Capitolo trentadue
«Ho fatto abbastanza» disse Harry Woods mentre tornavano a casa in macchina.
«Anche troppo».
«Dico sul serio. Ho fatto abbastanza». Visto che Douglas taceva, Harry aggiunse, «Ohne Mich, come dicono gli unni, giusto? “Senza di me”. Ecco, io mi sento così. La Resistenza può andare avanti senza di me, per un po’».
Douglas annuì. Anche lui aveva sentito i tedeschi dire «ohne mich» quando si dissociavano da qualche richiesta ardua, rischiosa o esosa del Terzo Reich. Con la coda dell’occhio, vide Harry sfiorarsi la guancia livida, spostare le dita sulla facca per capire quanto fosse estesa l’ecchimosi e prepararsi a incontrare la moglie.
«Lo scorso febbraio sembrava l’unica cosa da fare» si giustificò.
«Lo scorso febbraio risale a un secolo fa».
«E poi non sono più riuscito a dire ai ragazzi che volevo uscirne».
Douglas annuì. Era abituato a sentire gli uomini razionalizzare la loro sfortuna, e anche la fortuna. Era come se Harry avesse dimenticato che, solo pochi giorni prima, aveva cercato di coinvolgerlo nella sua cellula di Resistenza.
«È stato Kellerman a organizzare il mio rilascio?» chiese.
«Così ha detto. Perché questa domanda?».
Harry si stava ancora tastando il viso coperto di lividi. «Forse non è tanto male. Cioè... be’, lì dentro mi sono chiesto se, a ruoli invertiti, noi non saremmo stati altrettanto cattivi».
Arrivarono davanti alla casetta di Harry. C’era una lama di luce tra le tende del seminterrato. Harry scese dalla macchina e si girò a guardare la via con occhi nuovi. Poi si voltò e si chinò verso Douglas. «Vorrei tanto tornare ai vecchi tempi, Doug». Parve non accorgersi della pioggia che lo stava inzuppando. Douglas aveva visto uomini uscire di prigione e godersi beati il tempo peggiore: una celebrazione della libertà.
«Ormai siamo sudditi dei tedeschi, Harry». Provava insofferenza nei confronti del collega, ma cercò di non lasciarlo trapelare.
«No, no. Intendevo tra te e me. Vorrei tanto che fosse come ai vecchi tempi tra te e me».
«Lo sarà, Harry» promise Douglas. «Ora vai da tua moglie. È stata tanto in pena».
Douglas si avviò lungo la via desolata e sferzata dalla pioggia, ma non riuscì a impedirsi di lanciare uno sguardo allo specchietto retrovisore. Harry Woods, in piedi sotto un lampione, guardava la macchina che si allontanava. Svoltando l’angolo, Douglas controllò di nuovo. Stavolta, Harry si era mosso, ma invece di andare verso la porta di casa, scese dal marciapiede, attraversò la strada e si diresse altrove. Forse a un telefono pubblico. Oh, be’, rifletté Douglas, lui era un amico e un collega, non il suo tutore. Decise di sorvolare.
Fece delle deviazioni per evitare le strade chiuse intorno alla prigione di Pentonville, ormai diventate «zona di fuoco», e imboccò una serie di viuzze per evitare le stazioni di King’s Cross e di St Pancras, luoghi di grande transito, ormai circondati dalla fanteria e dalle autoblindo. Poi c’erano i Fliegende Feld- und Standgerichte – i tribunali volanti – con tanto di plotoni d’esecuzione. Le esecuzioni sommarie non erano ancora cominciate, ma la vista dei tribunali bastava a far tremare il cuore più puro.
Douglas riconobbe uno di quei tribunali nell’unità che gli fece segno di fermarsi a Tottenham Court Road. C’era una Opel Admiral per il comandante di pattuglia, sei motociclette e due camionette Daimler-Benz G-3 con il tettino di tela, adibite al trasporto truppe. La pioggia battente scintillava davanti ai fari gialli. Da un punto imprecisato all’altro capo della stazione partì il lamento della sirena della Feldgendarmerie. Il Feldwebel che gli chiese i documenti aveva quella cortesia pacata che spesso contraddistingue gli uomini cui non si può disobbedire. Lesse il tesserino con interesse, confrontò Douglas con la foto, scrisse il numero di immatricolazione del veicolo sul suo blocco, batté i tacchi, fece il saluto militare e lo invitò a proseguire.
Era così in tutta l’Inghilterra: l’esercito tedesco voleva dimostrare alla popolazione civile che i «grigi» avevano il dominio assoluto. Tuttavia, se si faceva caso al piacere maligno con cui le pattuglie dell’esercito controllavano i veicoli della polizia e delle SS, quando non i membri stessi dell’organizzazione, si aveva la sensazione che quel dispiegamento fosse a loro esclusivo beneficio.