Capitolo trentacinque
Il Metropolitan Music Hall di Edgware Road era caldo, chiassoso e saturo di fumo, con il pubblico accalcato per vedere Flanagan e Allen e sentir cantare Vera Lynn.
Nel 1941, i testi delle sue canzoni si erano trasformati nel manifesto del senso di oppressione avvertito dal popolo della Gran Bretagna occupata. «I desideri sono i sogni sognati a occhi aperti» cantava. «Ci rivedremo, non so dove, non so quando» era la promessa accarezzata dalle moltitudini di uomini e donne che avevano i propri cari nei lontani campi di prigionia tedeschi.
Alla fine della prima parte, si presentò sul palco con un semplice abito bianco, alla portata di qualsiasi commessa, accolta da un applauso fragoroso che costrinse l’orchestra a ripetere due o tre volte l’introduzione di Wishing, prima che si riuscisse a sentire la sua voce al di sopra del frastuono. E quando Flanagan e Allen si unirono a lei con tutta la compagnia per cantare «Voleranno gli uccelli sulle bianche scogliere di Dover, vedrai. Torneranno l’amore, il riso e la pace, domani, quando il mondo sarà libero», il pubblico rimase immobile, col fiato sospeso.
Il numero si chiuse con tutta la compagnia che indossava cappellini buffi, lanciava stelle filanti e faceva scoppiare i palloncini che scendevano da un grosso cestello appeso al soffitto.
All’inizio della seconda parte, il pubblico era preda di un’euforia rara. Neanche il «Professor Zingo» riuscì a smorzare la gioia, il che aveva dell’incredibile, perché non c’è niente di più faticoso dello stare a guardare gli sforzi penosi di un mago che non riesce a dominare le sue magie.
Gli inservienti detestavano le serate di gala, perché i festeggiamenti lasciavano il teatro in un caos di cartacce da recuperare e riutilizzare. Una ragnatela di nastri di carta colorata avvolgeva le cariatidi pettorute e qualche palloncino rimbalzava nei corridoi. Il bar era l’unico posto avulso da serate del genere. Era un locale stretto e lungo alle spalle della platea. Una vetrata permetteva al gestore di vedere il palco, ma la musica arrivava attutita, tranne quando si apriva la porta. Lì, si poteva usufruire del meglio dei due ambienti: la visione delle gambe delle ballerine e il suono della propria voce.
«E se non venisse?» si preoccupò Harry Woods. Finì la sua pinta di birra annacquata e fece segno al barista di versarne un’altra.
«Verrà» rispose Douglas. Declinò con un gesto l’offerta di un secondo giro. Due pinte di quella roba erano praticamente la quantità massima che la sua vescica potesse contenere, e aveva imparato a non mescolare le questioni di polizia con le grosse bevute.
«Vengono molti crucchi, qui, Percy?» chiese Harry al barista.
L’uomo continuò a pulire il piano, asciugando la birra rovesciata e strizzando lo straccio in un secchio sul pavimento dietro il bancone. «No» rispose. Aprì il canovaccio umido, lo scosse e lo stese ad asciugare su un barile di birra. «I tedeschi hanno i loro spettacoli, con grandi stelle che arrivano dalla Germania. Costano solo sei penny. Qui una cifra simile la sborsi per un posto in “piccionaia”. E comunque non capiscono le canzoni e le battute».
Harry accese una sigaretta e offrì il pacchetto al barista, che accettò con piacere. «Cercate un tedesco?».
Douglas si girò per seguire il numero sul palco – il Professor Zingo che faceva uscire una scia infinita di fazzoletti colorati da un tubo apparentemente vuoto – ma in realtà era sulle spine per quel che Harry avrebbe rivelato di quell’incontro.
«Dobbiamo incontrarne uno, un ufficiale del servizio postale dell’esercito, che ci ha parlato di furti di lettere».
«Ah sì» fece il barista.
«È una faccenda importante» insisté Harry, come per attirare il suo interesse.
«Sì, come no» disse il barista, cominciando a sciacquare i bicchieri sporchi allineati sull’acquaio. Harry era stato bravo a sviare la curiosità del barista su quell’incontro.
Il Professor Zingo intanto apriva e chiudeva gli sportelletti di una grande scatola di lacca nera, accompagnato dal pizzicato degli strumenti a corde dell’orchestra. Guardò il pubblico e la sua bella e giovane assistente, poi batté sulla lama di metallo di una sega circolare. In un crescendo di Čajkovskij, la porta si aprì e il capitano Hans Hesse fece il suo ingresso. Grazie al cielo, aveva evitato di indossare il cappotto con il collo d’astrakan: in un luogo del genere sarebbe stato assediato da gente a caccia di autografi.
«Cosa beve, Hans?» gli chiese Harry, come se si conoscessero da una vita.
«Birra» rispose lui, togliendosi il cappello nero a tesa larga e poggiandolo con cura sul ripiano. Era illegale offrire da bere a un membro dell’esercito d’occupazione, e altrettanto illegale servirlo. Ma la birra arrivò subito. Hesse la sorseggiò, fece una smorfia, sorrise e la rimise sul bancone. «Ce la fate per domattina?».
La ragazza era entrata nella scatola. Il Professor Zingo riaprì gli sportelli per mostrarne il busto, pronto per essere tagliato in due.
«Giubba azzurra, intende?» chiese Harry a Hesse. Un bel termine in codice, nautico e neutrale, per definire Re Giorgio VI, il re marinaio. Buono per i libri di storia.
«Giubba azzurra, sì. Ce la fate?». Hesse seguì lo sguardo di Douglas, fisso sul mago al centro della scena. La sega circolare si era messa a ruotare, i denti maligni che scintillavano alle luci rosate della ribalta. La ragazza fece una smorfia di finta paura. Il capitano trovò il numero banale. Distolse lo sguardo.
«Certo» rispose Douglas, senza perdere di vista il palco.
«La ragazza solleva le gambe al petto» disse il capitano, mentre sorseggiava la tiepida, acquosa birra inglese. «La lama circolare non la sfiora neanche».
«Veniamo a prenderlo alla Torre» disse Douglas. Mayhew gli aveva fornito tutti i dettagli.
«Lì troverete uno dei miei colleghi: un ometto con gli occhiali e l’uniforme da ufficiale veterinario. Fate tutto quel che vi dice, in fretta e senza domande. Capito?».
«Capito» rispose Douglas.
Le porte dell’uscita d’emergenza in ombra sul lato del golfo mistico si aprirono piano. Due soldati fecero il loro ingresso nel teatro. Alla luce rosata del palco, Douglas scorse il bagliore delle golette di metallo che i poliziotti militari tedeschi in servizio indossavano sul petto. Percorsero molto lentamente il corridoio inclinato, scrutando con metodo ogni singola faccia nelle poltrone di platea.
«Sono i suoi» osservò Harry. Tossicchiò e sorseggiò la birra.
«Feldgendarmerie» rispose il capitano Hesse. «Probabilmente solo un controllo di prassi».
Il rullo di tamburi penetrò oltre i vetri. La sega vorticava a velocità spaventosa verso la ragazza nella scatola di lacca nera. I due soldati non si lasciarono distogliere e continuarono a girare piano la testa da sinistra a destra e poi di nuovo a sinistra, come gli spettatori di una partita di tennis al rallentatore.
«Gesù!» esclamò Harry Woods. Vide la ragazza gettare indietro il capo, come in uno spasmo di dolore terribile.
«Sta fingendo» spiegò il tedesco. «Fa parte del numero». Prese il cappello e lo calzò, abbassando la tesa sul lato del volto più vicino ai due poliziotti militari.
«Saremo su un’ambulanza» disse Harry Woods. «Dovranno rimuovere le targhe. Non vale la pena di metterne due false: nessuno ferma un’ambulanza priva di targhe. E se qualcosa dovesse andare storto, l’assenza di qualsiasi numero identificativo potrebbe darci qualche minuto in più».
«Giusto» disse Hesse. Sorrise, e la luce che si accese all’improvviso sul palco gli illuminò il volto di un bagliore riflesso. «Visto? La ragazza sta benissimo».
«Giubba azzurra non sarà ammanettato o roba del genere, vero?» chiese Harry.
Hesse sorrise. «Noi tedeschi non siamo dei barbari, signor Woods. Perché mai dovrebbe essere ammanettato?».
Un accordo dell’orchestra e un applauso fragoroso, mentre il Professor Zingo afferrava la mano della graziosa, giovane assistente per aiutarla a uscire dalla scatola nera riassemblata in un unico pezzo.
«Non avremo nessun fabbro con noi» precisò Harry.
Il capitano Hesse si rilassò contro il bancone di mogano intarsiato e batté le mani. Fissava il palco, strizzando gli occhi offuscati dal fumo della sigaretta.
La porta del bar si aprì e i due «cani alla catena» lanciarono uno sguardo all’interno, le golette di metallo responsabili di quel nomignolo che scintillavano alla luce cruda. Hesse, Douglas e Harry Woods tennero gli occhi fissi sul palcoscenico, ignorando i poliziotti militari fermi sulla soglia. «Soldati, stasera?» chiese uno dei due al barista, con il tono cantilenante di chi ha imparato a memoria la frase.
«Nix» rispose il barista. Prese due bicchieri e una bottiglia di whisky. I due scrutarono ancora i tre uomini all’altra estremità del bancone, si scambiarono un’occhiata, poi si avvicinarono e si versarono da bere. Douglas lanciò loro uno sguardo in tralice e vide che non erano della Feldgendarmerie, ma soldati comuni cui erano stati attribuiti compiti di polizia, motivo per cui indossavano le golette del Kommandantur.
Il barista si allontanò dai soldati e si mise dietro ai tre all’altro capo del bancone. «Visto?» disse, mentre il mago e la ragazza tornavano alla ribalta per un altro inchino. «È successo anche lunedì sera, primo spettacolo. La ragazza zoppica. Ha il piede insanguinato, vedete? Se non raccoglie per bene le ginocchia al petto, la sega la taglia».
E tutti notarono la scarpetta da ballo bianca lacerata sulla punta e lievemente insanguinata. «A dimostrazione del fatto che si può provare quanto si vuole, ma c’è sempre la possibilità che qualcosa vada storto» celiò il barista.
I tre si portarono il bicchiere alle labbra, senza commentare.