Capitolo ventisette
Douglas partì dal Caledonian Road Market. Lo conosceva da prima della guerra. La domenica, tutta Londra andava lì a comprare qualsiasi cosa, dai vecchi vestiti all’argenteria d’epoca. Spesso Douglas si era accodato controvoglia allo zio Alex, che esaminava cumuli di componenti per radio, macchine da scrivere rotte e pile di vecchi libri.
Non aveva idea che i prigionieri potessero essere così tanti. In alcuni punti, il filo spinato che delimitava il perimetro interno era stato spezzato e schiacciato dal peso di quella massa umana. Solo le ringhiere di metallo, ossia la parte fissa dei recinti per il bestiame, resistevano alla folla, scongiurando un vero disastro.
Il mare infinito di teste in costante movimento era come un oceano che lambisse l’alta parete esterna di filo spinato e la strada deserta piantonata dai soldati. C’erano grossi numeri affissi sui pali, in corrispondenza dei quali erano stati raggruppati i rispettivi detenuti in arrivo, ma il sovraffollamento li aveva mescolati e uniti. Douglas vide una ragazzina strapparsi la stella di tessuto giallo dal cappotto e scavalcare il recinto basso per raggiungere un altro gruppo di prigionieri. Su Market Road, c’erano cinque pullman Midland Red con sopra l’adesivo Im Dienst der Deutschen Wehrmacht. Douglas ne dedusse che molte delle famiglie ebree non avrebbero mai raggiunto i luoghi degli interrogatori. Sarebbero state spedite direttamente al famigerato campo di concentramento di Wenlock Edge.
Grazie al suo tesserino, Douglas superò il perimetro di guardia esterno ed entrò nel casotto accanto alla pesa, ora occupato da una decina di impiegati che imprecavano, gridavano e litigavano in preda alla frenesia. Non aveva senso chiedere di un uomo di nome Woods, visto che si stavano accapigliando su una discrepanza di novanta persone arrivate quel mattino. Douglas sventolò il tesserino e si addentrò nel complesso interno.
Forse l’inferno è questo: una confusione discordante di anime divorate dall’angoscia. Alcuni si azzuffavano, altri dormivano, altri ancora strepitavano, piangevano, scrivevano, disegnavano, e molti si mettevano d’accordo sulle risposte da dare durante l’interrogatorio. Ma, perlopiù, si limitavano a fissare nel vuoto, lo sguardo perso nel tentativo di mettere a fuoco il domani. Dopo quasi due ore di sgomitate tra la folla, Douglas era altrettanto confuso dei prigionieri. Per quanto meticolosa fosse la sua ricerca, sapeva che sarebbe stato facile passare a pochi centimetri da Harry senza vederlo. Si muoveva con metodo, ma la folla gli ondeggiava intorno, costringendolo a incrociare più volte le stesse persone. Con i piedi indolenziti e affamato, fu spesso sul punto di abbandonare l’impresa. Però era certo che, se i ruoli fossero stati invertiti, Harry non avrebbe mai smesso di cercarlo, semplicemente perché l’idea non gli avrebbe neanche sfiorato la mente.
«Perso qualcuno?».
Douglas si era appoggiato a un recinto, felice di poter riprendere fiato. «Alto, sui cinquantacinque, capelli ingrigiti, di carnagione scura, completo da ufficio e camicia bianca – arrestato su Liverpool Road intorno alle tre del mattino». L’aveva ripetuto talmente tante volte che era diventata una di quelle preghiere veloci che chi non ha fede borbotta tra sé.
«Un bel guazzabuglio, eh?». Era un ometto smilzo e irrequieto, in abiti costosi, con una cravatta della Royal Artillery e occhiali dalla montatura spessa. «Io abito in Highbury Crescent» dichiarò. Douglas si rese conto che il tipo aveva a malapena ascoltato la descrizione di Harry, e che non se ne preoccupava affatto. «Qui in mezzo ci sono un sacco di canaglie» gli confidò, una volta accertato l’accento borghese di Douglas. «Lei ha l’aria patita. Ha mangiato?».
«No».
«Be’, immagino che abbia qualche spicciolo in tasca. Se costeggia quel recinto, può convincere una delle sentinelle a sgattaiolare dall’altra parte della strada per comprarle pesce e patatine. Staranno facendo una fortuna, con i prezzi che impongono». Sorrise, come a dimostrare che non serbava rancore.
«Pesce e patatine?» ripeté Douglas. Una prelibatezza.
«Questa gente crede che i tedeschi passeranno un rancio».
«Lei crede di no, invece?».
«Ci rifletta» disse l’altro, sprezzante. «Ho visto delle cucine da campo durante l’ultima disfatta... l’ultima guerra» precisò, in caso Douglas non avesse inteso. «Riesce a immaginare come affronteranno questo caos? Cosa mai gli daranno? Una fetta di roast beef e un po’ di verdura... ah. Saranno fortunati se arriverà un cucchiaio di minestra di patate. Vada laggiù e si nutra. Alcuni di questi ragazzini, e anche gli anziani, domattina saranno in condizioni pietose, a meno che gli unni non si diano una mossa... Liverpool Road, ha detto?».
«Intorno alle tre del mattino».
L’ometto annuì. Lo infastidiva la disorganizzazione, mentre non aveva nulla da ridire su chi si mostrava capace. «Squadra di rastrellamento numero 187. Sapevano il fatto loro. Un giovane ufficiale gentile. Deve aver dato alla moglie del suo amico un cartellino giallo con un numero di contrassegno su un lato e una firma in basso. L’ultima lettera?».
«T».
«Allora dovrebbe trovarlo vicino a quella grossa T laggiù».
«Ci sono andato subito» disse stancamente Douglas. «Conosco il sistema».
«Sì, be’, deve essere stata la squadra di rastrellamento 187. Il tedeschino al comando conosceva sì e no sei parole d’inglese. Sono arrivati da Liverpool Road... insieme a un poliziotto imberbe e sciocco, non arrivava a diciannove anni». Batté sul petto di Douglas. «Con quelli me la prendo, con i maledetti poliziotti: che cosa fanno? Aiutano i tedeschi ad arrestare gli innocenti nel cuore della notte? Li metterei tutti al muro e li fucilerei, quei farabutti. Non mi sono mai piaciuti, i poliziotti».
«Il mio amico doveva essere sul suo stesso pullman».
«Grosso, dice? Capelli grigi. Aveva una cravatta d’ordinanza?».
«Molto probabile».
«La grossa guardia reale. Sì, me lo ricordo. L’ha presa male, si è seduto davanti con le mani in tasca. Un omone, spalle larghe. Ricordo di aver pensato che fosse un buttafuori o un pugile o roba del genere». L’ometto si alzò sulle punte per scrutare tra la folla. Non riuscendoci, poggiò un piede su una delle sbarre del recinto per il bestiame e si issò. «Vada sotto la S. Mi pare di ricordare di averlo visto lì, quando ho convinto la sentinella a comprarmi un po’ di pesce e patatine».
«Grazie» disse Douglas, congedandosi.
«Mangi qualcosa, dia retta a me» gli gridò dietro l’altro.
Douglas vide Sylvia prima di scorgere Harry. Era seduta sul mancorrente del recinto, e masticava un pezzo di pane. Non c’era da sorprendersi. Era una giocatrice d’azzardo e, proprio come un giocatore che vince e continua a giocare fino a perdere tutto, aveva continuato a mettere sul piatto la libertà fino a perderla per sempre.
«Non abbiamo bisogno di te» disse, appena lo vide.
«Come hai fatto a trovarmi, capo?» chiese Harry.
«Indagini di routine».
«Grazie tante, capo, davvero».
«Tu faresti lo stesso per me, Harry».
«Perché non vi sposate, voi due?» intervenne Sylvia. Tirò su col naso, si infilò l’ultimo pezzo di pane in bocca e scese dalla ringhiera su cui stava appollaiata.
«Dovrebbe andare tutto bene» disse Harry.
«In che senso?».
«Il gruppo di Sylvia sistemerà uno degli ufficiali».
Per un poliziotto, sistemare significava corrompere. Sylvia fece una smorfia, come se la disturbasse che Harry parlasse della cosa. «È il modo migliore» aggiunse Harry.
«Forse» disse Douglas, cauto. Se Harry fosse finito al centro interrogatori, avrebbero frugato nel suo fascicolo personale a Scotland Yard. E se Douglas si fosse mosso per farlo rilasciare, avrebbero frugato nel suo, di fascicolo. Corrompere una guardia era l’unico modo di garantire la libertà a Harry, senza documenti compromettenti.
«Non abbiamo bisogno di te» ripeté Sylvia. Douglas accarezzò l’idea che il suo disprezzo fosse dovuto all’amore respinto; alla furia infernale che, secondo alcuni, le donne rifiutate riescono a tirar fuori. Ma era evidente che c’era dell’altro, un’isteria irrazionale e squilibrata, che lo spaventava. E forse lei gli lesse quella paura in faccia. «Torna nel tuo ufficio, Douglas» lo schernì. «Noi faremo a modo nostro». Lo chiamò per nome, per privarlo della dignità che il cognome e il grado gli avrebbero conferito.
«Mi auguro che sappiate entrambi cosa state facendo» disse lui, fissando Harry.
Harry si massaggiò la mascella. «Capo, andrà tutto bene, davvero».
«Fatemi contattare da uno dei vostri amici, in caso di necessità» disse lui. Era sfinito dalla ricerca e abbattuto da tutto quel che aveva visto. Si sentì respinto dall’odio di Sylvia.
«Di’ a Joan...» esordì Harry.
«Cosa?».
«Dille che sarò presto a casa».
«Certo» rispose Douglas. Era lieto di avere una scusa per andarsene da lì, ma, una volta uscito, si rimproverò per aver accettato troppo precipitosamente le rassicurazioni di Harry.
L’aria era satura dell’odore di pesce fritto e Douglas si avviò verso il negozio di cui aveva parlato l’omino. C’erano quattro persone curve sulle friggitrici, tutte a lavorare senza posa per poter servire il flusso continuo di soldati tedeschi che trasportavano il pesce avvolto in carta di giornale dall’altra parte della strada, dove, oltre il filo spinato che delimitava il perimetro del mercato di bestiame, c’erano file di prigionieri affamati in attesa. Grosse banconote bianche da cinque sterline venivano gettate sul bancone e maneggiate con la stessa fretta noncurante riservata ai cartocci.
Douglas sedette a uno dei tavoli con la superficie di marmo nella zona ristorante deserta. «Niente servizio lì» disse uno degli uomini alla friggitrice.
«E dove servite?» chiese Douglas avvicinandosi al bancone.
«Dovrà trovare un altro negozio, amico» rispose quello, asciugandosi la fronte con la mano. «Oggi non abbiamo tempo per gli avventori occasionali».
«Mi porti la platessa e le patatine fritte» ordinò Douglas.
«Altrimenti?» chiese l’uomo, sporgendosi da dietro al bancone per affrontare Douglas.
«Altrimenti giro intorno al bancone e immergo lei e i suoi tre compari nella friggitrice» disse lui, tranquillo.
«Tu...». L’uomo fece per colpire Douglas, ma lui gli afferrò il pugno e lo torse con tale violenza da fargli sbattere la faccia sulla pila di giornali. «Va bene, va bene, niente prepotenze!» gridò il tipo. Gli altri tre finsero di non notare quel che stava accadendo.
Un soldato tedesco – particolarmente interessato alla continuità del servizio – afferrò Douglas per la spalla libera, ma fu investito da un ruggito in perfetto tedesco da caserma e lo mollò subito mettendosi sull’attenti.
«Ora mi dia un bel pezzo di platessa e quattro penny di patatine» proseguì Douglas, senza lasciare l’uomo, «o la trascino oltre il filo spinato dall’altra parte della strada. Chiaro?».
«Certo, signore, sono spiacente». Douglas lo liberò dalla stretta. L’uomo sbatté sgarbatamente un pezzo di pesce su un piatto di ceramica bianca sbreccata, aggiungendo una porzione di patatine con tanta fretta da spargerne un bel po’ sul ripiano di legno.
Douglas mise mezza corona sul bancone e ricevette il resto insieme a un mugugno. Poi l’uomo fece un cenno al soldato tedesco e una nuova porzione di pesce finì nel giornale. Mentre il cuoco lo avvolgeva con mani esperte, Douglas diede un’occhiata alla prima pagina del Daily Telegraph. Il vecchio titolo recitava «I tedeschi in ritirata vicino Ashford – Canterbury dichiarata città aperta all’ingresso dei carri armati tedeschi». Che cosa ci hanno fatto, pensò. Cosa sono diventato?
Intravide la moltitudine di prigionieri da dietro la vetrina striata di condensa. Riusciva a sentirli al di sopra dello sfrigolio della friggitrice e del tintinnio delle monete.
Versò aceto e sale sul pesce con le patatine. Il suo lavoro si ammantava da sempre di quello squallore. Fino ad allora, tuttavia, si era fatto forte della convinzione di proteggere l’ordine costituito. Ma mentre guardava dall’altra parte della strada, quella convinzione vacillò.
Pensò al padre che non aveva quasi conosciuto e al suo matrimonio felice, stroncato con tanta crudeltà. Ormai gli restava solo il figlio. Nella sua vita non c’era posto per le complicazioni che Barbara Barga avrebbe portato. Tuttavia, a dispetto dei ragionamenti, si era innamorato di lei. Inutile negarlo, la desiderava. Come poliziotto, diffidava dell’amore. Si era imbattuto troppo spesso nel rovescio di quella medaglia: la violenza, il dolore e la disperazione. Si disse che Barbara non era altro che una via di fuga da quel manicomio di inganno e sofferenza. Si disse che era invaghito dell’idea dell’America che lei incarnava. Ma, qualunque fosse la verità, aveva bisogno di lei e doveva vederla.