Capitolo venticinque
I londinesi la battezzarono «la notte dei torpedoni», ma, di fatto, gli arresti di massa e le retate selettive di persone classificate dalla IA fino alla IIIEa, proseguirono per altre due notti e fino a quasi tutto il terzo giorno. Inoltre, ad alcune categorie fu ordinato di presentarsi alla più vicina stazione di polizia. I manifesti e gli annunci a pagina intera sui giornali spinsero molti a consegnarsi volontariamente.
Il Wembley Stadium fu utilizzato come centro di raccolta di Londra ovest, e l’East Court Exhibition Hall – con l’Albert Hall straripante – fu il luogo di raduno delle persone arrestate a Londra est. Gli inquilini di Dolphin Square, grande caseggiato sul lungofiume, furono sbattuti in strada con solo due ore di preavviso, e i loro appartamenti vennero requisiti per centinaia di interrogatori simultanei.
Tutti i reparti su suolo britannico furono richiamati a questo scopo. Ai professionisti delle unità della Geheime Feldpolizei, agli uomini dell’SD e della Gestapo, e a quelli provenienti dall’enorme edificio su Exhibition Road, si affiancarono individui che conoscevano a malapena l’inglese utile al loro mestiere. Ad esempio, camerieri del circolo ufficiali della Luftwaffe, due cappellani, un flautista dell’orchestra sinfonica dell’esercito tedesco del London District, sette centralinisti e un dentista navale.
«Tenga i bambini a casa, oggi, signora Sheenan» disse Douglas a colazione, il mattino dopo l’esplosione. Lei gli mise un’altra fetta di pane tostato nel piatto e fece un cenno d’intesa. Il pane era raffermo, ma inumidito dalla carne che lo copriva si trasformò in un lusso senza pari. Douglas controllò che ce ne fosse abbastanza per tutti, prima di addentarlo.
La signora Sheenan versò dell’altro tè. «Ha sentito i camion la notte scorsa? Devono aver arrestato qualcuno dall’altra parte della strada. Che rumore! Pensavo che volessero buttar giù la porta».
«Sarà la serie di arresti più massiccia di cui io abbia mai sentito parlare» disse Douglas. «Forse la più imponente nella storia moderna». Lei gli scoccò un’occhiataccia, e lui aggiunse goffamente: «Non ne sono ammirato, signora Sheenan, mi limito a constatare un fatto. Migliaia di persone verranno prese in custodia. Solo Dio sa come faranno i tedeschi a organizzare tutto».
«Non vedo in che modo questo possa aiutarli a catturare chi ha messo la bomba al cimitero».
Douglas concordava, ma si astenne dall’approfondire. «Se lei e i ragazzi vi trovaste a passare dalla via sbagliata nel momento sbagliato, potreste finire nella ressa, e chissà dove vi spedirebbero».
«In Germania» rispose lei. «Mangiate il pane tostato, ragazzi, e bevete il tè. Non dobbiamo sprecare niente».
«Sì, in Germania» rispose Douglas. Proprio dove si trovava il marito della donna.
«Li arresterete?» chiese il figlio della signora Sheenan.
«Non ti rivolgere al signor Archer in quel modo» lo riprese lei. «E non parlare a bocca piena, te l’ho già detto». Gli diede uno schiaffetto sul braccio. Un colpo privo di forza, ma tutti rimasero stupiti da quel gesto, compiuto da una donna dai modi tanto miti. Il figlio si abbandonò contro lo schienale e si abbracciò le ginocchia, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
«No, il CID non c’entra, grazie al cielo» disse Douglas, lieto della possibilità di prendere le distanze da quella storia. Bevve il tè. «Potrei procurarle qualcosa di scritto, signora Sheenan. Niente di ufficiale, ovviamente, ma su carta intestata di Scotland Yard... forse sarebbe utile».
Lei scosse il capo. Douglas ne dedusse che aveva già soppesato l’idea. Si protese per baciare il figlio. «Finisci il tè, da bravo. È l’ultima razione di zucchero fino alla prossima settimana».
Poi si rivolse a Douglas e disse con garbo: «Cosa me ne farei di un pezzo di carta? Se ne avessi bisogno, significherebbe che è già troppo tardi. Probabilmente penserebbero che...». Fece una pausa. Era stata sul punto di dire «... che io sia un’informatrice», ma ripiegò su «... che io abbia a che fare con i tedeschi».
«Certo, giusto» rispose Douglas irrigidendosi.
«Oh, non volevo dire quello, signor Archer» ribatté la donna. «Lei è un poliziotto. È costretto ad averci a che fare. Come ce la caveremmo senza la nostra polizia? Non faccio che ripeterlo».
Douglas si rese conto che in effetti non faceva che ripeterlo perché le capitava spesso di dover spiegare il motivo per cui teneva a pensione un uomo che lavorava per gli unni. Douglas infilò il tovagliolo nel portatovaglioli di legno e si alzò. «Eviti di fare la spesa, finché può. Il garzone del fornaio e il lattaio vengono a domicilio, vero? Per la fine della settimana il trambusto si sarà placato. Di fatto, non ci sarà più un solo posto dove stipare i prigionieri».
Lei annuì, lieta che non si fosse offeso per la sua indelicatezza. Prese dal cassetto della credenza un maglione appena lavorato ai ferri. Era di lana bianca intrecciata, con i colori del circolo di cricket della polizia sul collo a V. Era avvolto in carta velina anteguerra. «Fa freddo» disse. «È proprio arrivato l’inverno».
Tese il maglione a Douglas, che esitò prima di accettarlo. Sapeva che l’aveva confezionato per il marito, che prima della guerra si era distinto nel ruolo di lanciatore della squadra di cricket.
«All’ufficio postale non accettano pacchi contenenti vestiti o cibo» spiegò. «Una nuova regola, e li perquisiscono uno a uno». Aprì la velina e sollevò il maglione, di un bianco lucente, orgogliosa del proprio lavoro. «Desideriamo entrambi che lo prenda lei, signor Archer» disse, guardando il figlio. «Potrà sempre restituircelo quando il padre tornerà a casa».
«Lo indosso subito» rispose lui. «Grazie».
«Non avevo idea che amasse il cricket» fu il sarcastico commento di Huth, quando Douglas arrivò in ufficio. La stanza era al buio, il cielo del mattino era denso e opaco come metallo e la luce del giorno filtrava appena dalle finestre a piombo. Huth indossava l’uniforme, la giacca grigia drappeggiata sulla spalliera della sedia e la camicia marrone delle SS gualcita, con il colletto sbottonato. Aveva la barba lunga e Douglas ne dedusse che aveva passato metà della notte seduto alla scrivania. Davanti a lui c’era una bottiglia di scotch vuota e nell’aria aleggiava l’odore di fumo stantio. «Chiuda quell’accidenti di porta, prego».
Douglas eseguì.
«Beva qualcosa». Era come se avesse perso la cognizione del tempo.
«No, grazie».
«È un ordine».
«La bottiglia è vuota».
«Nella credenza ce ne sono in abbondanza».
Douglas non aveva mai visto Huth di quell’umore, gli pareva assurdo. Prese un’altra bottiglia di whisky dalla scatola di cartone con su scritto «Espressamente imbottigliate per la Wehrmacht», l’aprì e se ne versò un poco nel bicchiere che Huth aveva tirato fuori da un cassetto.
«Acqua?» gli chiese l’altro, spingendo una brocca sulla scrivania con tanta noncuranza da versare l’acqua sul caos di documenti. Ne sollevò uno, un messaggio da telescrivente, e fece gocciolare l’acqua dall’angolo, con la concentrazione fanciullesca che gli ubriachi dedicano al loro mondo. «L’elenco delle vittime» spiegò. «Continuano a morire...».
«L’esplosione?».
Huth sventolò il foglio bagnato, denso di nomi. «L’esplosione, certo! Riesumiamo il vecchio Karl che riposa da mezzo secolo sotto la terra ricca di fosfato del nord-ovest di Londra, e poi ci stupiamo se ci scorreggia in faccia?».
Douglas non rispose, ma a quel punto era riuscito a leggere alcuni dei nomi sul foglio che Huth continuava a sventolargli davanti. Il messaggio da telescrivente arrivava dall’Ospedale delle SS a Hyde Park Corner.
Springer, Prof. Max. SS-Gruppenführer. M. 4099. Stab RFSS. Deceduto per le ferite riportate, h. 02:33.
«Sì, continuano a morire» disse Huth.
«E il professor Springer è l’ennesima vittima?».
«Abbiamo perso un buon amico, soprintendente». Prese la bottiglia e si versò ancora da bere, aggiungendo l’acqua con cura esagerata, come un attore che reciti la parte dell’ubriaco.
«Davvero?».
«Era mio amico alla corte di Re Heinrich» disse Huth. «Il Reichsführer-SS gli aveva concesso piena libertà, nel tentativo di strappare all’esercito gli esperimenti nucleari». Serrò il pugno. «La mia autorità veniva da Springer». Si guardò il pugno. «Lo avevo piazzato in un posto defilato, accanto allo stato maggiore della marina, ma il maledetto pazzo ha voluto avvicinarsi alla tomba, per vedere meglio. È stato schiacciato da un pezzo di muro».
«Questo significa che la sua indagine potrebbe essere interrotta?» chiese Douglas. Sorseggiò il whisky, bevendone pochissimo.
«Nient’affatto, grazie al cielo». Huth continuava a guardarsi addosso. I pantaloni erano infangati e un ginocchio era strappato. Probabilmente aveva fatto parte della squadra che aveva estratto Springer da sotto la lastra di pietra.
«Conosceva da molto il professor Springer?».
«Ne avrei di cose da raccontarle, Archer. Storie incredibili. Ero con Springer il fine settimana in cui abbiamo ucciso i capi delle camicie brune. L’ho incontrato a Tempelhof, quando è atterrato con l’aereo speciale che trasportava Karl Ernst da Brema. Springer l’aveva arrestato nel suo albergo quel mattino. Karl Ernst era il vice di Röhm, deputato del Reichstag e consigliere di stato, ma si è sottoposto all’arresto, mite come un agnello». Huth sorseggiò il whisky. Era più rilassato, ma un poco accigliato, come se si stesse sforzando di ricordare il fine settimana del putsch.
Sorrise. «Non avevano idea di cosa stesse accadendo, quei membri delle SA. Non potevano immaginare che il Führer avesse dato l’ordine di giustiziarli. Ernst, tra tutti, credeva fosse una rivolta contro il Führer. Subito prima che il nostro plotone d’esecuzione lo fucilasse, ha raddrizzato le spalle e gridato “Heil Hitler!”, e quelli l’hanno coperto di pallottole». Huth si nascose il viso tra le mani, nel modo tipico degli asmatici, respirando piano, con cautela. «Divertente, no?».
«Non molto».
«È stata una lezione» disse l’altro, amaro. «Ho guardato quel pazzo morire e ho giurato che non avrei mai più dato ascolto agli sproloqui politici».
«Ha mantenuto il giuramento?».
«Le sembro un idealista, Archer?».
Douglas scosse il capo ma non rispose, per non guastare l’umore loquace di Huth. Ne aveva conosciuti altri, come lui. Li aveva sentiti confessare delitti orribili, parlando di sé con lo stesso strano distacco.
«Non c’è voluto molto a capire che i nazisti avrebbero vinto. Erano gli unici dotati di cervello e determinazione. E organizzati. Mi piacciono i vincenti, Archer. Piacciono anche a mio padre. Un bastardo spietato. Mio Dio, quanto lo detesto ancora oggi. Essere il primo della classe era l’unico modo per conquistare il suo affetto, così ho fatto in modo di primeggiare. I nazisti sono i vincitori, Archer, non provi a osteggiarli».
Douglas annuì.
«La settimana prossima sarò a Berlino. Parlerò con il Reichsführer-SS e, forse, con il Führer in persona. Saranno costretti ad affidarmi il ruolo di Springer, perché nessun altro ha tutte le informazioni». Si batté la testa. «E di conseguenza otterrò anche il suo rango. Stia allegro! Kellerman ha i giorni contati, Archer. Ci libereremo di lui prima della fine del mese prossimo. Lo inchioderò a una sedia al piano di sopra e lo bersaglierò di domande insidiose sul suo conto in Svizzera e sulle mazzette che riceve da certi costruttori, incaricati di edificare certe nuove prigioni».
Sul volto di Douglas si dipinse lo stupore.
«Ho un fascicolo spesso così su di lui. Perché pensa che desideri tanto ficcare il naso tra i miei documenti? Non gli interessa affatto impadronirsi del programma sulla bomba atomica, gli interessa solo salvarsi la pelle». Bevve l’acqua. «Vuole unirsi a me, Archer?».
«Al suo staff?».
«Non saranno molti i membri dello staff personale di Kellerman che avrò voglia di confermare. Se si unirà a me, io la porterò fino in cima. Le farò avere la cittadinanza tedesca e la inserirò immediatamente nell’SD: fine dei razionamenti, dei divieti di viaggiare e della sudditanza economica». Guardò Douglas.
«Pensavo che le piacessero solo i vincenti».
Huth fece un sorrisetto. «Non nel ruolo di assistenti personali».
Forse la sua offerta era sincera. Douglas non riusciva a capire se si trattasse di un tentativo goffo, spontaneo e teutonico di elogiarlo o di una proposta ben architettata.
Huth si alzò e andò alla finestra. «Non ha parlato con Mayhew, ieri?» chiese, senza girarsi.
«Lo troverò».
Huth si stagliava in controluce e Douglas vide che le dita accostate al fianco fremevano nervosamente, come nel tentativo di liberare i polpastrelli dalla sporcizia, dalla colla o dai ricordi. «Mayhew è un uomo istruito» disse, a se stesso come a Douglas. «Un individuo colto e ragionevole».
«Certo, ovviamente».
«Non ha motivo di attrito con me, giusto? Cosa cerca? Il prestigio e il rispetto dei suoi pari. Sprone comune a tutti gli uomini normali. Tra noi, possiamo trovare un accordo. E il risultato conferirà prestigio a entrambi, e ci porterà dove vogliamo. Potrebbe riferirgli questo?».
Era un cinismo spropositato, persino per gli standard di Huth. «E io, che garanzie ho?».
«Lei ha la splendida scusa di aver solo obbedito agli ordini. Ne sia grato, amico mio».
«Sarò un contatto, ma non un informatore». Nel momento stesso in cui pronunciava la frase, Douglas riconobbe la stessa razionalizzazione cui si aggrappavano i tanti uomini che aveva usato – e disprezzato – in passato.
Bussarono alla porta. «Avanti» gridò Huth. Entrò un inserviente con un cesto di carbone e cominciò a preparare il fuoco nel camino. Huth congedò Douglas con un cenno.
Douglas si alzò e ringraziò la provvidenza che Huth non fosse uno di quei tedeschi che chiudevano incontri del genere esclamando «Heil Hitler!». Non l’avrebbe sopportato, davanti al vecchio inserviente.
La scrivania di Douglas scompariva sotto una pila di scartoffie e Harry Woods era in ritardo. Gli diede del pazzo fannullone. Quel giorno avrebbe avuto più che mai bisogno del suo aiuto. Guardò l’agenda sulla scrivania di Harry e vide che aveva un appuntamento con il soprintendente Crime alle 9:30. Telefonò all’impiegato e inventò una balla su una presunta malattia di Harry. L’impiegato fece una battuta: la mancanza di puntualità del sergente era risaputa.
Poi mandò un impiegato civile a cercare Harry al Joe’s Café. Era troppo presto per quella «bettola» del Red Lion, o per la «cella» del CID, dall’altra parte della strada. Telefonò al sergente di turno della stazione di polizia di Canon Row, a pochi passi, per vedere se Harry fosse laggiù a spettegolare.
Collezionata una serie di risposte negative, telefonò al segretario personale di Kellerman. Gli chiese l’indirizzo del punto di raccolta della squadra che si era occupata dei rastrellamenti nel quartiere di Islington, dove Harry Woods viveva. Ci volle un quarto d’ora per ottenere la risposta: York Way Goods Depot, alle spalle della stazione di King’s Cross, fino alle 22:30 della sera prima. Poi, per le eccedenze, avevano cominciato a usare il Cattle Market di Caledonian Road.
Douglas telefonò a Huth nel suo ufficio. «Standartenführer, ritengo possibile che Harry Woods sia stato prelevato da una delle squadre di rastrellamento». Nessuna risposta. Douglas aggiunse: «Stamattina non si è presentato, benché avesse un appuntamento con il soprintendente Crime». Un’altra lunga pausa, che lo indusse a chiedere: «È ancora lì, signore?».
«Non mi capacito di come Woods sia rimasto a piede libero tanto a lungo» commentò Huth. «Ebbene, dovrà procurarsi un nuovo sergente. Potrebbe trovare qualcuno che parli tedesco?».
«Vado a cercare Harry».
«Come preferisce. Ma faccia in modo che alle otto di domattina ci sia qualcuno dietro quella scrivania. Non è il momento di ridurre il personale».
«Sissignore» rispose Douglas, prima di riappendere.