Capitolo ventitré
Il mattino dopo, i due bambini notarono il cambiamento nell’umore di Douglas Archer, ignari del fatto che si trattava di un cambiamento radicale e definitivo. Douglas si era scrollato di dosso la depressione che l’aveva schiacciato dall’arrivo dei tedeschi. Si era affannato fino ad ammalarsi per conciliare il suo lavoro di poliziotto con la macchina repressiva e mortale dell’amministrazione tedesca. Ormai, però, aveva le idee chiare sul da farsi. E tornava ad assaporare una felicità che la scomparsa della moglie aveva cancellato.
Durante la colazione i bambini risposero allegri agli scherzi e alle battute di Douglas, e la signora Sheenan rispolverò una sciocca filastrocca sulle cornamuse. Per le frittelle – cui di solito sacrificava le ultime uova razionate – tirò fuori un barattolino di miele fatto in casa dal cugino in campagna. Era già un giorno memorabile.
Douglas arrivò a piedi fino a Soho. Fece la prima visita in Moor Street. Peter Piper un tempo aveva uno spledido ufficio con la moquette, pochi isolati più a ovest, in una residenza georgiana di Mayfair. All’epoca «Pip» era un giovane regista di spicco del cinema inglese.
All’occhio dell’osservatore distratto o del turista, quelle case a schiera di mattoni neri e la loro controparte di Mayfair forse apparivano simili, ma, una volta all’interno, era impossibile non notare che qualche speculatore edilizio ormai morto e sepolto si era arricchito con un drastico taglio alle spese. C’era una sola tubatura, inserita in un angolo delle scale anguste, collegata a un piccolo lavabo sudicio su ogni pianerottolo. L’unico allaccio fognario era quello con un gabinetto nel minuscolo cortile sul retro.
Pip ormai dormiva su una branda pieghevole nella camera oscura in cima a quell’edificio angusto. Sull’altro lato del pianerottolo c’era una seconda stanza che serviva da ufficio, sala d’attesa e studio. Alle pareti, decine di foto patinate di film. Alcune avevano perso la puntina da un angolo e si erano accartocciate, forse per la vergogna.
Dalla stanza accanto giunse una voce. «Sto lavorando nella camera oscura. Chi è?».
«Doug Archer». Douglas sentì uno scroscio di acqua corrente e ne dedusse che Pip stesse sciacquandosi velocemente il viso dopo che era stato svegliato dalla campanella sopra la porta esterna. Nell’attesa che il fotografo si palesasse, guardò tutti i lusinghieri ritratti in controluce delle stelle, giocherellando con il perno da gomito che aveva trovato a Shepherd Market. La notte precedente, dopo aver parcheggiato la macchina dove il colonnello Mayhew non potesse vederla, aveva scoperto che il tubo di gomma di rinforzo al suo interno era un contenitore. Premendo forte un dito contro la base, aveva fatto scivolare fuori l’astuccio di metallo di una pellicola da 35 mm. Stando all’etichetta stampata, era una pellicola da 36 scatti.
«Doug! Scusami per l’attesa, vecchio mio». Erano ben pochi i negozianti di Soho che potessero chiamare Douglas per nome, ma quei due si conoscevano da quando Pip girava con una Rolls Royce color argento, allestiva alcune tra le cene più raffinate di Londra ed era capace di procurare agli amici – incluso Douglas – i biglietti per sontuose prime cinematografiche.
«Mi faresti il favore di passare una pellicola nel bagno di sviluppo, Pip?».
«La camera oscura allo Yard è in sciopero, vecchio mio?».
«Più o meno».
Accortosi di aver posto una domanda inopportuna, Pip si affrettò a recuperare terreno. «Rimani per un tè e un panino tostato». Dalla sala prove della porta accanto salì improvvisamente della musica jazz. Le pareti presero a vibrare.
«Magari quando vengo a prenderla, Pip».
«Benissimo. Sarà pronta oggi pomeriggio, verso le tre e mezza. Qualche indicazione particolare? Sovrasviluppata, sottosviluppata? Grana fine? Tagliata a strisce della lunghezza di cinque o sei immagini?».
«L’unica indicazione particolare è quella di tenere la bocca chiusa».
Pip annuì. Era un ometto lindo, con il completo decisamente troppo stretto e la camicia che gli stringeva il collo, costringendolo ad allentare il colletto con il dito. I capelli erano di un bruno innaturale, tipico degli uomini maturi in cerca di lavoro, e tenuti in piega da una quantità abbondante di brillantina profumata, che quasi surclassava l’odore del fissante fotografico che gli impregnava i vestiti e del fiato che sapeva di whisky.
«Sarò muto come un pesce, vecchio mio. Se anche Harry Woods si presentasse qui per farsi fare un ritratto, eviterei di spifferargli che ti ho visto». Pip si produsse nella sua breve risata profonda. L’idea di Harry Woods che si metteva in posa per una foto gli era parsa comica.
«Direi che hai capito».
«Ero una spia» disse Pip.
«Prego?» reagì Douglas, allarmato.
«La foto che stai guardando... Conrad Veidt nel film Ero una spia. Una bella produzione. Girato ai Gaumont-British Studios di Lime Grove... o, aspetta, forse erano i Gainsborough Studios di Islington? Caro Doug, la memoria comincia ad abbandonarmi».
Nell’appartamento accanto, i jazzisti erano impegnati a scuotere l’intero edificio con la loro versione di South of the Border. «Mi chiedo come fai a non impazzire con questo frastuono tutto il giorno» commentò Douglas.
«Vivi e lascia vivere» rispose Pip. Si raddrizzò la cravatta e lisciò i capelli. Il vezzo nervoso di un uomo che si sforzava di celare la reputazione di forte bevitore. «Vuoi che faccia dei provini?».
«No, solo la pellicola».
«Ho saputo di tua moglie, mi dispiace».
«Non è stata l’unica, Pip. Se non altro, il bambino si è salvato».
«Mi sembra il modo migliore di affrontare la cosa. Sicuro di non volere un tè? Ci metto un attimo e questo mese ne ho una razione extra».
Douglas controllò l’orologio. «No, meglio che mi dia una mossa. Devo essere a Highgate entro le dieci e mezza».
«La cerimonia dell’amicizia tedesco-sovietica?».
«Non ho potuto evitarla» disse lui, con l’aria di scusarsi.
«Be’, almeno ora sappiamo come siamo combinati» osservò Pip. «Bastardi rossi e bastardi nazisti, c’è poco da scegliere».
«Su questo non ci piove».
«Vogliono traslare la salma di Marx? Be’, secondo me ci liberiamo di robaccia decomposta».
Douglas sfiorò il braccio dell’amico. Un gesto d’affetto e anche l’invito a tenere a freno la lingua. Fu allora che sentirono dei passi sulle scale. La porta si aprì ed entrò un soldato tedesco. In un pessimo inglese, chiese di poter fare una foto.
«Si accomodi lì» disse Pip. Accese i fari potenti e Douglas strizzò gli occhi per scrutare oltre il bagliore. «Sposti un poco la spalla» ordinò Pip. Il soldato si girò sullo sgabello in modo che i nuovi galloni da caporal maggiore fossero ben inquadrati dalla macchinetta.
L’odore dei fari innescò qualcosa nella mente di Douglas. Ma certo, il bulbo rimosso dalla lampada snodabile nell’appartamento di Shepherd Market. Il fratello minore doveva aver avvitato un faretto nel portalampada, quando aveva usato il piano della scrivania per fotografare i calcoli matematici che poi aveva bruciato nel caminetto. Ne ebbe la certezza assoluta. «A dopo, Pip» salutò
Pip emerse da sotto il telo di messa a fuoco con i capelli arruffati. «Non vedo l’ora, Doug». Si volse al cliente. «Guardi la foto di Tallulah Bankhead, caporale, e sollevi un poco il mento».