Capitolo ventisei
Harry Woods viveva in Liverpool Road. Un tempo possedeva tutta la casa, poi i due piani superiori erano stati affittati a un’altra famiglia. Harry e Joan, sua moglie, consumavano i pasti nella cucina del seminterrato e fu lì che Douglas si accomodò mentre Joan gli preparava un tè.
Capì quel che era accaduto non appena la signora Woods gli aprì la porta. Era ancora in vestaglia, i capelli scarmigliati e gli occhi arrossati dal pianto. Era molto più giovane del marito. Harry l’aveva conosciuta durante un’indagine su un furto in una fabbrica: era la dattilografa più graziosa tra tutte le segretarie dell’ufficio amministrativo. Ora il biondo dei capelli era sbiadito, e il volto era emaciato dal freddo. Sorrise, porgendogli un tè fiacco e amaro, poi, colta dall’imbarazzo, si passò la mano tra i capelli scomposti e si strinse nella vestaglia.
Harry era stato arrestato alle tre del mattino. L’ufficiale tedesco era arrivato con la sua squadra di dodici soldati. Il giovanissimo agente di polizia metropolitana proveniente da qualche divisione periferica non aveva mai sentito parlare di lui. «Non aveva mai sentito parlare neanche di Scotland Yard, secondo me» sottolineò Joan Woods con asprezza.
«Harry non ha mostrato loro il distintivo?».
«L’ufficiale tedesco lo ha guardato, ha ringraziato sentitamente e se l’è messo in tasca. Era abbastanza gentile, l’ufficiale... ha detto che gli dispiaceva. Ma praticamente non parlava inglese e lei sa bene che il tedesco di Harry è un disastro, signor Archer. Se ci fosse stato lei, le cose sarebbero andate in tutt’altro modo. Lei sa come trattarli, Harry lo dice sempre».
«Avresti dovuto telefonare allo Yard, Joan».
«I telefoni pubblici erano piantonati dai soldati. Permettevano solo di fare chiamate ufficiali. Ho visto la vicina della porta accanto tornare a casa dopo aver fatto un tentativo».
«Sì, immagino che i telefoni pubblici servano per mantenere i contatti tra le squadre di rastrellamento».
«Sono andata alla stazione di polizia e ho aspettato per ore. Alla fine, sono riuscita a trovare il sergente – un vecchio amico di Harry, io conosco la moglie – che mi ha detto di tornare a casa a dormire un po’. Ha detto che c’era stato un errore e che Harry probabilmente era già lì». Fece spallucce. «Ma non era mica vero».
«I tedeschi ne stanno trattenendo tanti, tantissimi, per interrogarli sull’esplosione a Highgate. Potremmo impiegare un paio di giorni per rintracciare Harry e forse un terzo per preparare i documenti per il rilascio. Sarà un vero caos, Joan».
«Lei è stato sempre buono con noi, signor Archer». In realtà, Douglas faticava ad andare d’accordo con Joan Woods. Lei mal sopportava il suo accento e i suoi modi borghesi, e il fatto che gli studi universitari lo avessero automaticamente elevato al rango di ispettore di sottodivisione, mentre Harry era rimasto un sergente per tutta la vita.
«Siamo una squadra, lui e io».
«Harry ha pianto quando ha scoperto che lei aveva salvato il fratello dalla deportazione. Non avevamo capito che fosse stato lei a darsi da fare. Harry adora Sid. Ha pianto. Che io possa morire se non è vero: ha pianto».
«Grazie anche al chirurgo della polizia, Joan. Ha scritto una lunga lettera in cui spiegava che Sid era troppo malato per poter lavorare come si deve». Douglas si alzò. «Comunque, mi metto subito a caccia di Harry. E non ti preoccupare se non sarà a casa stasera. Ci vorrà del tempo».
«Harry è un brav’uomo, signor Archer».
«Lo so bene, Joan».
Fuori dalla finestra del seminterrato, si vedevano solo i gradini di pietra imbiancati che salivano al livello della strada, ognuno con una pianta in vaso appassita dal freddo. Si levò una folata di vento e alcuni rifiuti rotolarono sui gradini, scrosciando come l’acqua. «Fa un freddo del diavolo» disse Joan Woods, soffiandosi il naso.
Peggio per tutti quei poveretti tenuti prigionieri all’aperto, pensò Douglas. «Non abbatterti, Joan».
Lei gli fece un accenno di sorriso. Tra loro non esisteva una vera comunicazione. Non avevano nulla in comune, tranne Harry.