Capitolo trentasette
«Questa è Bringle Sands». L’accento era inconfondibile: Boston, Massachusetts. Il capitano del corpo dei Marine degli Stati Uniti batté sulla piantina, e la pellicola trasparente di protezione balenò alla luce delle lampadine gialle. «Le vostre lance toccheranno terra al tramonto. La marea sarà sufficientemente bassa da far affiorare gli ostacoli. Gli uomini dovranno attraversare circa trecento metri di piana di marea...». Spiegò in fretta, per impedire ai presenti di soffermarsi su quel pericolo. «Questo offre agli ingegneri la possibilità di sgomberare e tratteggiare una pista. E significa anche che le lance potranno arrivare fin quasi a riva per venirvi a recuperare».
Guardò gli uomini, stipati gomito a gomito sulle sedie pieghevoli di metallo, del tutto fuori luogo rispetto allo stile oro e bianco del diciassettesimo secolo scelto dall’armatore francese per i suoi transatlantici. Si girò per toccare la cartina della costa del Devon, ma gli uomini continuarono a scrutare il volto del loro capitano, per scorgervi i segni premonitori del successo o del disastro. La foce del fiume Frane, Exeter, Yorkshire, Timbuctù, per loro non faceva differenza: erano nomi imparati sui libri di scuola e dimenticati. Quelli erano ragazzi cresciuti nelle fattorie del Midwest, per niente desiderosi di visitare l’Europa. I giuristi avevano insistito nel farli congedare in massa dal corpo dei Marine, per poi costringerli ad arruolarsi nell’esercito britannico come canadesi. Per rafforzare la messinscena, indossavano dei piccoli distintivi con la Union Jack sulle giubbe dell’uniforme. Tuttavia, grazie a una decisione oculata dei vertici del corpo dei Marine, avevano potuto tenere i fucili automatici Browning.
Albert Dodgson, un maggiore inglese, lasciò la sala riunioni con un cenno alla sentinella armata sulla porta. Era una solfa che aveva già sentito. Di fatto, aveva collaborato alla stesura della parte in cui si descriveva la campagna oltre Bringle Sands, tanto vicina alla sua casa natale.
L’assegnazione del maggiore Dodgston alla prima divisione dei Marine nella base di Quantico, in Virginia, risaliva ai tempi della prima allerta, dovuta a un attacco anfibio all’isola francese di Martinica, non appena la colonia aveva aderito al governo filonazista di Vichy. Quando il Presidente Roosevelt aveva autorizzato l’incursione armata a Bringle Sands, il corpo dei Marine – addestrato all’attacco anfibio e dotato dei mezzi da sbarco adatti – si era rivelato l’unico in grado di compiere l’impresa.
Dodgson si fece strada lungo il corridoio male illuminato. Uno dei turbogeneratori si era bloccato per la terza volta. Con solo duemila kilowatt, la nave si era ridotta alle luci di emergenza e a un pasto caldo al giorno. Grazie al cielo, il riscaldamento, affidato alle caldaie ausiliarie, non mancava. Erano rimasti in mare per dodici lunghi, freddi giorni invernali. Persino nel 1931, all’epoca del varo, quel transatlantico aveva impiegato ben sette giorni per attraversare l’oceano. L’interponte della paratia anteriore, originariamente destinato ai veicoli e alle merci, ospitava due grossi mezzi da sbarco. Altri due erano stati collocati in quella che un tempo era la stiva di poppa, con quasi duemila metri quadrati di spazio refrigerato. A bordo di ogni mezzo da sbarco c’era un curioso veicolo ibrido, con il davanti di un camion e il retro di un carro armato. All’interno di due semicingolati M.3 di nuova concezione, c’era un marchingegno progettato e realizzato nei laboratori di ingegneria dei Marine a Quantico. Un mese prima, era stato dimostrato che la «vergine di Norimberga» era in grado di stritolare in meno di dieci minuti persino l’archivio tedesco più resistente, senza danneggiare i documenti che custodiva.
Il maggiore Dodgson non era un Marine. Si era guadagnato la medaglia per DSO con i Royal West Kents nel 1940, in Francia. Detestava il mare da sempre e quella traversata aveva solo rafforzato il suo pregiudizio. Non riusciva ad adattarsi al movimento continuo, agli alloggi angusti, che gli procuravano una lieve claustrofobia, e ai forti gemiti e brontolii metallici che salivano dalle viscere della nave. Ma più di ogni altra cosa, odiava la vibrazione. Una delle eliche si era lievemente danneggiata durante il primo giorno di navigazione e la nave aveva perso stabilità. Persino mentre percorreva il ponte di coperta verso quella che un tempo era la passeggiata della seconda classe, avvertiva il tremore della grande scalinata di marmo bianco sotto i piedi.
Impiegò diversi minuti a individuare le sagome scure delle altre navi sotto la pioggia battente. Avanzavano a fatica, con solo le luci di sicurezza a penetrare il cielo coperto che schiacciava il vapore dei fumaioli. Trovò gli altri ufficiali americani esattamente dove li aveva lasciati, a scrutare oltre i vetri bagnati. C’era odore di sigaro.
«Hanno finto la riunione?» chiese il capitano Waley, che sarebbe stato a bordo del primo mezzo da sbarco. Come molti, era un ufficiale in carriera. Era stato inserito tra i riservisti e si lamentava spesso del fatto che a quel punto sarebbe stato un maggiore se nel suo gruppo i gradi non fossero stati conferiti in ordine alfabetico. Waley doveva unirsi a una cellula della Resistenza britannica, che li avrebbe condotti allo stabilimento di ricerca seguendo un tracciato stabilito. Tre dei semicingolati avrebbero risposto ai suoi comandi. Aveva l’ordine di conquistare lo stabilimento e di reggere fino a quando un certo Ruysdale non gli avesse permesso di ritirarsi, o fino a quando tutti i suoi non fossero stati eliminati. Chiunque conoscesse Waley sapeva che l’ordine sarebbe stato interpretato alla lettera. Non a caso, gli uomini del suo gruppo avevano compilato e sottoscritto il testamento prestampato che avevano in dotazione.
«Mi passi un sigaro, Jakie?» chiese Dodgson a Hoge, un ufficiale che aveva fama di non esserne mai sprovvisto.
«Sicuro» disse Hoge. Dodgson andava d’accordo con gli americani. La sua esperienza nella guerra contro i tedeschi gli aveva fatto guadagnare il loro rispetto; la sua modestia e qualche scontro disastroso con l’alta società virginiana gli avevano fatto guadagnare la loro amicizia. «A me pare» esordì Hoge, con l’accento dell’Alabama che Dodgson, quando era alticcio, cercava di imitare, «che questi mangiacrauti siano stati dei veri pazzi a costruire un laboratorio segreto quasi sulla spiaggia».
Hoge e Dodgson avrebbero condotto insieme l’attacco diversivo, architettato per allontanare i tedeschi dallo stabilimento di ricerca, mentre la squadra principale assaltava l’edificio dall’altro lato.
«Sempre che i figli di puttana non lo abbiano trasferito in un luogo più sicuro» disse Waley, dando voce a un timore già espresso a Washington.
Poi l’ultimo del gruppo prese la parola. Più anziano degli altri, era un ometto goffo, per niente marziale, con un forte accento tedesco. «Un reattore atomico, del tipo che probabilmente hanno costruito, ha bisogno di acqua, tantissima acqua».
«E un fiume non basta?» chiese Dodgson.
«L’acqua di ricircolo contiene scorie radioattive» spiegò il tedesco. «Non è il caso di sversarla in un fiume». Gli altri annuirono. L’ometto era l’unico ad avere ben chiaro l’obiettivo di quell’attacco arbitrario. Sui suoi documenti c’era scritto tenente Ruysdale, cittadino canadese di origine olandese, ma nessuno conosceva la sua vera identità. Gli altri di solito lo chiamavano «Professore». Sapevano solo che quando Waley avesse espugnato lo stabilimento di ricerca, Ruysdale gli avrebbe indicato quali archivi sottoporre alla stretta della vergine di Norimberga e quali documenti, materiali e uomini andassero caricati sui semicingolati e portati a bordo, volenti o nolenti.
«Professore» lo interpellò Waley, senza staccare gli occhi dal vetro sferzato dalla pioggia della passeggiata, «dicono che Hitler potrebbe mandare gli USA al tappeto con il tirapugni che gli stiamo sfilando dal guanto. È vero?».
Gli altri evitarono di guardarlo, ma Ruysdale sapeva che tutti gli uomini della flotta si ponevano quella stessa domanda. «È vero, amici miei» disse. Ma persino per lui, che era al fianco del grande Otto Hahn all’Istituto di Chimica Kaiser Wihlelm, il giorno a ridosso del Natale del 1938 in cui si era reso conto di aver diviso il nucleo dell’atomo di uranio; persino per lui la potenziale capacità distruttrice di un’esplosione atomica era a malapena immaginabile. L’uomo che chiamavano Ruysdale avrebbe voluto dir loro che valeva la pena di sacrificare la vita in quella missione, ma aveva imparato che gli americani non apprezzavano certi discorsi. Invece, accettò un sigaro di Hoge e disse: «A che ora danno il film con Betty Grable?».
«Alle due e mezza» rispose Waley. La visione del film li avrebbe avvicinati al momento di prepararsi allo sbarco, sempre che non fossero prima incappati nelle forze navali tedesche.
A quel punto fissarono tutti l’altro natante al di là del vetro. Anche quello era stato un transatlantico francese, capace di trasportare comodamente 643 passeggeri di seconda classe da Le Havre a New York. Ma era privo degli enormi alberi di carico necessari per sostenere il peso di quattro grossi mezzi da sbarco. A bordo, aveva solo i mezzi da sbarco da assalto, talmente piccoli da stare appesi alle gru delle scialuppe di salvataggio regolamentari a 99 posti. Quasi tutti, però, erano stati danneggiati dal mare grosso incontrato durante la traversata. I nuovi piani prevedevano che ne venissero usati solo due. Una volta che Waley e i suoi fossero sbarcati, i quattro mezzi da sbarco sarebbero tornati indietro per prendere a bordo il secondo carico di uomini, che si sarebbero mescolati ai gruppi sulla spiaggia per sferrare l’attacco diversivo.
Ruysdale aveva una mente da scienziato, più che da soldato, e gli riusciva difficile scendere a patti con il fatto che sui mezzi da sbarco ci fosse la metà dei posti rispetto al numero di uomini nella squadra d’assalto.