Capitolo quaranta

Lo Standartenführer Huth alloggiava in un appartamento dell’edificio riservato ai visitatori di alto rango all’interno dello stabilimento. Avrebbe trascorso le ultime ore di vita nel lusso. C’era una bottiglia di brandy sul tavolinetto, accanto al vassoio con la colazione intatta, le caraffe d’argento, la porcellana tedesca e lo zucchero raffinato.

«Dunque Kellerman le ha permesso di venire?».

«Sì, Standartenführer».

Dalla finestra, Douglas vide il laboratorio incendiato. Il vento soffiava tanto forte da trasportare i frammenti carbonizzati dei documenti fin lassù, prima di mandarli a vorticare sull’erba strappata e di incastrarli nel filo spinato.

«L’esercito ha deciso di abbandonare il programma di ricerca atomica» disse Huth. «Lo sapeva?».

«È quel che voleva».

«Ma non così. Nessuno a Berlino intende sostenerlo, e il Reichsführer non permetterà alle SS di proseguire l’opera. Gli americani fabbricheranno la bomba... e vinceranno la guerra che faranno scoppiare quando saranno pronti. Noi tedeschi siamo una razza miope, Archer. Il nostro esercito comincia già a pensare che l’attacco della notte scorsa sia stato una benedizione insperata».

«Perché mai?».

Huth indicò la finestra e gli edifici devastati. «L’attacco permetterà di mantenere la legge marziale per almeno un anno. Dio solo sa quanti milioni di Reichsmark verranno stornati nelle casse dell’esercito ai fini di organizzare la difesa contro un nuovo attacco. Oh, all’Abwehr ne saranno deliziati e, non bastasse, potranno comandare Kellerman a bacchetta».

Huth andò al tavolinetto e aprì la bottiglia di brandy. «E Kellerman ne sarà deliziato a sua volta» proseguì. «Manterrà il suo lavoro, si libererà di me e nessuno indagherà più sui suoi movimenti finanziari». Sorrise. Immaginava che qualcuno stesse registrando la conversazione. Che venisse raccolta su disco o sul nuovo sistema di registrazione a nastro, Kellerman ormai non poteva più utilizzarla come prova, senza rischiare in prima persona. Sempre che non la manomettesse in modo marchiano. «Kellerman farà di me il suo capro espiatorio. Qualsiasi reato irrisolto, truffa o fallimento verrà imputato a me. Ha persino tentato di implicarmi nell’attentato a Highgate. Posso offrirle da bere?».

«Grazie, signore».

«Abbandoniamo i formalismi». Huth gli porse una dose generosa di brandy. «Abbiamo tutti puntato alto. Kellerman ha vinto, e anche Mayhew. Non intendo recriminare».

«Mayhew?».

«Mi aveva promesso il mondo. È il suo stile: lusinghe e promesse, eh?». Si accasciò su una poltrona e bevve avidamente.

«Sì, è il suo stile».

«Mi ha detto dell’attacco, mi ha persino aiutato a preparare l’imboscata».

«Non ci credo!».

«Altroché. Mi ha aiutato a intercettare l’assalto diversivo. Ci sono cascato. Ma mentre noi combattevamo, il grosso del commando ha attraversato la campagna con i semicingolati e ha abbattuto lo stabilimento di ricerca».

«La squadra di assalto diversivo è stata praticamente annientata» commentò Douglas, inorridito dall’enormità della cosa.

«Mayhew era determinato a trascinare quegli americani in battaglia. Ha fatto uccidere il dottor Spode e distruggere tutti i suoi documenti per impedirgli di portarli all’ambasciata degli Stati Uniti. Lei gli ha consegnato la pellicola, e lui l’ha bruciata. Voleva che gli yankees riuscissero a mettere le mani sulla ricerca solo combattendo contro di noi, in modo da spingerli a entrare in guerra. Ha sbagliato solo sul re». Fece spallucce. «Ma commettiamo tutti degli errori, di tanto in tanto». Sorrise, con feroce autoironia.

«Il re è stato ucciso».

«Mayhew avrebbe dovuto credere di più al suo stesso piano. In un primo tempo, aveva pensato di mandare il re incontro al commando. Avrebbero potuto caricarlo sui semicingolati insieme ai documenti».

«Certo» disse Douglas, che però stava arrivando alla terribile conclusione che Mayhew non avesse progettato nulla del genere. Mayhew aveva deliberatamente spedito il re sul sentiero scosceso, sapendo che gli uomini di Huth erano in agguato, pronti a tendere l’imboscata. Aveva giocato a fare Dio. A scrivere la storia, assicurandosi che il re morisse al fianco dei suoi alleati americani. Meglio questo, che un re esule a Washington, patetico e malato, bersaglio della crudeltà dei vignettisti, beniamino delle signore che lo ospitavano e costante promemoria dell’Inghilterra altrettanto patetica e malata, occupata dai conquistatori tedeschi. Sì, Douglas cominciava a capire i meccanismi di una mente politica. Senza dubbio, la regina e le principesse erano già dirette a Washington DC.

«Lei è fortunato, Archer».

«Perché sono sopravvissuto?».

Huth scosse il capo. «No, la sua vita non è mai stata in gioco. Era stato deciso a monte».

«Deciso? Quando? Da chi?».

«Quando Harry Woods ha accettato di diventare un informatore di Kellerman, e di comunicargli tutte le mosse e gli incontri cui lei avrebbe preso parte, nonché ogni singola parola che gli fosse riuscito di carpire».

«Harry Woods? Il mio Harry?».

«Woods ha telefonato a Kellerman dicendogli dell’ambulanza appena lei è scomparso all’interno del Reform Club. Kellerman ha affrontato l’Abwehr, fingendo di sapere quel che stavano facendo. Così è riuscito a portare qui i suoi uomini, proprio quando il commando era in fase di ritirata. Non mentre infuriava la battaglia, come potrà notare. Kellerman non voleva che finisse, voleva che fosse un successo. Dopodiché si è sbrigato a intervenire con il suo tribunale volante e con il plotone d’esecuzione... che stanno consumando la colazione nella mensa. Hanno avuto una mattinata impegnativa, sa? Devono avere le spalle coperte di lividi, ormai».

«Quando? Quando avrebbe agito, Harry?».

Huth sospirò. «Quando era in arresto. Hanno patteggiato. Lei è un poliziotto, sa bene come possono ridurre un uomo poche ore in stato di fermo».

«Harry Woods ha il coraggio di un leone».

«Non crederà che Kellerman sia tanto crudele da minacciare violenza, vero?».

«E cosa, allora?».

«Lei».

«Io?».

«Lei è uno sciocco, Archer. Non si rende conto che Harry Woods la considera il figlio che non ha mai avuto? Non capisce quanto sia orgoglioso di ogni sua azione? Non sa che, persino quando ad avere successo è lui, dichiara che dietro quella vittoria c’è lei?».

«No, non me ne ero reso conto» disse Douglas in un soffio.

«Kellerman aveva intenzione di mandare suo figlio presso un collegio per bambini in Boemia, una sezione della Gioventù hitleriana. Inutile dirle che avrebbe finto che si trassasse di un meraviglioso gesto di generosità, ma Harry ha smascherato la minaccia che celava». Tirò su col naso, e se lo soffiò. «Sapeva che era il modo migliore per renderla terribilmente infelice...».

«Mi sfugge ancora qualcosa».

«Harry ha collaborato con Kellerman, in modo da salvare lei e il bambino. Andiamo, Archer, è un trucchetto piuttosto comune. Non ha mai offerto protezione a un informatore in cambio di una soffiata davvero buona? Ebbene, Harry ha vuotato il sacco e Kellerman ha mantenuto la parola. Stamattina lei e Harry avete subito un processo lampo e siete stati scagionati. Gliene sia grato».

«Harry ha fatto questo per me?».

«Ha ben poche gioie» ribatté Huth, brusco. «Una topaia di casupola, una moglie bisbetica. Forse, se avessero avuto figli, le cose sarebbero andate diversamente».

«Ma Harry ama sua moglie».

Huth scosse il capo. «Tanto tempo fa... poi ha preferito la sua segretaria, Sylvia Vattelappesca. Quella che si è fatta ammazzare nel tentativo di salvarlo. Ma si trattava di questioni strettamente legate alla Resistenza».

«Lei sa proprio tutto».

«Ecco perché mi giustizieranno» disse Huth, con tono imparziale. «Io so decifrare le persone, Archer. È un’arte che un poliziotto dovrebbe conoscere a fondo».

«Non desidero affatto essere quel tipo di poliziotto».

«Dovrà essere qualunque tipo di poliziotto sia utile a Kellerman. Almeno per ora». Sorseggiò il suo brandy. «Che ore sono? Si sono presi il mio orologio».

«Quasi le dieci».

«Non resta molto». Accese una sigaretta. «Suo figlio vuole fare il poliziotto?».

«In motocicletta, sì».

Huth sorrise. «È fortunato, Archer. Lo protegga da queste vicende disgustose».

Douglas non rispose. Fuori dalla finestra, vide la Rolls Royce scintillante di Kellerman. L’autista stava lucidando il parabrezza con cura meticolosa.

«Mi duole per la donna, quella Barga. Mi duole per come sono andate le cose».

«Sì» rispose Douglas. Non ne voleva parlare.

«Non appena Kellerman ha saputo che avevate abbandonato l’ambulanza, ha mandato laggiù un paio di scagnozzi della Gestapo».

«Da Barbara? Ho telefonato, il tizio che ha risposto ha detto di essere il lavavetri».

«Non sono particolarmente intelligenti, lo sa».

«Gli ho creduto» ammise Douglas. «Ho richiamato, lei era in casa. È stata brusca, quasi rude».

«Ha cercato di metterla in guardia, eh? Be’, ha fatto una sciocchezza. Doveva amarla molto. Forse a mandarli in bestia è stato proprio il suo tentativo di avvertirla. L’hanno picchiata con troppa violenza. Non era previsto. La morte di una giornalista americana richiederà moltissime spiegazioni».

«Aveva la voce debole. Sussurrava, per non farsi sentire».

«Perché questa gente la ama tanto, Archer? Solo perché lei ricambia poco o per niente?». Scosse il capo, accantonando quell’enigma. «Gli uomini della Gestapo non hanno sentito squillare il telefono. La donna era salita al piano di sopra per prendere il cappotto. Deve aver colto lo scatto del telefono prima che squillasse».

«E io a pensare che non volesse vedermi».

«Non siamo mai bravi con le persone che amiamo. Potrebbe portare un messaggio a mio padre?».

«Mi spetta una licenza e ho il permesso di andare in Germania. Ma pensavo che lo odiasse».

«Dica a mio padre dell’assalto, sempre che la censura glielo permetta. Gli dica che c’è stata una sparatoria e che io sono rimasto vittima del fuoco incrociato. Gli dica che sono morto coraggiosamente. Gli rifili tutte le puttanate che i padri vogliono sentire sui figli e i figli sui padri».

Bussarono lievemente alla porta e un giovane ufficiale delle SS diede allo Standartenführer cinque minuti per prepararsi. Fece il saluto, puntigliosamente.

«Bene, devo lucidarmi le scarpe, farmi la scriminatura ai capelli e prepararmi a recitare il ruolo da protagonista di questo melodramma teutonico. Nel rapporto ufficiale, si scriverà che sono caduto in battaglia».

«Porterò il suo messaggio» disse Douglas.

«Vittima del fuoco incrociato. La cosa migliore da dire». Sorrise, sardonico.

Douglas prese il montgomery di Mayhew dalla sedia dove l’aveva poggiato. Lo infilò e allacciò le olivette di legno. Fuori doveva far freddo, e lui era lieto di indossare quel cappotto troppo grande con quello strano profumo. Fu solo allora che gli riuscì di identificarlo: era l’odore del tabacco da presa. Ovviamente, il Romeo y Julieta fumato a metà e il tabacco rovesciato dalla scatoletta rotta nella tasca del panciotto del dottor Spode non erano prove sufficienti. Ma lui era più che certo che Mayhew avesse riportato Spode all’appartamento di Shepherd Market, dove l’aveva ucciso prima di passare quasi tutta la notte a bruciare i calcoli matematici. Doveva impedire agli americani di entrare in possesso di quelle cifre vitali e, cosa ancor più importante, doveva impedire loro di parlare con il dottor Spode. Mayhew voleva coinvolgere gli americani nel conflitto.

«Siamo tutti vittime del fuoco incrociato» ripeté Huth.

«Addio, Standartenführer» disse Douglas, abbottonando il collo del cappotto. Dalla finestra, vide la Rolls del generale Kellerman dirigersi verso il cancello principale, i gagliardetti al vento.