mi sarei trovato qui, a parlare proprio con Archer dello Yard? Caffè?».

«Volentieri, grazie».

Il vecchio si tolse gli occhiali e li fece scivolare nell’astuccio di cuoio prima di infilarli nella tuta da lavoro nera. «Porta tre caffè, Walter. Di’ al Feldwebel che sono per me e che voglio del caffè vero, non quella schifezza di surrogato. E un bricco di panna, se vuole che gli revisioni un’altra volta quel trabiccolo di motocicletta».

«L’ambulanza dovrebbe essere qui, ormai» disse Douglas.

«Avranno fatto tappa lungo la strada» rispose il vecchio. «Sono delle SS, no? Gente che sa come vivere, e la nostra Feldgendarmerie non si azzarda certo ad andarli a recuperare». Guardò l’orologio da taschino. «Ho sentito che vengono a prelevare un cadavere. Ovvio, avrei dovuto fare due più due quando ho saputo che lei era con il capitano Hesse».

«Fare due più due?».

«Cioè quattro. Lei che arriva da Scotland Yard, e che poi passa la giornata con un ufficiale dell’Abwehr».

«Il capitano Hesse è dell’Abwehr?».

L’altro ridacchiò. «Non deve certo fingersi stupito con me. Non lo dirò ad anima viva. E comunque, qui sono in parecchi a sapere del capitano Hesse».

Douglas scrutò l’uomo, intanto che soppesava l’informazione. L’Abwehr era l’unità del controspionaggio dell’esercito che si occupava di spionaggio internazionale. «Che cosa ci fa qui un ufficiale dell’Abwehr?».

«Se non lo sa lei... Il capitano – in realtà è solo un sottotenente, ma quelli dell’Abwehr usano l’uniforme che vogliono – va e viene a suo piacimento. Ha a sua disposizione quella bella Horch, priva di contrassegni o di simboli tattici, come può vedere». Walter ricomparve con un vassoio di latta e due bricchi. «Stavamo giusto parlando del nostro capitano Hesse, Walter. Spiegavo al soprintendente Archer quanto è simpatico».

Walter sorrise, registrando la pretesa di intimità dell’Oberfeldwebel con il poliziotto. Versò il caffè e bevvero in silenzio.

«Mia moglie e mio figlio resteranno increduli quando glielo scriverò» disse l’Oberfeldwebel. «Seguono entrambi i casi di omicidio più importanti. La prossima volta che vado a Londra ho intenzione di fotografare quel posto a Pimlico in cui hanno trovato i resti della ragazza: gli omicidi del coltello da pane, ricorda?». Sollevò il coperchio del bricco e sentì l’aroma di caffè. «Oh, giustappunto, Walter: il capitano Hesse mi ha telefonato poco prima che arrivasse il nostro ospite. Stanotte, intorno alla mezzanotte, avrà bisogno della vettura. Assicurati che il serbatoio sia pieno e che la richiesta sia pronta per la firma. Sai quanto detesta dover aspettare». Tornò a inforcare gli occhiali, prese il portablocco e si mise a esaminare l’elenco di veicoli in uscita il giorno dopo. «Dunque, aspetterà qui l’arrivo dell’ambulanza, soprintendente?». Arricciò la punta del baffo.

«No» rispose Douglas, assecondando un impulso improvviso. «Gli accordi per lo spostamento del cadavere sono stati fissati. Recupero la macchina e, per una volta, tento di tornare a casa a un’ora decente».

L’Oberfeldwebel lo scortò fino alla Railton parcheggiata in fondo al cortile. La conversazione si spostò su consumi e velocità della vettura dell’ispettore. Mentre Douglas saliva a bordo, l’altro fece un’amorevole carezza alla vernice. «Sapevano come costruire una macchina, all’epoca».

L’aria fredda della notte portò una lieve musica. Il vecchio vide Douglas piegare il capo, in ascolto. «Il coro» disse. «Il coro del comando di divisione. Bambini! Arruolati dopo la fine dei combattimenti. Non sanno cosa sia la guerra. Guardi quel ragazzino brufoloso di Walter, giù in ufficio... sono turisti, non soldati».

«E cantano nel coro?». Ora la melodia era più distinta. Astro del ciel, pargol divin, ventiquattro energiche voci giovanili, ma sufficientemente armoniose.

«Ci sarà una grande festa di Natale per i bambini inglesi del posto. Mi stupisce la quantità di denaro raccolto. Al Natale mancano ancora parecchie settimane». Fece scorrere la mano sulla vernice. «Arrivano continuamente giovani reclute. Noi della vecchia guardia stiamo per tornare a casa. Presto la guerra sarà dimenticata».

«Forse» sottolineò Douglas.

«Non da noi che l’abbiamo combattuta, ma non resteremo tanto a lungo da poterla raccontare, giusto?».

Douglas sgasò. «Un caffè maledettamente buono» disse.

Il vecchio si avvicinò. «Se le serve una revisione della macchina, venga a trovarmi, soprintendente». Si batté il naso, come a dire che si trattava di un favore personale.

«Grazie e buonanotte» rispose Douglas. Arrivò alla sbarra all’ingresso del cortile della rimessa. Mentre aspettava di poter uscire, il giovane impiegato lo raggiunse brandendo quello che alla flebile luce pareva un enorme fucile. Infilò la «canna» nel finestrino, puntandola alla testa di Douglas. Allertata dal movimento improvviso, una sentinella sull’altana volse il riflettore verso di loro, abbagliando Douglas.

«Cosa c’è?» chiese, in preda all’agitazione.

«Potrebbe farmi un autografo?» chiese l’impiegato. La canna di fucile si trasformò in una copia arrotolata di Signal. Douglas scarabocchiò la sua firma sull’angolo della copertina con mano tremante.

«Grazie, e buona caccia» lo salutò l’impiegato, con una frase palesemente preparata in anticipo.

«Buonanotte» rispose Douglas, mentre la sbarra veniva sollevata.

Oltrepassò il Barley Mow Pub e il ponte angusto che porta a Clifton Hampden. Di sera, con gli altri cancelli del campo ormai chiusi, era l’unica via percorribile. All’altezza del ponte c’era un posto di blocco dell’esercito tedesco. Superato il blocco, Douglas trovò una via secondaria poco battuta e accostò la Railton. Spense i fari e si dispose in attesa del capitano Hesse e della sua Horch quattro porte decappottabile priva di contrassegni.

Fu un’attesa breve. L’auto svoltò a destra all’incrocio a T dopo il ponte e si immise sulla strada che attraversava Shillingford e Wallingford, dirigendo a est, verso Londra.

La luna era calante e la luce filtrava a intermittenza tra le nuvole. Douglas non era pratico di pedinamenti, ma stare dietro alla Horch fu abbastanza facile. A quell’ora di notte circolavano solo mezzi ufficiali: un lungo convoglio di carri militari tirati da cavalli, uno più breve di camion della Luftwaffe, qualche staffetta in moto, un pullman civile con a bordo gli operai al cambio di turno. Un viavai che aiutò Douglas a tenersi in ombra.

Incrociarono sei posti di blocco, ma le sentinelle diedero a malapena un’occhiata all’adesivo sul parabrezza delle due auto. Il capitano Hesse conosceva bene Londra. A Shepherd’s Bush svoltò su Holland Road e si immerse in un dedalo di viuzze. Douglas tenne le distanze, per evitare che la sua preda lo notasse in quelle strade vuote e buie. Ma Hesse non pareva sospettoso. Era diretto verso Vauxhall Bridge Road e l’agglomerato di alberghi cadenti e pensioni sordide sul lato di Westminster della stazione Victoria. Douglas ricordava che non era mai stato un quartiere salubre, ma l’arrivo dei tedeschi aveva contribuito a farne uno dei più malfamati di tutta Europa. Ad attirare lì i soldati non erano solo le donne – i bordelli ufficiali della Wehrmacht erano più puliti, economici e allettanti, a meno che non si fosse dei veri depravati – ma anche gli affari. Lì si poteva comprare di tutto: uomini, donne, bambini, eroina a chili, una P38 automatica fresca di fabbrica, ancora piena di grasso, documenti falsi e persino veri. I militari continuavano ad affluire in quel posto, a dispetto delle pattuglie regolari e delle sanzioni severe. Era come se, in mancanza di un campo di battaglia, andassero a caccia di altri rischi.

Hesse parcheggiò tra le macerie di quello che un tempo era stato il Victoria Palace Music Hall. Ci andava con i genitori, da bambino. Ora il golfo mistico era infestato di erbacce e fiori e una fila di poltrone se ne stava sbilenca e ubriaca tra i resti del palco reale. Aspettò che Hesse uscisse dall’ombra di quel che rimaneva della volta dell’auditorium. Attraversò la strada, verso il piazzale della stazione Victoria, dove due giganteschi ritratti di Hitler e Stalin, corredati di bandiere e bandierine, si increspavano e ruggivano nel vento freddo. Douglas rimase immobile mentre una pattuglia della Feldgendarmerie marciava su Victoria Street. Il comandante ignorò la figura allampanata di Hesse. Il lungo cappotto da civile con il collo di pelliccia, il cappello floscio di feltro calzato in un’inclinazione sobria, i guanti di pelle nera e il passo sicuro facevano di lui un ufficiale tedesco.

Su Vauxhall Bridge Road, illuminata dalle insegne sgargianti delle pensioncine e degli alberghi e dalle luci dei caffè aperti tutta la notte, Douglas lasciò che il capitano lo distanziasse. Un uomo con un cappotto di tweed uscì da un androne e barcollò verso il capitano, salvo poi decidere che non era il tipo da foto pornografiche e infilare in tasca la busta che teneva in mano. Hesse accelerò il passo e sollevò il collo di pelliccia, nascondendo il volto.

Era già stato lì. Douglas ne era più che sicuro, perché il capitano non si guardò intorno, né sollevò gli occhi sull’insegna Hotel Lübeck, pitturata in modo approssimato sopra un portone angusto. Qualche scheggia di vetro – verde cupo e curvo, quindi di bottiglia – si annidava nelle crepe del linoleum lercio. Douglas lo seguì all’interno, facendo scricchiolare il pavimento di legno. Il capitano salì i gradini senza voltarsi. Nel buio, allungò la mano con sicurezza verso l’interruttore. Una lampadina a basso voltaggio prese vita sul pianerottolo del primo piano sopra di loro.

«Allora, amico, come possiamo aiutarti?». Un uomo dalla faccia pallida, stretto in un impermeabile, uscì dall’ombra e sbarrò la strada a Douglas.

«Devo andare di sopra» sussurrò lui, per non attirare l’attenzione.

«Qui è tutto privato» rispose l’altro. «Albergo privato, stanze occupate. Sono ammessi solo gli ospiti e il personale». Posò la mano di piatto sul petto di Douglas. A dispetto della reputazione di poliziotto garbato e paziente, Douglas avvertì il forte impulso di colpire l’uomo. Ma si trattenne.

«È appena salito un ufficiale tedesco».

«Ne sono ben consapevole, amico mio» disse il tipo in impermeabile, scegliendo la sintassi pedante utilizzata da burocrati e bulli. «Ma temo proprio che tu dovrai restare fuori».

«Sono l’autista del capitano. Ha dimenticato di dirmi a che ora devo tornare a prenderlo».

Gli occhi sfuggenti dell’uomo andarono dai vestiti alla faccia tesa di Douglas. «Sei il suo autista?».

«Sì». Tra i papponi brutali e gli autisti e i portieri che mandavano loro i clienti c’era una complicità connaturata.

«Datti una mossa» disse il tipo, a denti stretti. Douglas lo oltrepassò e arrivò al primo piano in tempo per sentire i passi del capitano salire verso il secondo. Un’altra luce si accese su un altro pianerottolo.

Il capitano si avviava verso il terzo piano, quando si spalancò una porta da cui uscì un soldato. Era un omone, la faccia arrossata dall’alcol e il cappello floscio sbilenco. Cantava Ich hatt’ einen Kameraden intanto che si allacciava la patta. Scorse il capitano Hesse e si raddrizzò, armeggiando con i bottoni della casacca. Hesse fece per oltrepassarlo, ma il soldato tese il braccio, bloccandogli la strada e chinandosi su di lui. Ostentava la boria tipica degli individui grandi e grossi, unita alla spavalderia dell’ebbrezza. «Lei mi sembra una brava persona, capitano». Scorse la casacca dell’uniforme e i gradi sul colletto dell’altro. Si sostenne al mancorrente delle scale. «Va di sopra, eh?». Hesse tentò di passare, inutilmente. «Ottimo. Le ragazze degli ufficiali stanno all’ultimo piano, no? Mi stavo proprio domandando perché mai noi poveri diavoli di Feldgrauen non possiamo salire di sopra».

«Mi lasci passare, prego».

«Sono stato ferito a Dover, capitano» disse il soldato, tutto orgoglioso. «Sono sbarcato con il primo contingente. Guardi qua!». Batté sullo stemma della campagna d’Inghilterra sul taschino sinistro. «Non se ne vedono mica tanti, in giro. Solo quelli del primo contingente li hanno ricevuti d’oro. E siamo rimasti in pochi, capitano».

«Mi lasci passare» ripeté Hesse, sempre più impaziente.

«Non è bello minacciare di chiamare la maledetta Feldgendarmerie» disse l’ubriaco, pronunciando la parola con cura eccessiva. Picchiò col dito sul petto di Hesse. «Perché qui siamo tutti peccatori. Giusto, capitano? Giusto?».

Hesse si districò delicatamente e oltrepassò l’uomo.

Il soldato si voltò per guardarlo salire la rampa di scale. Alzò la voce. «Tutti peccatori, qui, capitano. Ho ragione o no?». Non ottenendo nessuna risposta, afferrò il mancorrente e cominciò a scendere i gradini ripidi con cautela. Emise un rutto sonoro e di colpo riprese a strepitare la sua canzone. «Ich hatt’ einen Kameraden...».

Douglas si rannicchiò nell’ombra quando l’altro gli passò accanto. Lo scatto lieve di un interruttore a tempo, e il pianerottolo piombò nel buio pesto. La canzone si interruppe bruscamente. «Ne sono rimasti pochi del primo contingente, capitano» sussurrò il soldato con tristezza mentre proseguiva, la sbornia svanita al ricordo.

Douglas salì le scale di corsa, in tempo per sentire il capitano Hesse suonare un campanello da qualche parte all’ultimo piano. Due squilli brevi e due lunghi. Il suono trafisse quel labirinto sudicio. Dopo una lunga pausa, i catenacci ben oliati della porta scorsero. Il capitano fu accolto senza una parola di benvenuto. Douglas vide il taglio di luce gialla colpire il pianerottolo e sentì un fruscio di stivali sullo zerbino. Poi la porta si chiuse.

Salì le scale fino all’altezza del pavimento del pianerottolo dell’ultimo piano. La porta da cui era entrato Hesse era vecchia e la vernice azzurra era annerita e screpolata dal tempo. Sul numero d’ottone – 4a – c’erano gli schizzi di una poco accurata pittura stantia.

L’ultimo degli interruttori a tempo scattò e l’intera scala fu avvolta dalle tenebre. Douglas si avvicinò alla porta e accostò l’orecchio. Musica, forse da un altro piano: Judy Garland che cantava When you wish upon a star. Douglas accostò la mano al campanello e ripeté il segnale dato da Hesse. Aveva la sensazione che qualcuno lo stesse scrutando nell’ombra.

Il catenaccio scivolò e la porta si aprì piano. Douglas si ritrasse, non sapendo cosa aspettarsi. Un uomo si stagliò in controluce sulla soglia. Indossava un cappotto di pelle grigia da ufficiale tedesco e teneva la mano destra infilata in una tasca.

Douglas strizzò gli occhi alla luce della lampadina nuda appesa nell’ingresso. «Voglio parlare con il capitano Hesse» dichiarò in fretta, per guadagnare tempo.

«Soprintendente Archer, sarà meglio che entri». Era il colonnello Mayhew, che si morse un labbro, in un raro guizzo di preoccupazione. «Come diavolo ha fatto a trovare questo posto?».

Era un piccolo appartamento squallido: tre stanze e una cucina. L’abituale organizzazione da casa d’appuntamenti, tre ragazze al lavoro e qualche vecchia ad aprire la porta ai clienti, a pulire quando se ne andavano e a preparare quantità infinite di tè, oltre che a offrire una presenza continua in caso qualche pazzoide prendesse troppo sul serio la propria flagellazione.

Se non altro, quello era stato fino a poco tempo prima. Ora i letti erano stati smontati e adagiati contro le pareti e il bidet di smalto sbreccato era stato nascosto dietro a uno schedario. Sui minuscoli lavandini c’erano dei raccoglitori. Solo le tende risalivano all’arredamento originale. Le case d’appuntamenti sfoggiavano sempre delle tende rispettabili.

Il capitano Hesse se ne stava accanto alla stufa elettrica. Indossava ancora il cappotto pesante con il collo di pelliccia e i guanti regolamentari. Girò lievemente il capo per vedere Douglas, ma evitò di guardarlo in faccia. Invece, rabbrividì e si accostò alla stufa.

«Tutto a posto, Hans» gli disse Mayhew. «È uno dei miei». Hesse annuì, come se quella spiegazione servisse solo a procrastinare il suo destino.

«Cosa la porta quaggiù?» chiese Mayhew, mantenendo un tono neutro.

«Il capitano Hesse. L’ho seguito dal suo campo a Wittenham».

«Mi ha telefonato. So tutto».

«E?».

«Prima o poi l’avremmo messa al corrente».

Si aprì la porta della stanza accanto. Un uomo con l’uniforme da Feldgendarmerie Major disse: «Hesse, entri».

Hesse si irrigidì, batté i tacchi e seguì il maggiore, che chiuse la porta alle loro spalle.

Rimasto solo con il colonnello, Douglas andò alla stufa e si scaldò le mani, concedendo all’altro il tempo di decidere cosa dire.

«Sono tutti membri dell’Abwehr» dichiarò infine Mayhew. «Stiamo negoziando con loro da un paio di mesi».

«Negoziando?».

«Ci aiuteranno a liberare il re. L’esercito tedesco ritiene che la situazione attuale sia disonorevole. Hanno sempre creduto che il re dovesse essere posto sotto la tutela delle unità dell’esercito, non delle SS».

«Mi pare che cambi poco» disse Douglas, dubbioso.

«Non per loro» ribatté Mayhew. «L’alto comando a Berlino ha segretamente autorizzato l’Abwehr a favorire la fuga. Saranno loro a organizzare tutta l’operazione, sempre che in un secondo tempo noi li copriamo».

Douglas fissò Mayhew, cercando di decifrare quell’uomo subdolo e complesso. «Mi nasconde qualcosa, colonnello».

Mayhew arricciò le labbra, come se avesse assaggiato un limone particolarmente aspro. «I tedeschi si sono impadroniti dello stabilimento di ricerca di Bringle Sands, nel Devon. Sperano di produrre esplosivo atomico. È stato lì che il dottor Spode si è procurato le ustioni da radiazioni. Spode ha rubato i risultati di alcune delle ricerche fondamentali, anni e anni di calcoli matematici».

«I documenti che sono stati bruciati nell’appartamento di Shepherd Market?».

«Sì. Il fratello minore, John, l’ha convinto che doveva impedire ai tedeschi di mettere mano su una simile arma». Mayhew si protese, in cerca del calore della stufa.

«Huth sta tentando di riassemblare i resti carbonizzati, ma non troverà niente».

«Alcuni tedeschi ritengono che il progetto sia una spesa inutile. Altri, tra cui Huth e Springer, hanno capito che se questo esperimento fantasioso riuscisse, significherebbe il dominio militare dell’intero pianeta. E gli uomini e l’organizzazione responsabili del progetto assumerebbero altrettanta importanza all’interno del sistema». Mayhew si strofinò bruscamente le mani. Era un vezzo dettato dal nervosismo. Sorrise a Douglas, quasi ammettendo di nutrire una preoccupazione segreta di cui non poteva parlare.

«L’esercito procederà comunque con il piano di liberare il re, malgrado i documenti siano andati distrutti?».

Mayhew arpionò il braccio di Douglas in una stretta violenta.

«Siamo quasi certi che ne esista un duplicato, soprintendente Archer. Il dottor William Spode era troppo cauto per affidare il lavoro di una vita a una valigetta, senza prendere qualche altra precauzione».

«Ne è sicuro?».

Mayhew lanciò uno sguardo da sopra la spalla alla porta dietro cui era scomparso Hesse. «Ne siamo sicuri entrambi, Archer» disse con aria cospiratoria. «E si ingegni di dirglielo. Se perdono le speranze di mettere le mani su quei documenti, le possibilità di rivedere il nostro re vivo si riducono quasi a zero».

Aveva appena finito di parlare, che la porta si aprì. «Il generale desidera vedervi entrambi» disse il maggiore.

La stanza era stata rigorosamente ripulita, ma la vecchia carta da parati a fiori macchiata, il parquet deformato e le lampadine nude emanavano un’atmosfera di povertà assoluta. Al centro, sei sedie rigide disposte intorno a un tavolo lucido. Sulla superficie graffiata c’erano quattro blocchi per gli appunti, un barattolo di marmellata con dentro delle matite appuntite e alcune mappe arrotolate.

Il maggiore che li aveva fatti entrare tornò al suo posto al tavolo. Con lui c’erano altri due militari con indosso l’uniforme da capitano di fanteria e un uomo alto, anziano, canuto, in gessato grigio. Gli occhiali cerchiati d’oro e i baffi curati si intonavano con il colletto rigido e la spilla da cravatta d’oro. Douglas riconobbe il Generalmajor Georg von Ruff, che con il suo distaccamento dei servizi segreti sulla linea del fronte aveva protetto le gru e le cisterne di Portsmouth dal tentativo di abbatterle delle squadre di demolizione della Royal Navy. In tal modo, si era guadagnato sul campo il conferimento della croce di cavaliere. Fumava una sigaretta da un bocchino d’avorio e giocherellava con un portasigarette sul tavolo davanti a lui.

Il capitano Hesse, ancora in cappotto, sedeva a una certa distanza dagli altri. «Quindi è morto anche lo Spode più giovane?» chiese il Feldgendarmerie Major. Era un uomo di mezza età, con gli occhiali montati in corno e l’abitudine di battere con la matita sulla superficie del tavolo.

«Così pare» rispose Mayhew. Stava impettito, come sul banco degli imputati in un’aula di tribunale. Tutti nella stanza sembravano intimoriti da von Ruff. Tutti, tranne Douglas.

«E il suo ufficiale di polizia ha seguito il capitano Hesse fin qui?».

«Sì» rispose Douglas, che non amava sentirsi ignorato.

«Sarò da lei tra un attimo» ribatté il Feldgendarmerie Major.

Douglas fece un passo avanti, prese una sedia per lo schienale, la sistemò e si accomodò, senza essere stato invitato a farlo. «Mi stia bene a sentire, maggiore» disse piano. «E dica al suo generale di fare altrettanto, dato che sembra non sia in grado di parlare per sé. Non me ne starò qui seduto, mentre voi discutete del mio caso. Dovrete corteggiarmi parecchio per ottenere la mia collaborazione, perché sono un tipo difficile da conquistare».

Il generale volse rigidamente il capo e gli scoccò un’occhiata gelida. Poi accese una nuova sigaretta dal mozzicone della precedente.

Il maggiore batté la matita per attirare l’attenzione e disse, con calma: «Lei ha i modi impertinenti dei rivoluzionari. Non la porteranno da nessuna parte. Mi permetta di ricordarle la sua posizione...».

Douglas si protese sul tavolo, quanto bastava per sfiorare la mano del maggiore con il polpastrello. Il maggiore sussultò. «No. Permetta lei a me di ricordarvi la vostra posizione. Io sono un poliziotto che indaga su un omicidio. Ho motivo di credere che il capitano Hesse sia coinvolto e l’ho seguito fin qui per interrogarlo». Guardò i tedeschi uno a uno. «E lo trovo in circostanze che mi paiono quantomeno insolite. Siete voi, a dovermi delle spiegazioni».

«Sta scherzando con il fuoco, soprintendente» disse il maggiore.

«Che non scotta quanto quello con cui state scherzando voi» rispose Douglas. Si spaventò, accorgendosi di avere la voce stridula e strozzata da un nervosismo che gli serrava le corde vocali. «Crede proprio che otterreste il sostegno del comandante in capo tedesco della Gran Bretagna, o di Berlino, se consegnassi un rapporto sulla morte del giovane Spode questo pomeriggio?».

«Non è ancora uscito di qui» disse il maggiore.

Il generale strizzò gli occhi, come fosse addolorato da quella minaccia esplicita.

«La mia auto è dotata di un radiotelegrafo» lo informò Douglas. «Non mi addentrerei mai in un quartiere malfamato come questo a tarda notte senza prendere qualche precauzione».

«Cos’ha detto?».

«Niente che non si dovesse dire». Seguì un lungo silenzio. Douglas serrò i pugni e avvertì il sudore sui palmi. Durante quello scambio di battute, Mayhew era rimasto in disparte, pronto a intervenire.

Il generale von Ruff si protese, come per condividere un segreto. Parlò, la sua voce arrochita dal rantolo bronchiale dei fumatori incalliti. «Può aiutarci a recuperare i calcoli del dottor Spode, soprintendente?».

«Credo di sì, generale».

«Ci servono delle garanzie» intervenne il maggiore, battendo la matita sul tavolo, prima di scrivere sul taccuino.

«Ovvio» disse Douglas.

«Il capitano Hesse non deve comparire sul verbale che stilerà per le autorità».

«Comparirà, invece, in quanto testimone della morte di Spode. Non posso evitarlo».

Il generale sollevò lentamente lo sguardo verso il punto in cui si trovava Mayhew, una mano in tasca e un sorriso fisso in volto. Una postura artificiale per un uomo del genere, e Douglas ne dedusse che condivideva il suo timore.

«Dovrò sapere come intendete disporre di Sua Maestà» disse il generale. La voce tradiva una sfumatura di ammirazione per il monarca in prigione. «La sua salvezza è un nostro punto d’onore».

«Lo metteremo su un aereo che decollerà da uno degli aeroporti dismessi, signore» disse Mayhew. «Un nostro ufficiale ci consiglierà quello più opportuno».

«Andrà anche lei?».

«Finora non ho ricevuto ordini in merito, signore».

Era il tipo di risposta che il generale capiva e approvava incondizionatamente. Guardò Douglas, nella speranza di scorgere un poco della stessa inclinazione al rispetto degli ordini, ma non ne vide neanche l’ombra. Douglas estrasse un fazzoletto e si soffiò il naso. Il generale distolse lo sguardo e fece un anello di fumo. «Non c’è altro» disse. Salutò tutti i presenti con un cenno e si alzò in piedi. Gli ufficiali tedeschi scattarono sull’attenti e rimasero immobili mentre il loro comandante dava la buonanotte. Poi, uno dei capitani lo aiutò a infilare il cappotto. Douglas rimase seduto e il generale se ne andò in silenzio, senza degnarlo di un’occhiata. Fu solo quando il capo dell’Abwehr fu uscito, che i suoi subalterni si rilassarono un poco. Il maggiore si slacciò il colletto e sospirò, sollevato. Perse ogni interesse per Douglas.

Una volta in macchina con Douglas, il vulcano che sobolliva nella testa di Mayhew eruttò. «Lei è un maledetto pazzo, Archer. La conosco da tanti anni, ma non avrei mai sospettato che potesse dare i numeri come stasera». Il suo tono era scevro dalla seppur minima ammirazione.

«Non mi dica». L’opinione di Mayhew non gli interessava. Douglas Archer era un uomo diverso, e la sua nuova pelle lo divertiva molto.

«Il generale von Ruff è l’ufficiale referente dell’Abwehr in Gran Bretagna. Ha idea di cosa significhi?».

«Non me ne frega niente. Sono stufo di farmi prendere a calci da questi tedeschi».

«Notevole, davvero» disse Mayhew in tono di rimprovero, più che di stima. «E cosa dovrei fare, io, per rimediare a questo guaio?».

«Guaio?».

«Ha convinto gli unni di essere in possesso dei documenti di fisica atomica. Questo, però, ci garantisce pochissimo vantaggio. Presto ci chiederanno un campione di qualche pagina. E a quel punto cosa diavolo faccio?».

«Abita ancora in Upper Brooke Street?» chiese Douglas, svoltando dietro un angolo.

«Sì».

«Un aeroplano che decolli da un aeroporto dismesso. L’ha detto per gli unni o ritiene veramente che sia il modo migliore di far uscire il re dal paese?».

«Ha qualche alternativa da proporre?».

«Se quel che mi ha detto di Franklin Roosevelt è vero, le basta fargli raggiungere l’ambasciata degli Stati Uniti. Potrebbero spedirlo via come posta diplomatica. Ho visto persino dei vagoni merci con sopra i sigilli diplomatici».

«Molto ingegnoso» disse Mayhew con tono condiscendente. «Ma l’ambasciatore americano alla corte del Palazzo di San Giacomo è Joseph Kennedy. Le devo forse ricordare cosa ha detto al convegno dei costruttori tedeschi la scorsa settimana? Non è amico degli inglesi, e men che meno un monarchico».

Douglas borbottò qualcosa.

«Diplomaticamente parlando, lei è un’anima candida, Archer. Riesce a immaginare le conseguenze politiche per Roosevelt se si sapesse che ha aiutato il re a fuggire dall’Inghilterra?».

«Allora dei documenti falsi ben confezionati, che convincano i tedeschi che si tratta di una missione diplomatica» propose Douglas.

«Peggio ancora. La fuga della famiglia reale passerà alla storia. Vuole davvero che veniamo ricordati per aver fatto uscire il re dal paese falsificando la firma di un estraneo?». Scosse il capo, scartando l’idea. «E per lo stesso motivo, non possiamo permettere a Sua Maestà di prestarsi a qualche ridicolaggine, come vestirsi da cameriera o fingersi un addetto tedesco alle latrine».

«Meglio che i libri di storia scrivano che è morto coraggiosamente?».

«Non sia offensivo, Archer» disse Mayhew con un tono sommesso, ancor più minaccioso perché più sincero. «Mi dica come devo comportarmi con la favola che ha inventato... cosa riferire in merito ai calcoli».

Douglas schiacciò l’acceleratore e lanciò la Railton rombante su Park Lane, dirigendo a nord oltre le macerie bombardate del Dorcerster Hotel. Accostò davanti alla bella residenza londinese del colonnello Mayhew, prima di rispondere. «Non c’è nessun guaio da risolvere, colonnello» disse, mentre l’altro apriva la portiera. «Ho io i calcoli; si tratta solo di decidere se consegnarli ai suoi amici tedeschi».

Mayhew era sul marciapiede. Infilò la testa nell’abitacolo per guardarlo in faccia. «Dove?» chiese, incapace di celare una sorpresa e una curiosità che in circostanze diverse avrebbe giudicato volgari. «Dove sono i calcoli?».

Douglas si protese per mettere la sicura alla portiera e diede un paio di sgasate, mandando il motore su di giri. «Nella tasca del mio panciotto» disse, sorridendo, e filò via. Dallo specchietto retrovisore vide Mayhew che lo fissava stupefatto e provò un piacere infantile che lo fece scoppiare a ridere.