Capitolo trentaquattro

Linden Manor deve il suo nome al memorabile viale di tigli che conduce alla residenza. L’edificio era un intrico incoerente di mattoni rossi Tudor, restaurato nel diciannovesimo secolo da un danaroso megalomane, che vi aggiunse la cappella gotica e una torre assurda e grottesca, ispirata alle gesta di Re Artù. Ciò nonostante, l’estetica della magione stipata di antichità di Sydney Garin e Peter Shetland passava inosservata, tranne per i privilegiati che si addentravano nella tenuta di cento ettari che la circondava e che teneva l’occhio plebeo a debita distanza.

Quella sera, l’enorme sala da pranzo era illuminata dalla luce palpitante di tre lampadari di vetro policromo del Settecento. Le fiamme delle candele danzavano sulle posate d’argento massiccio, lasciando scorgere nella penombra alcune marine olandesi.

«Quando vengono a trovarci gli unni, evitiamo di esporre le cose più belle» rivelò Sydney Garin. Parlava con un forte accento, il timbro nasale. Stava rispondendo a un complimento di Barbara Barga sulla tavola apparecchiata. Ridacchiò. «Per evitare che quelle che sono in grado di comprare appaiano scadenti».

Mayhew fece un breve sorriso di circostanza. Le storie di Sydney sulle truffe ai clienti lo infastidivano, persino quando si trattava di nouveau riche. O di nouveau riche unni. E le conversazioni sulle sue antichità, che univano arte e affari e che sarebbero state bandite da qualsiasi mensa militare o circolo degno di tal nome, non lo attraevano affatto. Piluccò il Perdreau à la normande. A suo parere, sparare a una pernice era un conto; mangiarla, un altro. E cucinarla con il brandy di mele, secondo una ricetta francese, era decisamente disgustoso. Spinse il cibo nel piatto con la forchetta, per far credere di aver mangiato.

La signora Garin, una donnina silenziosa, a disagio nel suo abito di broccato scintillante, sedeva a un capo della tavola. Al suo fianco, il figlio David. Era concentrato sulla madre ed entrambi parevano estranei alla conversazione all’altra estremità della tavola.

Douglas studiava Mayhew. Quell’uomo era un enigma, che lo costringeva ad aggiustare di continuo la sua opinione. I modi sicuri, l’energia e le battute gli davano un’aria giovanile. Come anche il volto attraente, il fisico atletico e i capelli bruni ondulati. Ma se lo si osservava da vicino si notavano anche le rughe, i denti lievemente ingialliti e la tensione che lo portava ad aggrottare spesso la fronte e a giocherellare con coltello e forchetta.

Un domestico versò dell’altro Château Léoville a Douglas. Barbara rise di qualche facezia di Sydney Garin. Douglas guardò il suo ospite e ricordò la rudezza con cui l’aveva trattato in più di un’occasione. Spostò lo sguardo sul figlio, David, un bel ragazzo con i capelli riccioluti e gli stessi grandi occhi marroni del padre. Ma David aveva frequentato un collegio inglese e aveva imparato a mantenere l’espressione impassibile e gli occhi bassi.

«Il giorno in cui il mio paese è stato invaso, Barbara» disse Garin, sfiorandole il gomito, «mi sono detto: Sydney Garin, devi dare una mano a sbatterli fuori».

Mayhew si accigliò, nel tentativo di stabilire quale esercito avesse invaso l’Armenia e quando. Stabilì che Garin stesse parlando dei bolscevichi, ma l’altro aggiunse: «Noi inglesi siamo fatti così». Agitò la forchetta in aria. «L’ultimo a invaderci è stato Guglielmo il conquistatore». Si rivolse a Mayhew, e in una specie di a parte, specificò: «E si parla del 1066, George».

«Dice?» replicò Mayhew, rigido. «Mai stato una cima in storia».

«La pernice non le piace, vero?» disse Garin, allungando il collo per esaminare il piatto di Mayhew. «Oh, be’, poco importa. La settimana scorsa ho avuto qui un colonnello unno che insisteva nel dire che il mio migliore caviale beluga sapesse di sale... maledetto idiota. Mi perdoni, Barbara». Sollevò il dito per richiamare un domestico in livrea. «Porti al colonnello Mayhew un piatto di roast beef freddo». Poi, a Mayhew: «Più nelle sue corde, George».

Mayhew ebbe l’impressione che lo si stesse prendendo per il naso, o, peggio ancora, che lui stesso si stesse rendendo ridicolo. «No, no, no, no» disse, sollevando la mano aperta, in un cortese diniego.

«E della senape inglese» insisté Garin con il domestico, dando dei colpetti al braccio di Mayhew. «So bene cosa piace a voi che siete stati in collegio: budino di riso, carne fredda e tantissima salsa. Giusto, George? Ho ragione?». Rivolgendosi a Barbara Barga, aggiunse: «Siamo parecchio strani, noi inglesi. Mio figlio David mangia sempre le stesse cose». David arrossì. «E il giovane Peter è tale e quale: colpa dei nostri collegi, che servono ai nostri figli tutta quella robaccia pesante. Se glielo permettessi, Peter mangerebbe budino di sugna tutti i giorni».

«Si riferisce al suo socio, Sir Peter Shetland?» chiese Barbara.

«Lord Campion» intervenne Mayhew, più per correggere Sydney Garin che Barbara Barga. Alle loro spalle, un domestico infilò un paio di guanti e prese dei ciocchi dal camino per disporli sul fuoco ardente.

«Oh, non attribuisco molta importanza ai titoli» disse Garin. «Quando abitavo a Parigi, la mensa dei poveri era frequentata soprattutto da duchi e principi».

«Veri?».

«Questa è una domanda arguta» disse Garin, lanciando uno sguardo alla tavola per controllare che i domestici continuassero a riempire i bicchieri. Vide che Douglas aveva quasi finito la portata principale. «Douglas apprezza la pernice. Non è così, Douglas?».

«Deliziosa».

«Ancora pernice» ordinò lui ai domestici. «La mangi finché è calda, Douglas. Fredda non vale niente». Sorseggiò dell’acqua; aveva appena sfiorato il vino. «Veri? Intende dire che se un tipo viene chiamato duca dagli amici è vero, ma se lui stesso si definisce tale è un millantatore?». Garin era concentrato su Barbara, ma non riuscì a evitare di rivolgere un’occhiata in tralice a Mayhew, per vedere se avesse abboccato.

«A che ora arriva questo tizio?» chiese Mayhew, controllando il suo orologio da taschino d’oro.

«Mi piacerebbe che mi permettesse di accompagnarvi» disse Barbara.

«E a me piacerebbe che fosse possibile» ribatté Mayhew. Si scostò una ciocca di capelli dalla fronte e sfoderò il suo sorriso più fascinoso. «Ma preferisco che lei rimanga estranea... anche se è la più influente giornalista di tutta l’Inghilterra, gli altri potrebbero interpretare la sua presenza come una falla nella sicurezza».

«E chi crederebbe mai che lei sia un’importante giornalista americana?» obiettò Garin. «Vedranno questa bellissima, luminosa creatura e penseranno subito che sia una nuova presenza nell’harem di Sydney Garin». Sbuffò, divertito all’idea. La moglie sollevò lo sguardo e sorrise educatamente. Lui le fece l’occhiolino.

Mayhew smise di sorridere e ripartì alla carica. «A che ora ha detto che sarebbe arrivato?».

Il domestico mise un piatto di manzo freddo sulla tavola, ma Mayhew lo ignorò. Dal camino si levarono alcuni schiocchi e una fiammata intensa. Si diffuse un odore di linfa, mentre il ciocco prendeva fuoco.

Garin posò una mano sul braccio di Mayhew, per ammansirlo. «Non si agiti, George. I miei accenderanno i fuochi non appena sentiranno i motori. E il pilota compirà un paio di giri per accertarsi di recapitare il passeggero nel posto giusto. C’è tutto il tempo per consumare il manzo freddo, un sigaro e del brandy, e per rilassarsi cinque minuti». Mayhew prese il vino e ne bevve un sorso, come per reprimere il desiderio di litigare. «Se lei fosse più calmo, George, potrebbe fare a meno di portare con sé le pillole per la digestione che tiene nella scatolina d’argento in tasca al panciotto».

«Questo tipo ha fatto parecchia strada» ribatté Mayhew. «Voglio essere presente, per assicurarmi che tutti i fuochi siano disposti a dovere e ben visibili. Non possiamo permetterci nessun errore».

«Carissimo George» disse Garin con un tono gentile, privo di condiscendenza. «Ho passato la vita a sfuggire alle persecuzioni. Accetti il mio consiglio amichevole: rallenti il passo, viva giorno per giorno e impari a godersi le piccole gioie dell’esistenza...». Fece un gesto vago. «Le belle donne, un buon bordeaux e del cibo raffinato. Non riusciremo a sconfiggere i tedeschi la settimana prossima, George. Sarà una strenua, lunga lotta. Dosi le forze e sia lungimirante».

«A che ora tramonta la luna?».

Garin sospirò. «Come vuole lei, George. Beva il suo bordeaux e infiliamoci i cappotti».

Quella notte, c’era un certo traffico nei cieli: tre aerei da trasporto Junkers, che decollarono a distanza di cinque minuti l’uno dall’altro, diretti a est, verso l’Olanda e la Germania. Garin porse una fiaschetta d’argento con del brandy a Mayhew e Douglas, che declinarono. La mise via, intatta. «Avete ragione» disse «potremmo restare qui fuori parecchio a lungo».

«I suoi uomini, laggiù, in fondo ai quattro ettari di pista, sanno che non devono accendere i fuochi prima che lo facciamo noi?».

«Santa pace, si calmi, George. Se continua ad andare avanti e indietro in quel modo fa venire l’ansia anche a me».

Presto sentirono il rombo di un motore d’aereo. Il figlio di Garin accese gli stracci impregnati di benzina e il falò si infiammò in un’alta vampata gialla.

Gli addetti all’atterraggio sapevano poco o niente di volo. Si erano attenuti a ogni dettaglio dei messaggi radio sulla preparazione della pista. Avevano collocato la luce A – o fuoco d’agente – nel punto di impatto col terreno, e avevano controllato che i due fuochi sopravvento fossero allineati e sulla direttiva esatta. L’aereo a quel punto scese sulla pista illuminata dalla luna. Il pilota passò alla navigazione a vista, riducendo la velocità e il rumore del motore. Il passeggero notò il lago dal contorno elaborato che baluginava sotto la luna e il pilota scorse la torre orrenda che nel secolo precedente aveva ospitato un telescopio astronomico.

Dopo un primo giro, il pilota tentò di atterrare, con il motore al minimo: assestò il grosso aereo scivolando un poco d’ala, fino a quando i tre fuochi furono allineati. Stava per toccare terra, quando le luci scomparvero. Il pilota tirò la cloche e il motore ruggì, mentre il velivolo artigliava la notte fredda e risaliva a una lentezza penosa. Il pilota si lasciò sfuggire una lieve imprecazione, dovuta al momento di panico. Inclinò bruscamente un’ala, che con la punta quasi sfiorò le chiome degli alberi, e fece compiere una virata al pesante biplano con tale leggerezza da farlo tornare sulla stessa linea di avvicinamento.

«Cosa succede?» chiese Mayhew.

«Non riuscirà ad atterrare» disse Douglas.

«Gli alberi!» esclamò Garin. «Sono troppo alti?».

«Nel messaggio radio non si faceva riferimento all’altezza degli alberi circostanti» osservò Mayhew. «Accidenti a lui, deve riuscirci!».

Douglas guardò il colonnello. Teneva le mani infilate nelle tasche del cappotto e aveva un’espressione tesa e contratta. «Forse lo preoccupa anche il decollo» disse. «Avrà capito che la pista è parecchio bagnata, dopo tutta la pioggia che abbiamo avuto». L’aeroplano li oltrepassò a volo radente.

«Spero che non compia troppi cerchi» disse Mayhew. «Se continuerà a girare sopra Linden Manor tutta la notte attirerà l’attenzione».

Sydney Garin tacque. Il velivolo ripassò senza rallentare. Volando lungo la linea di fuochi accesi e misurando per bene le cime degli alberi, il pilota cercava solo la conferma di quel che sapeva già per certo. Il muso del biplano si sollevò di nuovo e gli uomini a terra sentirono per un attimo il frastuono del motore al massimo, mentre le eliche sostenevano il peso del velivolo e lo spingevano in grandi spirali verso l’alto, come una falena incapace di resistere all’attrazione della luna.

Il biplano era ormai un puntino contro le nuvole che si addensavano quando il paracadute si aprì. La luce della luna catturò la seta fluttuante. Per un attimo, nel cielo notturno splendettero due lune, poi una si fece sempre più grande, fino a quando i braccianti di Garin, che stavano spegnendo con l’acqua i fuochi sopravvento, gridarono che il paracadute sarebbe atterrato sull’altra sponda del laghetto ornamentale.

«Più in là» precisò Garin. «Scenderà sul pascolo. Spero non faccia troppo rumore».

«I tedeschi?».

«No, una giumenta incinta». Si rivolse al figlio. «Accertati che nessuno disturbi Buttercup».

«Giusto, papà».

«Non voi due!» disse Garin a Mayhew e Douglas, che si stavano avviando. «I ragazzi del villaggio sono capaci di tenere la bocca chiusa su quel che cade dagli aeroplani... ma un riccone che scivolasse dentro un fosso in abito da sera metterebbe a dura prova la loro omertà».

«Sarebbe meglio che fosse presente uno di noi» disse Mayhew.

«I miei ragazzi sono molto creativi quando si tratta di trovare una scusa per poter battere la campagna dopo il coprifuoco. Ma non saprebbero giustificare la presenza di uno di voi al loro fianco». Garin si lasciò sfuggire un altro dei suoi sbuffi di riso. Era un suono sgradevole, ma talmente contagioso da indurre Mayhew e Douglas a unirsi alla risata.

Garin calcolò che i suoi «ragazzi» avrebbero impiegato solo mezz’ora a riportare il paracadutista a Linden Manor. Ma il vento spinse il paracadute più lontano di quanto chi si occupava dei fuochi di atterraggio potesse misurare. Il paracadutista si slogò la caviglia, atterrando in una macchia melmosa vicino al fiume. Si mostrò eccessivamente cauto nell’ignorare i richiami della squadra di ricerca, e fu trovato solo grazie all’istinto del bastardino di proprietà di uno stalliere.

«La madre seguiva sempre i cani da volpe» disse il ragazzo, tutto orgoglioso, mentre il paracadutista veniva scortato al Manor.

Arrivò dopo due ore nel salotto in cui Mayhew, Garin e Douglas aspettavano con impazienza da quando avevano ricevuto la notizia del ritrovamento. Era la stessa stanza in cui si erano riuniti prima di cena. Le tende di seta erano ancora tirate, e il fuoco era meno intenso. Tuttavia, gli interni avevano subito la trasformazione che colpisce tutte le stanze di notte. Ogni suono giungeva affilato e nitido; nel silenzio, sentirono un gufo, il fruscio del vento tra gli alberi, il ticchettio costante dell’orologio scheletrato, il movimento dei carboni ardenti che si assestavano nel camino e poi i passi di un domestico lungo il corridoio. La stanza era satura dell’aroma dei sigari Avana di Mayhew.

«Il suo ospite, signore» annunciò il maggiordomo, mentre il paracadutista faceva il suo ingresso. Era un americano di mezza età, ma, come molti suoi compatrioti, capace di movimenti e gesti da ragazzo. Manifestava una certa irrequietezza, diversa dall’agitazione nervosa che Douglas aveva scorto in Mayhew quella sera; somigliava più all’impazienza tipica degli atleti prima di qualche gara fondamentale. Il bel viso era squadrato e abbronzato, gli occhi piccoli; il volto di un uomo che aveva passato quasi tutta la vita in qualche prateria o deserto assolato... o si trattava di spiagge e piscine? I capelli biondi erano tagliati cortissimi. Douglas aveva sentito parlare di quella nuova, strana acconciatura, ma era la prima volta che la osservava. In Inghilterra, un taglio del genere si vedeva solo in testa ai galeotti e a qualche appartenente all’esercito di occupazione tedesco.

Come fosse consapevole dell’effetto che faceva il suo taglio militare, l’americano si passò la mano sul capo. Le mani rivelano tutti i segreti di un uomo, e quelle erano morbide, bianche, prive di calli e lievemente rugose, con le unghie curate e le vene sporgenti. Erano mani da facoltoso sedentario che non ne faceva uso: un uomo che si avvicinava ai quaranta e tanto vanitoso da fare regolarmente la manicure.

L’enorme levriero irlandese di Garin, che se ne stava sdraiato accanto al camino, sollevò il muso per esaminare il nuovo arrivato, sbadigliò e tornò a dormire. Garin tese all’ospite un bicchiere vuoto e inclinò la bottiglia di whisky. L’americano annuì e Garin gliene versò una dose generosa. Poi arrivò un domestico con un radiotrasmettitore portatile. Faceva parte del bagaglio del paracadutista, la custodia di tessuto concepita per farlo sembrare una fisarmonica. Ma che possibilità aveva quel perfetto damerino di passare per musicista di strada?

«Temevamo che il vento l’avrebbe trasportata nei tenebrosi meandri dell’Essex» disse Mayhew.

L’americano sorseggiò il whisky. «Ho sentito i tamburi della giungla» celiò. «Mmm! Il primo superalcolico in quasi tre settimane».

«Sulle navi da guerra americane sono vietati gli alcolici» disse Mayhew. «Ne ero stato messo al corrente».

«La nave era britannica, un mercantile da quindicimila tonnellate» ribatté l’americano. «Farà meglio a ricordarselo. Abbiamo verniciato i contrassegni sull’aereo e i vostri hanno assegnato un mandato della Royal Navy al pilota, in caso di bisogno».

«Preghi Dio che non sia necessario farvi ricorso» disse Mayhew.

L’americano sollevò il bicchiere per bere, fece una smorfia di dolore e si massaggiò la schiena. «Siamo stati lanciati dalla nave da una vecchia catapulta di uno dei nostri incrociatori da battaglia. Per un attimo ho temuto che mi avesse strappato la testa».

«Il suo pilota era un tantino agitato».

«Avete visto quegli Junkers da trasporto?».

«I tedeschi stanno spostando l’ennesima divisione di fanteria per via aerea. Erano vuoti, andavano a fare un altro carico».

«Non c’era abbastanza spazio per atterrare sulla vostra pista» insisté l’americano. «E di sicuro non volevamo abbandonare un aereo danneggiato di cui domani mattina avreste dovuto rendere conto».

«Davvero premurosi» intervenne Garin. «Ha fame?».

«Abbiamo cenato con una bistecca prima di decollare. Lo scotch è sufficiente, grazie». Abbassò lo sguardo sulla scarpa. L’impatto dell’atterraggio con il paracadute aveva scollato la suola dalla tomaia. Storse la scarpa sul tappeto, per controllare lo strappo.

«Ha parlato con i suoi a Washington? Come ci si organizza?».

«Ho parlato, eccome!».

«E?».

«E hanno detto “no”!».

Mayhew lo fissò. «No?».

«Ho parlato persino con il Presidente... per mezz’ora. Ha lasciato il segretario del lavoro a fare anticamera mentre discutevamo». L’eccitazione cominciava a cedere il posto alla stanchezza. Attraversò la stanza, sprofondò sul divano e allungò la testa per rilassare i muscoli del collo. «E ho parlato con diversi amici personali al dipartimento di stato, e alla sottocommissione del Senato istituita per trattare con i vostri».

«E con l’esercito e la marina?».

«Con l’esercito e la marina».

«Santo cielo, gli ebrei americani saranno ben consapevoli del fatto che Hitler vada fermato!» si intromise Garin.

«Non ci sono molti ebrei nell’ufficio del capo di stato maggiore» ribatté asciutto l’americano. «Il vostro re sarebbe un peso per l’America. Pensate davvero che Roosevelt voglia passare alla storia come l’uomo che ha invitato il re d’Inghilterra a tornare negli USA? Nient’affatto! E cosa se ne farebbero, poi? Vogliono che lo ospitiamo alla Casa Bianca, ha commentato un ammiraglio, o che gli costruiamo una reggia?».

«Sono sicuro che il Presidente si sia astenuto da simili commenti» obiettò Mayhew.

«Deve smetterla di credere che Roosevelt sia una specie di fanatico anglofilo. È un politico, e dalle mie parti questo significa “volpone”».

«Ovviamente, da un punto di vista politico è una cosa delicata...» disse Mayhew.

«La correggo, amico: da questo punto di vista è un suicidio. I politici americani continuano a promettere che non trascineranno i nostri ragazzi nelle guerre altrui. Pensa veramente che ci sia qualcuno disposto ad accogliere in patria il suo re, ossia l’elemento cruciale di tutta la baruffa europea?».

«Guerra» ribatté freddamente Mayhew, respingendo il termine «baruffa». «Noi la chiamiamo guerra».

«Chiamatela come vi pare, ma per la maggior parte dei miei connazionali ormai è roba vecchia. E a renderla tale sono stati i mangiacrauti».

«Le abbiamo chiesto troppo» disse Mayhew. «Forse sarebbe stato il caso di mandare Sir Robert Benson a Washington».

L’americano si rilassò contro lo schienale e chiuse gli occhi. Difficile stabilire se fosse stanco, deluso o solo intento a contare fino a dieci prima di dare in escandescenze. «Ne abbiamo già discusso settimane fa» sussurrò. «È stato lei a voler mandare me. Ha detto che un americano bene informato, che parteggiasse per l’Inghilterra, sarebbe stato la carta migliore». Mise la mano sul bicchiere per rifiutare il whisky che Garin gli stava offrendo. «Non creda che mi sia fatto degli scrupoli. E non creda che l’America non veda quel che accade nel resto del mondo. Negli ultimi sei mesi, il Congresso ha stanziato un finanziamento di sei milioni di dollari per l’esercito, in modo da prepararci alla battaglia e da equipaggiare l’aeronautica con i velivoli migliori. Ma abbiamo il nostro Hitler: un tipo olivastro con gli occhi a mandorla, che firma la corrispondenza con il nome di Tojo».

Mayhew tese la mano verso il camino e rimase a fissare le fiamme. «Bisognerà dirlo al re» disse sconsolato. «Andrà in Canada, e basta».

L’americano trovò del fango secco sulla gamba del pantalone, lo staccò e lo gettò nel fuoco. «Non mi capisce proprio, vero? È colpa del mio accento?».

«Prego?» chiese Mayhew con tono tagliente. Si volse per guardare in faccia l’americano.

«Quello che voglio dire è che il suo re non sarà ben accetto in America settentrionale. Il che vale per tutto il mercato immobiliare a nord del quarantanovesimo parallelo».

«A Washington non oseranno certo vietare ai canadesi di offrire rifugio al loro sovrano!».

«Washington non vieta nulla. Sono i canadesi a non volerlo. Sono andato a Ottawa per sondare il terreno. Hanno i nostri stessi problemi politici. Accogliere un re imperatore sminuirebbe l’autorità del loro primo ministro».

«Il re non interferirà nelle politiche canadesi» obiettò Mayhew.

«I canadesi sono stati oppressi dalla pesante mano paterna di Londra per troppi anni, colonnello. Hanno finalmente raggiunto una certa indipendenza. E adesso lei prentende che il re si trasferisca da loro. Nessun politico favorirà un simile passo indietro, con il rischio di subire le critiche dell’opposizione».

«Hanno tutto l’oro inglese, un capitale di seicentotrentasette milioni in vecchie sterline. E quando la HMS Revenge ha fatto quella prima consegna, c’era anche più di un miliardo di sterline in titoli».

«Niente paura. I titoli si trovano nell’edificio delle assicurazioni Sun-Life, a Ottawa, mentre l’oro è a Montreal. Nessuno tenterà di sgraffignare il gruzzolo al re».

«Non è il denaro del re» ribatté Mayhew, in un lampo rabbioso.

L’americano fece un gesto di scuse, ma Mayhew si volse per scuotere la cenere nel fuoco e mostrare un interesse smodato per l’orologio.

L’altro si rilassò, poggiando un piede sul ginocchio in una posa inconfondibilmente americana, e si massaggiò la scarpa sfondata, come per rassicurare un animaletto.

«Le sue scarpe sono da buttare» constatò Douglas, conscio del fatto che nessuno avrebbe notato l’americano in un paese dove la metà dei cappotti era ricavata da coperte militari e le donne cucivano gli abiti con la stoffa delle tende.

«Non fa niente» disse l’americano. Smise di strofinare la scarpa e aprì la mano per controllare i tagli che si era procurato mentre il paracadute lo trascinava attraverso una siepe. I palmi erano chiazzati di dosi abbondanti di tintura di iodio dal colore vivace. «Tornerò a bordo la settimana prossima».

«La nave aspetta in mare?» chiese Douglas.

«La seconda flotta di cacciatorpedinieri – l’USS Moffett e colleghi – esegue le esercitazioni navali d’autunno».

«Così vicino alle coste britanniche?».

«In acque aperte, signore. Non abbiamo oltrepassato il limite di tre miglia».

Douglas guardò gli altri. Mayhew contemplava il fuoco e Garin stava aprendo una nuova scatola di sigari con un coltellino a serramanico dall’impugnatura d’avorio. «Ha mai sentito parlare di un’esplosione atomica?» chiese Douglas all’americano.

Nessuna risposta.

«La marina degli Stati Uniti fa provocatoriamente avvicinare una flotta di cacciatorpedinieri all’Inghilterra, in acque ancora ufficialmente classificate come zona di guerra, e le ordina di restare nelle vicinanze intanto che lei passa una settimana a fare il turista a Londra. A che scopo?».

Mayhew si raddrizzò e strattonò i polsini. L’americano rimase in silenzio.

«Vuole fare un accordo con lei, colonnello Mayhew» disse Douglas, gli occhi fissi sull’americano. «E affinché lo scambio favorisca al massimo l’America, dà inizio alle trattative con un bel “no”».

«Ma perché?» chiese Mayhew andando con lo sguardo dall’uno all’altro.

«Vogliono i calcoli che Spode ha bruciato, colonnello».

L’americano lo guardò con espressione impenetrabile, ma Douglas notò che le sue dita tiravano la scarpa tanto forte da aumentare lo spacco.

«Un dispositivo atomico nella stiva di una nave. Ecco l’unica arma che una potenza europea potrebbe utilizzare per conquistare l’America». Douglas si avvicinò all’americano e gli si rivolse come se fossero soli nella stanza. «Stia pur certo che se Hitler metterà le mani su un dispositivo del genere lo userà contro di voi».

«Lo so» disse l’americano. Estrasse una grossa Colt automatica dalla tasca. «Posso metterla da qualche parte? Mi ha già bucato la tasca».

Sydney Garin la prese e la rimirò sotto la luce, prima di infilarla nel primo cassetto di un piccolo comò d’epoca.

L’americano era stanco. Douglas aveva visto quella stessa espressione sui volti di altri uomini arrivati al punto di non preoccuparsi più della storia che stavano raccontando. «Vuol farmi credere che nessuno a Washington le ha parlato del professor Frick? O degli studi di fisica atomica eseguiti al Clarendon Laboratory di Oxford, al Liverpool Cyclotron, a Chadwick, o da Rutherford al Cavendish Laboratory? O del lavoro compiuto dai tedeschi da quando hanno messo mano sulle ricerche a Bringle Sands?».

«Nessuno a Washington ha parlato di fisica atomica» ribatté l’americano. Sorrise all’idea.

Ma fu un diniego troppo fiacco per convincere Douglas. «Quindi lei è solo un postino?» gli chiese Douglas. «Perché mandare delle navi militari quando sarebbe bastato spedire una lettera con su scritto un bel “no”?». Fece una pausa e sorseggiò il whisky quasi senza sentirne il sapore. «E se le dicessi che altri governi sono interessati ai calcoli in nostro possesso?».

«I russi?».

«I tedeschi possono offrire di più».

«Cosa?».

«La revisione degli accordi sul trattato di pace» rispose Douglas, improvvisando alla cieca. «Ci concederanno un esercito, una piccola guardia costiera e un vero e proprio governo civile, in sostituzione dei lacchè di questo regime fantoccio. Potremo gestire il ministero degli esteri e quello della difesa. La zona occupata si limiterà a una striscia di costa e controlleremo le importazioni essenziali; avremo una flotta mercantile e adegueremo il valore della sterlina a quello del Reichsmark. Le riparazioni saranno ridotte a un’inezia».

«Tutto questo in cambio di un paio di fogli di calcoli?» osservò l’americano.

«In cambio di tanti anni di duro lavoro, di migliaia di ore ai calcolatori e della collaborazione volenterosa dei nostri fisici migliori. Sapeva che l’esercito tedesco ha messo in funzione la sua pila? Quando si sarà raffreddata, se ne ricaverà il plutonio. E basteranno un paio di passaggi per arrivare a un ordigno esplosivo».

«Una commissione del Congresso sta esaminando l’idea» ammise l’americano, rinunciando alla sua messinscena. «Hanno parlato con Einstein. Ma le stime toccano miliardi di dollari, e non c’è la certezza di uno scoppio».

«Non sottovaluti l’importanza di un risultato negativo. Qualche miliardo di dollari sarebbe un prezzo esiguo da pagare per scoprire che i nazisti non sono in grado di distruggere New York da un giorno all’altro».

Sul volto dell’americano si fece strada un sorriso sornione. «Lei è il soprintendente di polizia» disse. «L’ho capito solo ora. Lei è il cavolo di tizio di Scotland Yard di cui si parla tanto».

«Non si preoccupi di chi sono io» tagliò corto Douglas, stupito e infastidito. «È autorizzato a trattare sul re?».

«Il suo stile mi piace, sa? Mi piace. Barb aveva detto che mi sarebbe piaciuto e, diamine, aveva ragione». Sorrise. «È la prima volta che ne fa una giusta dal giorno in cui ci siamo sposati... o forse dal giorno prima».

«Lei è Danny Barga!».

«Tenente comandante Daniel Albert Barga, in carne e ossa».

«Quindi l’incarico nella marina degli Stati Uniti è stato affidato a lei» disse Mayhew, esaminando la cenere del sigaro.

«Dietro insistenza del dipartimento di stato».

Mayhew annuì. Far indossare un’uniforme a un civile non era poi tanto diverso dall’arruolare nell’esercito gli operai in sciopero. Era un modo di assicurarsi che avrebbe eseguito gli ordini alla lettera.

Proprio allora, un domestico si precipitò nella stanza e sussurrò un lungo messaggio a Sydney Garin, che annuì, l’espressione sempre più seria. Quando il domestico si fu congedato, Garin disse: «Temo che i tedeschi abbiano rinvenuto dei brandelli del paracadute del vostro amico».

Danny Barga si alzò in piedi. «Sono stati costretti a tagliarlo: si era impigliato a un albero, e non sono riusciti a raggiungere alcuni pezzi di corda».

«Deve essere stato avvistato mentre scendeva. Un intero plotone di fanteria sta setacciando i miei campi».

«Verranno qui?» chiese Mayhew.

«Certamente» rispose Garin con calma. «I soldati sono metodici, in particolar modo quelli tedeschi. Perquisiranno ogni casa del vicinato, inclusa questa». Si sforzò di sorridere.

George Mayhew spense il sigaro quasi non volesse che i tedeschi lo cogliessero a fumare. «Sarà il caso di concordare le nostre versioni».

«Sono sulla loro maledetta Sonderfahndungliste» dichiarò Danny Barga.

«Non ha dei documenti di identità sotto falso nome?» chiese Garin.

«I documenti mi aspettano a Londra. Quelli prodotti a Washington non sono mai aggiornati».

«Può nasconderlo, Garin?» si informò Mayhew.

Prima che Garin avesse modo di rispondere, dal corridoio arrivò un trambusto sempre più forte. Poi la porta del salotto si spalancò e un domestico caracollò all’interno a testa bassa, come un toro che carica. Recuperò in parte l’equilibrio, evitando di finire nel camino, e si girò per affrontare l’uomo che lo aveva spinto nella stanza con tanta violenza.

«Sono il dottor Oskar Huth, Standartenführer». L’ufficiale squadrò gli uomini uno a uno. «Ah, soprintendente Archer, ero certo che l’avrei trovata qui... e il colonnello Mayhew, e il signor Sydney Garin. Tutte facce che compaiono nei miei fascicoli riservati».

Nessuno fiatò. Il domestico si massaggiava il polso che Huth aveva stretto per torcergli il braccio dietro la schiena.

Il tedesco si piazzò alle spalle degli uomini, che non si girarono a guardarlo. «È stato rinvenuto un paracadute nelle vicinanze, signor Garin. Ne sa nulla?».

Garin non rispose.

«Sa nulla di quel paracadute?» sbraitò Huth, come un cerbero in una piazza d’armi.

«Me ne hanno parlato i domestici» sussurrò Garin.

«E lei non ha fatto niente?».

Garin alzò le spalle. «Cos’avrei dovuto fare?».

«E lei, colonnello Mayhew, anche lei ha represso la curiosità? Come non ammirare la rinomata compostezza britannica?». Un SS-Scharführer fece capolino da dietro la porta. «Qui tutto in ordine, Scharf» disse Huth. «Accertatevi che non ci siano altri domestici nei fabbricati annessi, poi radunateli nel salotto della servitù».

Il sergente di squadra batté i tacchi e ripercorse il corridoio.

«Quanto a lei» disse Huth, avvicinandosi a Danny Barga. «Chi è, lei?».

«Un cittadino americano».

«Si sieda, cittadino americano» ribatté Huth, esercitando una pressione improvvisa sulle spalle di Barga, che fu colto di sorpresa e, indebolito dalla caviglia slogata, cadde di peso su una poltrona.

Huth andò al camino, poi si volse per guardarli in faccia. «Non credo a nessuno di voi. Avete un’aria colpevole».

«Lei irrompe qui...» esordì Mayhew.

«Silenzio!» lo interruppe Huth. Mayhew obbedì. «Vi arresto tutti» disse. «E non discuta con me» aggiunse, rivolgendosi a Mayhew.

Si volse a contemplare il movimento dell’orologio scheletrato. Erano tutti immobili e, ora che il vento era calato, l’unico suono udibile era il ticchettio dell’orologio.

Douglas andò al comò, aprì rapidamente il primo cassetto ed estrasse la Colt calibro 45 automatica che l’americano aveva portato con sé. La puntò contro Huth.

«No, Standartenführer» disse.

Huth si volse a guardarlo. Sorrise, come se Douglas avesse compiuto un imperdonabile passo falso. «Non sia sciocco, soprintendente Archer, ho uno Sturm di fanteria SS con me».

«Mi dia il silenziatore, signor Garin» disse Douglas. Lo prese e lo avvitò alla pistola.

«Metta giù la pistola e dimenticherò questa storia» disse Huth.

«Non si muova, o sparo» ribatté Douglas.

«Non ne ha il fegato» obiettò Huth, ma rimase fermo.

«Prenda la pistola dello Standartenführer, colonnello. E si tenga a debita distanza mentre lo fa».

«Sicuro di sapere il fatto suo, amico?» chiese Mayhew.

«Sicurissimo» rispose Douglas, anche se il cuore gli pompava sangue per tre uomini e lo stomaco era contratto dall’angoscia. Non ebbe il tempo di ripensarci, perché Mayhew stava già slacciando la fondina di cuoio di Huth per sfilare la pistola.

«Detesto vederla firmare la sua condanna a morte» commentò Huth.

«Quanti veicoli?». Douglas rivolse la domanda al domestico di Garin, senza distogliere lo sguardo da Huth.

«Cinque camion e un sidecar».

Douglas annuì: sembrava ragionevole. «Telefoni di sotto usando la linea interna» ordinò a Huth. «Dica al suo Scharführer di far salire gli uomini a bordo e di prepararsi a partire».

«E io?».

«Faccia come le dico» ordinò Douglas, avvicinando il telefono a Huth.

«No» intervenne Mayhew. Douglas si fermò, la pistola in una mano e il telefono nell’altra. «Lo Standartenführer Huth e io potremmo trovare un accordo. Mi permette di parlarle in privato, Standartenführer?».

«Come rifiutare?» ironizzò Huth.

Mayhew guardò Douglas, che annuì.

I due si appartarono per quasi mezz’ora. Quando tornarono, Huth disse: «Molto bene». Lanciò un’occhiata nella stanza. «Il colonnello Mayhew mi ha fornito una spiegazione per la vostra presenza qui stanotte. Sorvolerò sulla cosa, per ora». Prese la pistola da un tavolinetto e la rimise nella fondina. «Ma vi avverto...» si volse a guardare Mayhew. «Vi avverto che mi aspetto un tornaconto». Andò alla porta, abbassò la maniglia e si voltò verso di loro. «Il colonnello Mayhew mi ha convinto che nessuno in questa casa ha niente a che fare con il lancio del paracadute. Ma forse voi farete circolare la notizia che la Luftwaffe è in possesso di un radar che segue il traffico aereo giorno e notte, con ogni tipo di condizioni atmosferiche».

Una volta certi che i camion e la motocicletta di Huth si fossero avviati sul lungo viale di tigli, Mayhew disse: «Lascerà cadere la questione della pistola, Archer. L’ha promesso, e io gli credo».

«E lei, cosa gli ha promesso?».

Mayhew fu evasivo. «La luna e le stelle; tutto quel che voleva, in cambio di un po’ più di tempo. Ora dobbiamo sottrarre il re alla custodia dei tedeschi». Scoccò un’occhiata a Danny Barga. «E dimostreremo ai nostri amici americani che un Presidente con una bomba atomica può essere rieletto anche se ospita un re in esilio».