2. La tesi contraria di Emil Brunner

La contrapposizione radicale a questa armonica soluzione viene manifestata dalla teologia del teologo riformato Emil Brunner, teologia che però qui, in forma a dire il vero molto decisa, discute soprattutto una sostanziale istanza della teologia riformata[8]. Brunner collega la sua teologia con il sorprendente dato di fatto che Dio nella Bibbia ha un nome. È un fatto che si pone indubbiamente in contrasto con la tendenza fondamentale della teologia filosofica. La filosofia preferisce, al di sopra del particolare e del molteplice che ha un nome, procedere direttamente all’universale, al concetto. Ciò che ha un nome è unico, accanto al quale c’è il simile; la filosofia invece ricerca il concetto, che, in quanto indicazione dell’universale, è l’esatto opposto del nome. Così, anche la teologia filosofica tende conseguentemente a procedere dai nomi di Dio al concetto di Dio. Essa è tanto più pura quanto più è riuscita a passare dai nomi al nudo concetto. Ma il Dio biblico ha un nome ed è un unico, un determinato, anziché essere “l’Assoluto”. E questo fatto che Dio abbia un nome non è semplicemente un difetto dei primi passi, forse ancora semi-politeistici, dell’Antico Testamento, che poi, con un crescente raffinamento del concetto di Dio, venne più o meno eliminato. No: si può osservare nella Bibbia un duplice sviluppo in questo modo, cioè che i singoli determinati nomi di Dio regrediscono sempre di più, mentre nello stesso tempo si rafforza piuttosto la coscienza che Dio ha un nome. Sì, lo scritto con più ampio sviluppo teologico del Nuovo Testamento, il Vangelo di Giovanni, riassume la funzione di Gesù addirittura in questo, cioè nel fatto che egli ha rivelato agli uomini il nome di Dio: «Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini» (Gv 17,6; cf. anche 17,26: «E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere»; 12,28: «Padre, glorifica il tuo nome», come scopo della vita di Gesù; cf. inoltre la preghiera del Padre Nostro: «sia santificato il tuo nome», Mt 6,9); e Cristo si pone per così dire come il nuovo Mosè, come colui che ne ha nuovamente eseguito il compito in maniera più alta: la rivelazione del nome di Dio e quindi la creazione di una situazione di rapporto tra uomo e Dio.
Cosa deve significare, ora, questo fatto del nome di Dio? “Nome” non è parola che esprime conoscenza dell’essere, ma rende un essere “chiamabile” (anrufbar), e nel dare questa “chiamabilità” (Anrufbarkeit), fornisce l’inquadramento sociale del chiamato; dalla “chiamabilità” deriva la relazione di coesistenza con gli esseri da chiamare. Se Dio si dà un nome tra gli uomini, con questo non esprime propriamente il suo essere; piuttosto, produce la “chiamabilità”, diviene accessibile all’uomo, entra con lui in relazione di coesistenza, o ammette l’uomo alla coesistenza con sé. Di qui ha valore il fatto che Dio, in quanto semplicemente al di sopra dell’uomo, non può essere chiamato dall’uomo, né deve essere costretto da lui nella “chiamabilità”; Dio diventa “chiamabile” solo quando si lascia chiamare; il suo nome viene conosciuto solo quando egli stesso lo rende noto. Dunque, la relazione di coesistenza può essere creata, qui, non dall’uomo, ma solo da Dio. Ma in tal modo il nome di Dio diviene espressione del fatto che Dio è uno che chiama se stesso, che si rivela, e non uno che viene ideato via causalitatis. In questo diviene chiara, nello stesso tempo, un’importante diversità con il modo in cui la filosofia greca vede il rapporto con Dio. Nella filosofia è l’uomo, che ricerca Dio; nella fede biblica è Dio stesso e soltanto Dio, che in libertà creativa produce il rapporto uomo-Dio. In tal modo diventa già più chiara e più determinata la differenza tra nome di Dio e concetto di Dio, tra Dio della fede e Dio dei filosofi. «Il “Dio dei filosofi” è il Dio che non si prega, il Dio con il quale c’è sicuramente unità (Einheit) – cioè l’unità che il pensiero stesso pensa come “profondissima verità” –, ma non c’è comunione (Gemeinschaft), comunione che viene creata da Dio stesso. Per questo si arriva ad affermare che il discorso della rivelazione del nome di Dio è un primitivo antropomorfismo. Questo argomento non è altro che la difesa disperata dell’Io che vuole rimanere con se stesso, che non vuole farsi aprire, che non vuole farsi spostare dal centro del proprio essere, che vuole affermare se stesso contro il Dio che l’ha creato… Questo, quindi viene inteso con il concetto di “nome di Dio”, così decisivo per la testimonianza biblica, così scandaloso per il pensiero filosofico di Dio: il mistero dell’essenza del Dio vero, personale, che si rende accessibile attraverso la Rivelazione, che soltanto in questa Rivelazione può essere riconosciuto come tale… Il Dio della Rivelazione è quello da riconoscere solo nella Rivelazione. Dio, così come viene pensato al di fuori di questa Rivelazione, è altra cosa; è qualcosa di pensato, quindi non è quello personale; egli non è colui la cui essenza è partecipare se stesso»[9].
Il contrasto tra Dio della fede e Dio dei filosofi, così come appare nel fatto del nome di Dio, si acuisce massimamente nel nome centrale di Dio nella Bibbia: Jahvè. La Bibbia ebraica parafrasa e interpreta questo nome con le parole “aehjaeh asˇaer aehjae”: «Io sono colui che sono»; la LXX[10]mette al posto della forma attiva del verbo ripetuta due volte, il participio nel secondo caso: Ego eimi o on (Es 3,14): l’«Io sono» diventa così un participio presente («colui che è»). In tal modo si prendeva una decisione d’incalcolabile portata, poiché con questa traduzione si forniva una formulazione decisiva per la sintesi tra immagine greca e immagine biblica di Dio. Le conseguenze di questa traduzione sulla teologia patristica e scolastica sono note; fu chiaro a questa teologia che qui Dio chiama se stesso «colui che è», e con questo rivela la sua essenza metafisica, la quale consiste nel fatto che egli è ens a se, in cui essenza ed esistenza (Wesen und Dasein) coincidono nell’unità. Cioè: quello che è il concetto supremo dell’ontologia ed il concetto finale della teologia filosofica appare qui come l’autoaffermazione centrale del Dio biblico. La parola garantisce quindi l’unità di Scrittura e filosofia, e diventa uno dei ganci più importanti che le uniscono. Il nome Jahvè viene quindi interpretato come affermazione di essenza, in cui Dio svela il fondamento primordiale (Urgrund) della sua essenza, in modo tale che, in verità, si tratta per l’appunto non più del “nome”, ma del “concetto”. A questo punto subentra la critica di Brunner, che, detto brevemente, consiste nell’affermare che con questo il significato dell’asserzione biblica sarebbe capovolto e in fondo rovesciato. «Fu un equivoco totale e disastroso nei suoi effetti, quando i Padri della Chiesa greca arrivarono a dire che dal nome di Jahvè … si poteva ricavare una definizione ontologica. L’“Io sono colui che sono” non può essere tradotto in maniera definitoria-speculativa: Io sono “colui che è” (der Seiende). In tal modo non solo non viene afferrato il significato di questa affermazione, ma si rovescia il concetto della Rivelazione biblica tramutandolo nel suo opposto: si trasforma il nome, l’indefinibile, in una definizione. Il significato della circonlocuzione è appunto questo: Io sono il misterioso e voglio rimanere tale; io sono colui che sono. Io sono l’incomparabile, e perciò colui che non si deve definire, colui al quale non si deve dare un nome…»[11]. Altrove Brunner parla di un equivoco addirittura tragico nelle sue conseguenze[12], e condanna il legame stabilito da Agostino tra ontologia neoplatonica e nozione biblica di Dio[13]. Si tratta qui, per Brunner, non di un singolo equivoco esegetico, come rimane sempre possibile, ma della falsificazione centrale del messaggio biblico, poiché proprio nel nome di Dio si scontrano l’uno con l’altro gli estremi opposti: qui si trova da un lato il Dio che si fa riconoscere nella denominazione del suo nome come il “Tu” e si apre sull’uomo, gli offre se stesso per stabilire una comunione con lui; dall’altro lato si trova il pensiero filosofico, che nella rivelazione del nome vede un antropomorfismo, e quindi, in definitiva, rifiuta la stessa Rivelazione. «Il pensiero razionale autosufficiente non vuole riconoscere nulla che si trovi al di là della propria possibilità». «Esso vuole… soltanto la verità contrassegnata dall’“io penso”, ma non la verità contrassegnata dall’“eccoti”…»[15].
L’errore dei Padri e degli Scolastici consisterebbe dunque in questo, cioè nel fatto che essi, con la loro sintesi tra Dio della fede e Dio dei filosofi, vi leggono dentro proprio ciò che è il suo contrasto radicale, e quindi non colgono, ma travisano fino in fondo, l’essenza della Rivelazione cristiana.
Con questo, il problema che c’è dietro l’antitesi tra Dio della fede e Dio dei filosofi è stato sicuramente spinto fino all’ultima profondità possibile. Esso diventa, qui, soprattutto la questione circa l’essenza del cristianesimo, la questione circa la legittimità della sintesi tra pensiero greco e pensiero biblico che dà forma concreta al cristianesimo, quindi la questione circa la legittimità della coesistenza di filosofia e fede, e circa la legittimità dell’analogia entis in quanto positiva formulazione del rapporto tra conoscenza razionale e conoscenza di fede, tra essere naturale e realtà della grazia, ma quindi, infine, anche la questione decisiva circa la differenza tra l’interpretazione cattolica e quella evangelica del cristianesimo[16]. In una parola: la problematica “Dio della fede e Dio dei filosofi” abbraccia, così intesa, come in un punto cruciale, l’intera problematica fondamentale della teologia, che nell’universo delle discipline teologiche costituisce il compito difficile e nello stesso tempo meraviglioso di chi si occupa di teologia fondamentale.