Capitolo ventiquattro
Highgate Cemetery è come un set cinematografico. I suoi sentieri, soffocati da alberi e cespugli fuligginosi e strangolati dalle erbacce, costeggiano antiche lapidi sbilenche e macchiate di muffa e muschio. Gli sforzi di un plotone di ingegneri non erano serviti a smorzare la sensazione che si trattasse del luogo ideale per girare una versione di Frankenstein.
Ma avevano fatto del loro meglio, perché l’ultimo atto della Settimana dell’amicizia tedesco-sovietica si svolgeva lì, e quel giorno le cerimonie a Mosca e Berlino dovevano cedere il posto d’onore al rito dell’esumazione delle spoglie di Karl Marx dalle zolle verminose della lurida Londra settentrionale.
C’era posto solo per la ridotta banda d’ottoni del Gruppo d’armata L (Distretto di Londra), purché se ne stesse in disparte, oltre gli alberi. Non tutti i delegati URSS riuscivano a vedere la tomba, e un centinaio di loro dovette accontentarsi di un posto nella tribuna d’onore eretta su Highgate Hill.
Solo le personalità di spicco erano alla tomba. Il ministro degli esteri von Ribbentrop, in altissima uniforme, parlava con Molotov, il capo del governo russo, arrivato da Mosca per l’occasione. Il dottor Joseph Goebbels, che si godeva il trionfo personale di quella settimana di eventi strombazzati ovunque, si intrattenne brevemente con entrambi e consegnò una cazzuola d’argento a Molotov, perché la controllasse. Sarebbe stata utilizzata quando un nuovo blocco di marmo, con sopra incisi i simboli nazisti e comunisti intrecciati e una prolissa dichiarazione d’amicizia, sarebbe stato calato nella tomba vuota.
I piani alti del vecchio ospedale su Dartmouth Park Hill fornivano al personale e ai pazienti una tribuna perfetta da cui seguire le cerimonie nelle vie sottostanti. I cavalli neri, selezionati con cura per trainare un affusto di cannone dell’esercito tedesco, si agitavano irrequieti e battevano gli zoccoli sulla strada gelida. Avevano i fianchi strigliati e lucidi e strattonavano le ruote facendo stridere i freni. I postiglioni si davano da fare per placarli e la scorta di cavalleria tirò le redini quando l’orologio batté le undici. Il comandante della guardia d’onore, un colonnello del prestigioso 5 Kavallerie-Regiment, perse quasi il controllo del suo splendido baio quando i motociclisti raggiunsero le loro postazioni, gli elmetti d’acciao lustri che brillavano nel sole invernale.
La banda eseguì brani solenni, mentre gli assistenti dell’esercito facevano posto agli ultimi arrivati: il primo ministro del governo fantoccio britannico, accompagnato dal commissario tedesco della Bank of England, fresco di nomina. Alle loro spalle, Douglas riconobbe l’SS-Gruppenführer, professor Max Springer, dell’SD. Il capo di Huth era l’ufficiale delle SS di maggior rilievo presente alla cerimonia in qualità di portavoce di Himmler in persona.
Sei portatori – in rappresentanza di esercito, marina, aviazione, SS, partito nazista e SA – erano sull’attenti, pronti a farsi carico delle spoglie mortali di Karl Marx nel primo tratto del suo viaggio fino alla Piazza Rossa. Lo attendeva un posto nel Mausoleo di Lenin e il 7 novembre, anniversario della rivoluzione russa, un’ulteriore cerimonia avrebbe celebrato l’accesso del pubblico moscovita alla tomba appena occupata.
Douglas non aveva una buona visuale. Era accanto a Kellerman, sul lato dell’ospedale rispetto alla tomba, e più in basso sul crinale. La banda stava eseguendo un solenne brano militare. Kellerman fece un commento banale. Douglas volse il capo per rispondere e l’onda d’urto dell’esplosione lo colpì in volto come un guanto felpato. Guardò in cima alla collina e vide la terra intorno alla tomba sussultare, trasformandosi in un cumulo, poi in una collinetta e infine in una grossa nuvola di fumo e detriti. E la terra gli piovve addosso come una marea, che lo abbatté, soffocandolo.
Lottando per rimettersi in piedi, Douglas vide Kellerman semisepolto sotto una grande lapide. Muoveva la bocca, senza emettere suono. Tutto era avvolto nel silenzio, taceva persino l’ufficiale che tentava di districarsi dalle pieghe insanguinate di uno stendardo militare decorato. Si strappò la bandiera lacerata da un braccio ridotto a un moncherino. Il sangue prese a fiottare e l’uomo barcollò confuso fino a quando, dissanguato, si accasciò a terra.
Poi il frastuono si fece tale da penetrare persino il cranio assordato dall’esplosione di Douglas. Ecco il concerto di pianti d’agonia e di paura e le campane e le sirene delle ambulanze che cercavano di oltrepassare i cavalli terrorizzati del corteo funebre. Il baio arabo del colonnello di cavalleria si imbizzarrì. Lui rimase in sella e saltò con grazia alcune lapidi, poi il baio passò sotto gli alberi e i rami bassi, spezzando la spina dorsale del suo cavaliere.
Vicino all’ingresso di Retcar Street, i musicisti cercavano di districare i compagni morti e feriti dagli ottoni deformati e dai tamburi rotti. C’erano cadaveri ovunque e, a complicare ulteriormente quel quadro macabro, le vecchie salme erano riemerse dalle bare e si erano sparpagliate tra le tombe erbose, come per rispondere allo squillo della tromba del giudizio universale.
Il generale Kellerman uscì da sotto la lapide caduta cavandosela con un legamento lacerato. Douglas lo aiutò a rialzarsi e lo sostenne, mentre raggiungevano due attendenti in uniforme delle SS, che trasportarono il generale fino all’ambulanza. Con notevole preveggenza, nell’organizzazione di quella giornata Kellerman aveva aggiunto un’ambulanza e del personale medico dell’ospedale delle SS. Il personale aveva l’ordine perentorio di dare la priorità ai membri delle SS su qualsiasi altro ferito, indipendentemente dalle necessità e dal grado. E fu proprio Kellerman il primo ferito a essere soccorso.
La settimana di celebrazioni era stata organizzata dai membri del Gruppo d’armata L (Distretto di Londra) praticamente senza consultare il Militärverwaltungschef (capo dell’amministrazione), né il governo fantoccio britannico, Kellerman, le sue SS o le unità di polizia. I biglietti per i posti migliori erano andati alle alte cariche dell’esercito e ai papaveri politici di Mosca. Quindi furono loro a subire le perdite maggiori, insieme alla guardia d’onore, ai musicisti della banda e ai membri del coro dell’Armata rossa che avevano il compito di cantare il nuovo testo dell’Horst-Wessel-Lied.
La potente esplosione si propagò verso l’alto, travolgendo con furia una troupe cinematografica della Propaganda-Kompanie, posizionata sul tettino dello Steyr «Tipo A» appositamente rinforzato. La troupe si era avvicinata con la marcia ingranata e la ventola del motore V-8 raffreddato ad aria che ronzava al massimo, per effettuare alcune riprese mute dell’iscrizione, prima che la cerimonia avesse inizio. La bomba esplose mentre tornava indietro, sventrando il mezzo pesante e disseminando i resti della troupe smembrata sul vicino Waterlow Park. Protette dallo scudo temporaneo del mezzo della PK, le celebrità – Goebbels, Molotov e von Ribbentrop – ne uscirono nell’insieme con un paio di timpani rotti, una caviglia slogata e qualche conto di tintoria.
Lo Standartenführer Huth, com’era da lui, si era posizionato nei pressi di una delle uscite. Al momento dell’esplosione, si trovava al cancello di Swains Lane. Stando a quel che poi raccontò l’ufficiale al suo fianco, Huth non ebbe il minimo sussulto quando si sentì il botto. Harry Woods infiocchettò la storia, riferendo che Huth si era tappato le orecchie con le dita trenta secondi prima del botto. La battuta fece il giro di Scotland Yard. Persino Kellerman rise, quando la sentì. Era una battuta diffamante, una facezia pericolosa, ma sia Huth sia Kellerman riuscirono a stento a celare la soddisfazione provata davanti a quella pubblica dimostrazione di inadeguatezza del sistema di sicurezza dell’esercito tedesco.
L’esercito si affrettò a serrare i ranghi. Nel giro di un quarto d’ora dall’esplosione, il centro di comando mobile del peso di sei tonnellate – a disposizione per gestire il traffico durante il corteo funebre – fu requisito per una conferenza dei vertici. L’aiutante del comandante del Gruppo d’armata si riunì con un colonnello della Feldgendarmerie, un ufficiale della GFP ancora in abiti civili e due consiglieri di sicurezza militare presso il Militärverwaltung, uno dei quali lievemente ferito. Due ufficiali dell’Abwehr erano già sul posto, e ne stavano arrivando altri. Il pullman era parcheggiato davanti all’assurda follia gotica a ridosso del cancello del cimitero su Swains Lane. Lì, protetti da una sentinella armata, i soldati ripassavano quel che avrebbero dichiarato durante l’indagine militare la cui conclusione avrebbe fatto saltare qualche testa, forse letteralmente.
Huth guardò il grosso Befehlskraftwagen Krupp a dieci ruote, e i soldati impauriti al suo interno, a malapena visibili dietro il vetro smerigliato dei finestrini. Sorrise a Douglas e si spazzolò dalla casacca un po’ della terra e della polvere che aveva coperto tutto e tutti. Poi si contemplò la mano sporca. «Usciamo da qui» disse, con evidente disgusto. «Mi devo liberare i capelli dai resti mortali di Karl Marx».
Il personale medico applicava bende, tamponava il sangue, issava i corpi sulle lettighe e strappava uniformi per fasciare le ferite. C’erano gemiti e grida. Un cappellano dell’esercito tedesco impartì l’estrema unzione a un ammiraglio che si trovava al fianco di Douglas al momento dell’esplosione.
«La deflagrazione è partita dalla tomba stessa, non crede?» chiese Huth a Douglas.
«Senza alcun dubbio».
«Probabilmente sono sgattaiolati qui dentro la notte scorsa. Hanno sfilato al buon vecchio Karl il cappotto di legno nuovo di zecca per imbottirlo di esplosivo». Huth annusò l’aria e fece una smorfia. I corpi dissotterrati e la terra smossa del cimitero appestavano tutto. «C’è da scommettere che l’esercito non abbia messo nessuno di guardia». Si avviò verso il cancello, sgomitando per farsi strada tra la folla. Spinse via un membro della banda in paziente attesa, la mano sollevata in alto intanto che stringeva una corda intorno al braccio per fermare l’emorragia da una vena recisa. La casacca del ragazzo era coperta del sangue che gli era colato lungo il braccio e Huth si ritrasse per evitare di macchiarsi la giubba. Poi, forse vergognandosi del gesto, disse: «Forza, cerchi un’ambulanza. Perderà il braccio se resterà lì fermo».
«Mi è stato ordinato di non muovermi» rispose il ragazzo.
Huth fece spallucce. In pace con la coscienza, proseguì per la sua strada, come se lo scambio con il giovane musicista non fosse mai avvenuto.
Nascosto dietro la portineria c’era il mezzo di trasporto preferito di Huth: il suo «Krad», il sidecar BMW. Non c’era dubbio che l’avesse sistemato lì nella speranza di svignarsela dalle celebrazioni prima che terminassero. A guardia del veicolo c’era un membro delle SS in uniforme. Pulì la sella con la manica, prima che Huth montasse.
La sinusite di Huth si era aggravata per via della polvere e della vegetazione mandata in aria dall’esplosione. Gli lacrimavano gli occhi e si soffiò sonoramente il naso. «Conosce un certo George Mayhew?» chiese a Douglas, soffiandosi nuovamente il naso.
«Il colonnello Mayhew? Lo conoscono tutti i poliziotti di Londra. È stato il miglior mediano di mischia che la squadra di rugby della polizia abbia mai avuto».
Huth scrutò Douglas, come sospettasse che quella fosse una risposta evasiva. «E tutti i poliziotti di Londra l’hanno incontrato la settimana scorsa?».
«Assai probabile. Io sì».
«Lo conosce bene?». Si portò la mano alla fronte. «Ha mai sofferto di sinusite, soprintendente?».
«No, per mia fortuna! Voglio dire: sì, conosco bene Mayhew, ma non soffro di sinusite».
«Qualche volta mi chiedo se lei sappia effettivamente cosa vuole dire». Huth aveva estratto dei documenti dalla tasca e prese a sfogliarli. Porse una piccola foto a Douglas. «Vede Mayhew tra queste persone?».
La foto era di pessima qualità, ma se Douglas fosse stato al corrente delle difficoltà dovute all’uso di un lungo teleobiettivo e al dosare la quantità di luce necessaria senza rovinare il risultato con il genere di movimento che spesso affligge quello strumento; e se fosse stato a parte del rischio che il tecnico aveva corso nello sviluppare il negativo in più del doppio del tempo normale, avrebbe dichiarato che si trattava di una foto perfettamente riuscita.
«Forse» disse. «L’uomo che guarda verso l’obiettivo è il Generalmajor Georg von Ruff, giusto?».
«Si è accorto del mio fotografo a bordo della carrozza panoramica. È un vecchio maiale sospettoso. Il terzo uomo è il professor Frick, ovviamente». Huth aveva un tempismo che avrebbe suscitato l’invidia e lo spirito di emulazione di qualsiasi cabarettista.
«Il professor Frick!» esclamò Douglas, palesemente stupito. «Pensavo fosse deceduto lo scorso anno, durante il conflitto».
«In tal caso, è risorto. Secondo lei cos’hanno in comune questi tre... a parte il desiderio incontenibile di evitare il mio fotografo?».
«L’esplosivo atomico?».
«Sarebbe stato un buon investigatore, sa?» celiò Huth. «Ma sono certo che possa fare di meglio».
«Dice?».
«Il Generalmajor von Ruff è l’ufficiale di grado più alto dell’Abwehr, qui, in Gran Bretagna. Alle sue spalle, nell’ombra, c’è un colonnello dell’Heereswaffenamt. Ovvio che abbiamo contattato il vecchio Frick, nella speranza che stia costruendo una specie di superbomba per l’esercito. Ma cosa ci fa con loro il colonnello Mayhew?».
«Non saprei».
«Affari, ecco cosa!».
I due si scambiarono una lunga occhiata. Toccò a Douglas parlare. «Pensa che Mayhew gli stia vendendo delle ricerche scientifiche?».
«Gli sta vendendo delle copie carbone dei calcoli bruciati nel camino di Shepherd Market. Mi ci gioco la testa».
«Per denaro?».
«Archer, cosa potrebbe mai desiderare il colonnello Mayhew più di qualsiasi altra cosa al mondo? Forza, lei è inglese, conosce la risposta».
«Il re, intende?».
Huth si congratulò sardonicamente, dandogli una pacca sulla spalla. Poi avviò il motore con un calcio al pedale d’accensione della grossa motocicletta.
«Cosa dovrei fare?» gridò Douglas, cercando di superare il frastuono.
«Dica a Mayhew che voglio quei calcoli».
«E l’altro affare?».
«Quale altro affare?».
Douglas scoccò uno sguardo da sopra la spalla. Huth decelerò e il motore emise un suono di tamburi sommessi. «Il re» disse Douglas.
Huth afferrò la foto e la rimise in mezzo alla manciata di buste, documenti e appunti che aveva estratto dalla tasca. Riprese a sfogliarli e trovò un piccolo modulo marroncino piegato in due. Lo ripiegò ancora, per farlo entrare nel taschino di Douglas. Si produsse in uno dei suoi sorrisi privi di allegria. «Guardi che roba, Archer» disse, alzandosi sui poggiapiedi della motocicletta per contemplare il caos e la carneficina. «I russi se la prenderanno con noi, e domani questa scena occuperà la prima pagina della Pravda».
Douglas seguì lo sguardo dell’altro. La maggior parte dei morti e dei feriti si trovava in cima alla salita. I posti d’onore, riservati ai russi presenti alla cerimonia, li avevano esposti al pericolo maggiore. I rappresentanti del partito comunista avevano compiuto il viaggio a ovest accompagnati da mogli, figlie e amanti, queste ultime in veste di segretarie. Le sete di Bond Street, le lane pregiate di Savile Row erano lacerate e insanguinate; e molti dei russi accasciati nella tormenta di schegge di marmo non si sarebbero rialzati mai più.
Sui giornali del mattino, però, non sarebbe apparsa nessuna foto. Non sulla Pravda, né sul Völkischer Beobachter, Times, Tribune o qualsiasi altro quotidiano o periodico. All’ingresso di Swains Lane – e sulle vie, nel parco e nel cortile dell’ospedale adiacente al cimitero – le squadre della Feldgendarmerie controllavano tutte le macchinette fotografiche e perquisivano chiunque esibisse un lasciapassare della stampa. Sul cancello stava accatastata una pila di pellicole da 35mm, tolte dalle macchinette, dalle custodie e persino dalle confezioni ancora nuove; marroni e grigie, serpeggiavano e si svolgevano come un nido di vipere, brillando e fremendo nel sole invernale.
Un ufficiale delle SS si precipitò verso di loro. «Il Gruppenführer Springer, signore» disse a Huth. «La prego di affrettarsi».
Rimasto solo, Douglas estrasse dal taschino il modulo marroncino ripiegato. L’aveva riconosciuto immediatamente: si trattava di uno dei nuovi mandati d’arresto in versione ridotta. Poco più di una sintesi del vero e proprio mandato di custodia, riportava solo il nome e l’indirizzo di George Mayhew e il motivo dell’arresto: Schutzhaft, custodia cautelare, espressione generica con cui far sparire uomini, donne e bambini per sempre. Nella firma illegibile con cui Huth aveva ratificato l’ordine c’era una noncuranza sfacciata. Douglas mise il modulo nel portafogli. Si levò un grido acuto. Si girò e vide un’unità genieri dell’esercito impegnata a sollevare con l’argano una lastra di pietra da un uomo che agonizzava tra forti lamenti.
Douglas attraversò velocemente Waterlow Park e trovò un telefono pubblico su Highgate Hill. Gli rispose il domestico del colonnello Mayhew. Douglas lo conosceva, era un agente di polizia a riposo, due volte di seguito campione di pesi massimi, che aveva mancato la terza per un pelo. Gli passò immediatamente Mayhew. «Sono il soprintendente Archer» disse Douglas, formale. «Ho un mandato d’arresto a suo carico».
«Può parlare?».
«La chiamo da una cabina. Lo Standartenführer Huth mi ha appena consegnato il documento. Firmato di suo pugno. Nessuna accusa: ordine di custodia cautelare».
«Che si fa?».
«C’è un traffico terribile...».
«Ho sentito le dichiarazioni ufficiali al notiziario. I tedeschi probabilmente rimpiangono di aver concesso alla BBC la cronaca in diretta... molto bene, non riuscirà ad arrivare qui prima di un’ora».
«Esatto».
«Grazie, Archer. Vedo se riesco a oliare qualche ruota. In ogni caso, mi farò vivo all’appartamento della ragazza».
Douglas ebbe la sensazione che il colonnello Mayhew sottovalutasse il pericolo in cui si trovava. Forse credeva alla propaganda che riduceva i campi di concentramento a letti duri, docce fredde ed esercizio fisico. In tal caso, lo aspettava una bruttissima sorpresa. «Colonnello, potrebbero esserci altri mandati di cui non so, ordini relativi alla sua famiglia».
Mayhew non si scompose. «Sì, comprendo. In un certo senso me lo aspettavo, Archer. Ma la ringrazio ugualmente».
«Arrivederla, colonnello» disse Douglas, prima di riappendere.
La visita di Douglas alla bella residenza di città del colonnello George Mayhew, situata sul lato in direzione di Grosvenor Square di Upper Brooke Street a Mayfair, fu una mera formalità. Il domestico di Mayhew aveva tutte le risposte pronte, come ci si poteva aspettare da un agente di polizia capace. Accompagnò Douglas nelle varie stanze, arrivando ad aprire le credenze.
«La prego di contattarmi immediatamente, in caso il colonnello Mayhew dovesse tornare».
«Senza alcun indugio, soprintendente». Sorrisero entrambi e Douglas si congedò.
Al ritorno nella camera oscura di Pip Piper, una volta messe le strisce di negativi sul visore, Douglas trovò conferma alle sue teorie. Vide un fotogramma dopo l’altro i fitti calcoli battuti a macchina, alcuni con annotazioni e modifiche aggiunte a mano. Pip si tenne a distanza, mentre Douglas si chinava sopra il visore. «Cosa ne pensi, Pip?».
«Un tantino sovraesposte, ma non è grave, con questo genere di lavoro di copiatura. Si leggerà facilmente. Vuoi una lente d’ingrandimento?».
Douglas prese la lente e studiò i negativi. Le parole e le cifre erano a fuoco e con un simile strumento leggerli era piuttosto semplice. «Non ci capisco niente».
«Figurati io. Mai stato capace di fare le addizioni».
«Grazie al cielo, i jazzisti hanno smesso di provare» osservò Douglas. Si chiese come diavolo facesse Huth a non capire che esistevano dei negativi. Cercava delle copie carbone, e questo significava inseguire qualcosa delle dimensioni di una valigetta. Poi si rese conto che gli uomini di Huth non avevano trovato niente che facesse pensare a una macchinetta fotografica. Gli unici indizi nell’appartamento di Shepherd Market erano la posizione della lampada da tavolo e la lampadina svitata. Douglas aveva rimesso a posto la lampadina e spostato la lampada. Il giovane Spode doveva essersi liberato del faretto speciale. Quanto all’alloggio di Spode, la Leica e la borsa di accessori erano state rimosse.
Aveva ricominciato a piovere. Douglas guardò fuori dalla finestra, i tetti ingobbiti e i comignoli mutilati. Il vento era abbastanza forte da mandare una nuvola di fumo ad annerire quella finestra di abbaino. Douglas sentì odore di fuliggine e la sporcizia gli irritò gli occhi.
«Tutto bene?» chiese Pip.
«Sì, certo». Tastò pensosamente il perno per il gomito che aveva in tasca. Era stato modificato con una tasca segreta. Il giovane Spode doveva essere una specie di corriere. La tasca conteneva a malapena la custodia di una pellicola da 35mm, ma la modifica privava l’impianto di mezzo centimetro di filettatura. Indeboliva la tenuta, tanto che un minimo sforzo imprevisto – sparare o, più probabilmente, sfogliare le pagine per fotografarle – aveva allentato la vite. Be’, si compie sempre qualche errore. «Pip» disse Douglas «c’era una Leica e quattro sottili zampe di metallo...».
«Un tavolo per riproduzione. Certo, è il sistema migliore per un lavoro simile. Le zampe si avvitano a un anello pesante che si aggancia all’innesto dell’obiettivo. In tal modo, la macchinetta è alla distanza giusta dal soggetto per poter attivare la lente addizionale... la messa a fuoco da distanza ravvicinata è assai complessa...».
Douglas si protese a sfiorare il braccio dell’amico per bloccare la spiegazione. «Pip, se ti trovassi davanti questo tavolo per riproduzione e tutto il resto, diresti senza ombra di dubbio che sia servito per un lavoro del genere? O potrebbe avere avuto altri scopi?».
«No, il tavolo per riproduzione e le lenti addizionali servono solo a questo».
«Capisco» disse Douglas. Tornò alla finestra. L’acqua nel bollitore elettrico era pronta. Pip preparò il tè in una piccola teiera smaltata di rosso. Era forte, come Douglas non ne beveva da tempo.
«Sicuro che sia tutto a posto, Douglas?».
«Perché?» chiese lui, continuando a contemplare la pioggia che cadeva sulle tegole bagnate. Vivere lassù, dove si vedevano solo il cielo e i tetti, conferiva uno strano senso di isolamento. Douglas decise che gli piaceva; gli concedeva di riprendere fiato. Forse il vecchio Pip era più fortunato di quanto immaginasse.
«Be’, è evidente che vuoi tenere per te questa storia, quindi non riguarda la polizia. Ti conosco troppo bene per sospettare che possa esserti lasciato corrompere da qualche banda di criminali. Quindi rimane solo una possibilità».
«Sarebbe?». Douglas teneva stretta la tazza di tè per scaldarsi i palmi delle mani. Desiderò che il padre fosse ancora vivo. Fu un ricordo improvviso, che lo colpì a bruciapelo, come era accaduto in altri momenti difficili della sua vita. Tentò inutilmente di accantonare quel pensiero.
«Lavori contro i maledetti crucchi» sussurrò Pip.
«Sta per salire nuovamente la nebbia, lo sento dall’odore. È perché la gente brucia troppa legna e spazzatura per scaldarsi».
«Il tabacco, vorrai dire» disse Pip. «Ricordo un tempo in cui fumavano solo gli uomini. Ora vedo spippettare i ragazzini e le vecchie, a dispetto del costo assurdo delle sigarette».
«Conforto» disse Douglas. «Le persone esposte al freddo, all’umidità e alla tristezza, trovano grande conforto nel fumo». Ricordava poco altro del padre, un omone con una risata allegra e i vestiti sempre impregnati dell’odore di tabacco di pipa.
«Sono anche i crucchi. Non ce n’è uno che non spippetti un grosso sigaro dell’accidenti».
«L’ubriachezza comporta punizioni durissime» disse Douglas. Era il genere di conversazione che aveva già intrattenuto diverse volte e, mentre parlava, la sua mente era parzialmente occupata dalla questione della pellicola.
«È così, vero? Stai lavorando contro i crucchi». Douglas non rispose. Allungò il collo per guardare in strada, dove vide un carbonaio piegarsi lentamente, inclinando un sacco di carbone da sopra la spalla per far cadere i pezzi nella carbonaia, attraverso un foro circolare nel marciapiede. A dispetto della pioggia, l’uomo e il sacco sparirono in una nuvola nera. Douglas continuò a guardare.
«Come vuoi, Douglas. Ma i tuoi segreti sono al sicuro, con me».
Douglas scosse il capo. «Nessun segreto è al sicuro». In testa, continuava a frullargli lo stesso pensiero. Trovò plausibile che Huth non sapesse. Se Hesse e i membri dell’Abwehr avevano sequestrato la Leica, il tavolo per riproduzione e le lenti aggiuntive del giovane Spode, come avevano fatto a non capire che i documenti erano stati fotografati? Perché si ostinavano a chiedere materiale cartaceo a Mayhew? «Meglio che tu sappia il meno possibile, Pip» disse. «Se le cose si metteranno male, potrai dire che ti sei limitato a sviluppare una pellicola. Per me è più facile inventare bugie e scuse».
«Dirò che ero ubriaco».
E, a quel punto, Douglas ebbe un’illuminazione. I membri dell’Abwehr erano altrettanto scaltri e subdoli di tutti gli altri. Sapevano dei negativi, eccome! Ecco perché ancora negoziavano con Mayhew. Ma mantenere il segreto li metteva nella condizione di valutare, almeno parzialmente, la buonafede della controparte. A Mayhew, e a chiunque altro, avrebbero parlato di documenti, e nel frattempo avrebbero aspettato che qualcuno pronunciasse la formula magica: «negativi di pellicola da 35 mm». Douglas bevve avidamente il tè. Poi spense il visore, riavvolse la pellicola asciutta nella sua custodia e se la infilò in tasca.
«Ecco un bel modo per graffiarla» protestò l’amico.
«Non ho certo intenzione di esporre le foto a una mostra della Royal Photographie Society» ribatté lui, usando una delle battute preferite di Pip. Finì il tè e poggiò la tazza sul davanzale. «Grazie di tutto, Pip».
In strada, il carbonaio calciava gli ultimi pezzi di carbone nella carbonaia buia, tenendo in mano il coperchio circolare di ghisa.